Questo confronto è,
in qualche modo, un efflusso dell’articolo «A
Pentecoste lo Spirito discese solo sui dodici apostoli». Abbiamo
asserito altrove che a Pentecoste lo Spirito venne solo sui dodici apostoli,
visto che vennero tutti indicati come «Galilei» (At 2,6; v. 14 Pietro e gli
altri undici). Non torneremo su questo aspetto e non considereremo ciò, che vi
fa riferimento.
1. PENTECOSTE E I SOLO GALILEI
1.1.
QUESTIONE: […] La frase «tutti questi che parlano, non sono Galilei?»,
non è un espressione di Luca, ma riporta quello che la folla disse in
quel momento e con riferimento alla maggioranza dei credenti presenti,
che erano originari della Galilea. «Le frasi attribuite alla folla e riportate
nei versi 7-11 sono assai evidentemente un semplice riassunto delle cose dette,
raccolte per ragioni letterarie in un’unica affermazione corale; è quindi lecito
supporre che solamente alcuni elementi della folla erano in grado di
riconoscere nei discepoli dei galilei» [I. Howard Marshall, Atti degli
Apostoli (ed. G.B.U.)]. {Antonio Capasso; 17-09-2011}
1.2.
RISPOSTA: L’inizio del contributo l’ho omesso, poiché il mio
interlocutore ripeteva argomenti a favore dei «quasi centoventi», che sarebbero
stati presenti a Pentecoste, cosa che aveva già espresso ripetutamente altrove e
a cui avevo già dato una risposta. [►
A Pentecoste lo Spirito discese solo sui dodici apostoli; ►
A Pentecoste lo Spirito discese solo sui dodici apostoli? Parliamone 2: I
fatti dall’ascensione a Pentecoste; ►
La successione dei fatti in Luca 24;
►
Giacinto Butindaro strumentalizza René Pache sui quasi centoventi]
Non intendo ritornarci sopra nuovamente, visto che gli argomenti sono
sempre gli stessi e ripetitivi. Passiamo ora al merito di ciò che riguarda
l’attuale tema.
1.1.1. UN’OPINIONE
NON È UNA PROVA: Quanto a ciò che afferma I. Howard Marshall, quella è la sua
legittima opinione, ma non è una prova esegetica, visto che non ha fatto
nulla per dimostrare la sua tesi. Una dichiarazione aprioristica, non è una
prova, ma solo una convinzione personale. Egli a circa due millenni di
distanza si arroga il diritto di sapere ciò, che gli Ebrei erano in grado di
riconoscere dei loro propri dialetti.
Coloro che furono investiti dallo Spirito e parlarono in lingue a Pentecoste,
erano tutti «Galilei» (At 2,7); ciò escludeva che si trattasse dei «circa
centoventi»
credenti maschi, che non potevano essere tutti Galilei.
Gli Evangeli menzionano diversi credenti maschi
provenienti dalla Giudea (p.es. Giuseppe di Arimatea, Mt 27,57; Gv 19,38;
i due discepoli di Emmaus, Lc 24,13; Zaccheo di Gerico, Lc 19; un simpatizzante
di Gesù in Betfage, Mt 21,1) e da Gerusalemme (p.es. Nicodemo, Gv
19,39s). Senza contare le varie donne giudee o gerosolimitane (cfr.
Marta e Maria, Gv 11,1.19).
Inoltre, a Gerusalemme c’erano molte persone che
avevano creduto in Gesù quale Messia: «Mentre egli era in Gerusalemme alla
festa di Pasqua, molti credettero nel suo nome» (Gv 2,23; cfr. 7,31;
8,30; 10,42). «Molti dei Giudei, che erano venuti da Maria e
avevano veduto le cose fatte da Gesù, credettero in lui» (Gv 11,45 Betania;
12,11). «Molti, anche fra i capi, credettero in lui» (Gv 12,42).
Tutti questi non li si poteva
certo chiamare «Galilei». I. Howard Marshall, essendo partito
dall’assunto che si sarebbe trattato dei «quasi centoventi», è stato troppo
superficiale e frettoloso nelle sue conclusioni, avendo fatto dichiarazioni,
senza sostenerle con delle prove esegetiche. La sua è un’opinione non
condivisibile e fuorviante.
1.1.2. I GALILEI
ERANO RICONOSCIBILI: Per essere riconosciuti come Galilei (At 2,7), i parlanti
in altre lingue dovevano essere un gruppo ridotto, individuabile, compatto e
riconoscibile; questi criteri erano adempiuti proprio nel caso dei dodici
apostoli, che già precedentemente furono chiamati «uomini galilei» (At 1,11)
e che si presentarono insieme e compatti in pubblico (At 2,14). Tale criterio
sarebbe stato difficile da applicare a masse di più di un centinaio di
persone, la cui provenienza era necessariamente eterogenea, visto che i fatti
avvenivano a Gerusalemme, dove di credenti ce n’erano tanti.
Per la capacità degli Ebrei in genere e degli abitanti della i Giudea di
riconoscere i Galilei, si vedano i seguenti brani.
■ Alcune serve dissero a Pietro in successione: «Anche tu eri con Gesù il
Galileo… Per certo tu pure sei di quelli, perché anche
la tua parlata ti dà a conoscere»
(Mt 26,69.73). «Costui è di quelli… Per certo tu sei di quelli, perché poi
sei galileo» (Mc 14,69s). «Anche costui era con lui… Anche tu sei di
quelli… Certo, anche costui era con lui, poiché egli è Galileo» (Lc
22,56.58s).
■ Pilato, essendo straniero e non-giudeo, non aveva la capacità di discernere la
provenienza degli Ebrei. I capi sacerdoti gli dissero in riferimento a Gesù: «Egli
solleva il popolo insegnando per tutta la Giudea; ha cominciato dalla Galilea
ed è giunto fin qui. Quando Pilato udì questo, domandò se quell’uomo fosse
Galileo» (Lc 23,5s).
■ I due uomini in vesti bianche non si sbagliarono a chiamare gli apostoli
«uomini Galilei» (At 1,11); né si errarono gli Ebrei a individuare
coloro, che comunicavano con loro nelle loro proprie lingue, come «Galilei»
(At 2,7).
■ Luca da Ebreo non avrebbe riprodotto una imprecisione, quando riportò le
parole degli Ebrei. Altrimenti avrebbe detto e aggiunto: «E tutti stupivano e
si meravigliavano, dicendo: “Ecco, tutti costoro che parlano non son essi
Galilei?”. Poiché era così che essi pensavano che fossero». Luca usò
tale precisione, ad esempio qui: «E Gesù, quando cominciò anch’egli a
insegnare, aveva circa trent’anni ed era figlio, come si credeva, di
Giuseppe…» (Lc 3,23).
2. SEGNALI RIVELATORI DEI GALILEI
2.1.
QUESTIONE: Caro Nicola Martella, mi togli una curiosità? Visto che i
Dodici parlavano in altre lingue, da che cosa la folla capì che erano
Galilei? {Antonio Capasso; 17-09-2011}
2.2.
RISPOSTA: Questa di Antonio Capasso è un’interessante questione, di cui
complimentarsi; finalmente mi è arrivata qualcosa di originale, dopo tante
ripetizioni degli stessi argomenti.
Probabilmente lo capirono dalla cadenza e dalle particolarità
linguistiche. Io, che ho una grande passione per i dialetti, in genere
riesco a capire da dove provenga un italiano, sebbene mi parli in tedesco; si
veda, ad esempio, un siciliano, un napoletano o un sardo, che in genere
mantengono la loro
colorazione linguistica, qualunque sia la loro appartenenza sociale.
Ad esempio, un
napoletano mantiene in genere la sua cadenza, le sue particolarità
linguistiche e la sua mimica, sebbene cerchi di parlare in italiano, in tedesco
o in un’altra lingua. Un napoletano, ad esempio, mantiene la sua «šp» (= sc
dolce [= sh] +p), sia che dica «špecchio», sia che dica il corrispondente
tedesco «Spiegel» (in Germania, similmente come in Italia, al sud dicono
«Špiegel» e al nord «Spiegel»).
Le particolarità linguistiche originali si mantengono nel tempo; e questo
succede tanto più se, come Pietro e di Giovanni, si è «popolani senza
istruzione» (At 4,13).
Al tempo dei Giudici, la differente pronuncia poteva costare anche la
testa: «E i Galaaditi intercettarono i guadi del Giordano agli Efraimiti; e
quando uno dei fuggiaschi d’Efraim diceva: “Lasciatemi passare”, gli uomini di
Galaad gli chiedevano: “Sei tu un Efraimita?”. Se quello rispondeva: “No”, i
Galaaditi gli dicevano: “Ebbene, dì Scibboleth”; e quello diceva “Sibboleth”,
senza fare attenzione a pronunciare bene; allora lo pigliavano e lo
scannavano presso i guadi del Giordano» (Gdc 12,5s). Si vede che i Galaaditi
avevano la stessa cadenza napoletana, mentre gli Efraimiti parlavano come i
Veneti!
Se ci sono stati anche delle differenze culturali nel modo di vestirsi,
bisognerebbe approfondirlo. Tuttavia, Pietro fu riconosciuto per il
modo di parlare, ossia per la sua cadenza e inflessioni dialettali (Mt
26,69.73).
3. COLORO, CHE ASCOLTARONO I GALILEI
3.1.
QUESTIONE: Questi proseliti stranieri che stavano lì per la festa
capirono dalla cadenza espressa nel loro natio linguaggio che erano
galilei? Pietro fu riconosciuto dalla serva giudea, non da uno straniero.
{Antonio Capasso; 17-09-2011}
3.2.
RISPOSTA
■ Perlopiù Ebrei, non proseliti: La stragrande maggioranza di coloro, che
stavano lì a Pentecoste ad ascoltare gli apostoli, non era costituita da «proseliti
stranieri», ma lo era formato da Ebrei ellenisti (o della diaspora)
ed Ebrei della zona geografica siro-palestinica; alcuni erano certamente anche
proseliti (At 2,11), ossia Gentili convertiti al giudaismo. Nel verso 9 furono
menzionati, fra gli altri, gli Ebrei della Giudea; nel verso 11 fu
spiegato in un inciso che erano «tanto Giudei che proseliti», dove per
«Giudei» s’intendeva qui «Israeliti di nascita», per distinguerli dai proseliti
(Paolo pur essendo un Beniaminita di Tarso, si dichiarò «Giudeo»; At 22,3; Fil
3,5). Si noti che tra le nazioni o tra i paesi menzionati non c’erano i
Galilei (At 2,8-11), mentre così furono identificati solo coloro, che
parlavano nella lingua indigena degli altri (v. 7).
Si noti pure, che Pietro si rivolse a loro come suoi connazionali e
correligionari, chiamandoli come segue: «Uomini giudei, e voi tutti
che abitate in Gerusalemme» (v. 14), «Uomini israeliti»
(v. 22) e «Uomini,
fratelli» (v. 29); in tal modo non si rivolse agli avventizi o
simpatizzanti del giudaismo, ma solo agli Ebrei a tutti gli effetti. Ciò mostra
che la stragrande maggioranza dei presenti era costituita da Ebrei (= Giudei)
della diaspora e della Giudea (uomini giudei / israeliti / fratelli) e cittadini
di Gerusalemme.
■ Le lingue degli Ebrei: Anche per la stragrande maggioranza degli Ebrei
della diaspora
l’ebraico e l’aramaico non erano un gran problema, sebbene parlassero in
loco uno dei tanti dialetti greci o altre lingue locali (a Pentecoste per quelli
che non capivano, come ho mostrato altrove, ci pensavano gli altri «Galilei» a
tradurre nella loro lingua d’origine; cfr. At 2,8). La stessa cosa succede
oggigiorno ai credenti italiani delle chiese all’estero: sebbene parlino
la lingua locale (p.es. tedesco), i culti sono in italiano; quelli, che non
capiscono per nulla (p.es. coniugi indigeni di italiani), fanno capannello in un
angolo dietro, e qualcuno traduce per loro a bassa voce.
Si noti che Filippo non ebbe difficoltà a parlare con l’Etiope, che era
stato in visita a Gerusalemme (At 8,26-31). Quest’ultimo leggeva il rotolo
d’Isaia che, visto il suo status sociale e le sue finanze, aveva verosimilmente
acquistato ad alto prezzo presso il tempio. Anche nel suo caso si trattava di un
Ebreo della diaspora.
Paolo, che fu arrestato presso la gradinata del tempio, presso cui c’erano
parimenti Ebrei d’ogni provenienza geografica, dopo aver chiesto il permesso
(certamente in greco) al tribuno, si rivolse al popolo «in lingua ebraica,
dicendo: “Fratelli e padri, ascoltate ciò, che ora vi dico a mia difesa”.
E quando ebbero udito che egli parlava loro in lingua ebraica, tanto più
fecero silenzio» (At 21,40-22,2).
■ Ebrei capaci di riconoscere i Galilei: A Pentecoste, coloro che
ascoltarono e capirono il messaggio, non ebbero difficoltà a rivolgersi a Pietro
e agli altri apostoli, chiedendo loro: «Fratelli, che dobbiamo
fare?» (v. 37). Tremila di tali Ebrei della diaspora e della Giudea,
che furono compunti, accettarono di credere in Gesù Messia e di farsi battezzare
nel suo nome (vv. 38-41). Visto che questi ultimi erano «perseveranti»
lì, a Gerusalemme (v. 42), seguendo l’insegnamento degli apostoli, c’è da
presumere che la stragrande maggioranza dei convertiti era formata da
cittadini di Gerusalemme o da Ebrei della diaspora risiedenti
abbastanza stabilmente lì. Infatti, a Gerusalemme c’erano vari raggruppamenti
di Ebrei, secondo criteri sociali e linguistici, che si radunavano in una
propria sinagoga; Luca menzionò quelli «della sinagoga detta dei Liberti, e
dei Cirenei, e degli Alessandrini, e di quelli di Cilicia e d’Asia» (At
6,9). Similmente accade oggigiorno a Gerusalemme con i vari
raggruppamenti di Ebrei, secondo criteri culturali e di provenienza geografica,
sebbene poi tutti parlino ebraico.
Per tutti questi motivi, a Pentecoste gli Ebrei presenti sapevano ben
distinguere
gli Ebrei galilei dagli altri raggruppamenti geografici, così come oggigiorno
noi sapremmo distinguere i Napoletani dal Veneti.
4.
INFLESSIONI DI UNA LINGUA, QUANDO SE NE PARLA UN’ALTRA
4.1.
QUESTIONE: Come si potesse cogliere l’accento galileo da chi si
esprime in un’altra lingua e che vengono riconosciuti tali da chi era natio di
una nazione straniera, rimane, anche dopo la tua esposizione, un mistero che non
è stato spiegato. Si può capire la differenza di accenti tra un veneto e
un napoletano, quando parlano in italiano, non se parlano inglese o
altro! {19-09-2011}
4.2.
RISPOSTA
■ La dinamica linguistica a Pentecoste: L’episodio, in cui gli apostoli,
parlarono nelle lingue degli Ebrei della diaspora, serviva per attirare
l’attenzione della gente e per farla confluire. Molti di loro, sebbene
provenienti da altri paesi, erano diventati residenti e capivano benissimo
l’ebraico della zona siro-palestinica, visto che prima di convertirsi
chiesero a Pietro e agli altri apostoli che cosa dovessero fare (At 2,37);
e, dopo essersi convertiti, erano «perseveranti» insieme agli altri
credenti in tutte le attività descritte in Atti 2,42ss. Quindi, personalmente
avranno chiesto ragione in ebraico delle cose accadute oppure le sentivano altri
Ebrei della Giudea. Al più tardi, tutti capirono che si trattava di
Galilei, quando Pietro aprì la bocca per fare il suo discorso.
■
L’orizzonte linguistico: Se il nostro orizzonte culturale riguardo a
qualcosa, è limitato e non possediamo esperienze dirette al riguardo,
probabilmente certe cose non riusciremo a capirle, almeno al momento. Ciò vale
specialmente per le lingue. Faccio uno sforzo, perché Antonio Capasso comprenda
questo aspetto mediante una testimonianza linguistica personale. Probabilmente
lui non ha avuto occasione di uscire dal perimetro della sua zona, in cui vive,
per risiedere stabilmente all’estero per diversi anni e frequentare lì diverse
chiese italiane. Se lui l’avesse fatto, capirebbe di che cosa parlo.
Premetto che io sono bilingue. A casa nostra con mia moglie, con i miei
figli e addirittura con i miei nipotini, che vivono in Italia, noi parliamo
abitualmente in tedesco; eppure alcune battute le facciamo in italiano. Io
parlo il tedesco ufficiale, così anche mia moglie, sebbene ella parli con gusto
il tedesco svevo, appena trova una della sua zona linguistica (ha molte affinità
col napoletano nel pronunciare le «s» più consonante [p.es. «sp»] come «š» [=
«sh», «sci»] più consonante [p.es. «špecchio»]).
Solo chi ha la
sensibilità e la padronanza linguistiche, distinguerebbe dal modo di
parlare i tedeschi di nazionalità differenti: uno svizzero tedesco, un
austriaco, un tedesco rimpatriato dopo generazioni dalle zone dell’ex-Unione
Sovietica (parla ancora un tedesco arcaico o «piatto»), un tedesco svevo, uno
bavarese o uno amburghese. Uno svizzero tedesco si riconosce, anche se
risieda stabilmente da molti anni in Germania e cerchi di parlare il tedesco
ufficiale.
La cosa diventa interessante, quando credenti italo-francesi, che hanno sposato
coniugi italo-tedeschi e che risiedono oramai da anni in Germania, parlano
tedesco col loro tipico accento francese! Probabilmente Antonio Capasso non
ha mai sentito una persona nata nella Svizzera francese e trasferita nella
Svizzera tedesca, dove oramai vive da anni, quando parla tedesco. La loro
inflessione francese non gliela toglie nessuno vita natural durante!
Ho cari amici missionari, conduttori di chiesa e credenti, che parlano tale
tedesco con inflessione francese.
Quando in Germania visito i credenti delle chiese italiane, noto che tra di loro
è tutto un intercalare di parole di una lingua (p.e. in tedesco), quando
parlano nell’altra (p.es. in italiano). È curioso constatare la differenza fra i
diversi gruppi linguistici italiani (p.es. siciliani e napoletani), quando
parlano insieme tedesco, oltre che dalle specifiche cadenze e colorazioni
linguistiche, specialmente da tali «occlusioni linguistiche» del loro
paese natio.
Quando ho insegnato diverse volte in Germania, per conto dell’Ibei di Roma,
corsi dell’AT in italiano, era comodo per gli studenti che, quando non capivano
un termine o una locuzione in italiano, gli traducevo la parte enigmatica
in tempo reale in tedesco; allora si riaccendevano le lampadine mentali.
■ Il bilinguismo degli Ebrei della diaspora residenti nella Giudea: Penso
che Antonio Capasso dovrebbe approfondire meglio la questione linguistica e la
particolare dinamica del bilinguismo. Gli Ebrei della diaspora, che
risiedevano stabilmente nella Giudea e in Gerusalemme, erano bilingui, visto che
avevano in loco addirittura proprie sinagoghe (At 6,9).
Essi non avevano difficoltà a capire gli apostoli nella lingua natia
(quando questi ultimi parlarono in altre lingue) e in ebraico. Avevano
abbastanza competenza e sensibilità linguistica per capire la provenienza
galilea degli apostoli. Visto che i gruppi etnici si cercavano e si trovavano,
essendo in un altro paese rispetto a quello d’origine (e ciò anche a causa della
presenza delle
differenti sinagoghe secondo differenze sociali e linguistiche), per chi era
bilingue, non fu difficile spiegare ai pellegrini del proprio paese
(erano pur sempre una sparuta minoranza viste le distanze geografiche), che
quelli che parlavano nella propria lingua natia, erano Galilei.
Poiché era
successo qualcosa di particolare («suono come di vento impetuoso», «lingue
come di fuoco», «parlare in altre lingue»; At 2,2ss.6), tutti chiesero agli
altri che cosa stesse succedendo e chi fossero tali singolari personaggi;
dopo un po’ la voce si sparse e tutti individuarono quel piccolo gruppo (per noi
erano solo i dodici apostoli) come Galilei. Per individuarli, altri
eventuali gruppi etno-linguistici non furono menzionati.
Oltre al fatto che i dodici apostoli parlarono nel linguaggio dei «Giudei,
uomini religiosi d’ogni nazione di sotto il cielo», che soggiornavano a
Gerusalemme
(vv. 4ss.8-11), il bilinguismo degli Ebrei della diaspora ivi residenti sarà
stato di grande aiuto nello stabilire che gli apostoli erano «i parlanti
Galilei» (hoi lalountes Galilaioi; v. 7).
► URL:
http://puntoacroce.altervista.org/_Den/A1-Galilei_Pentecoste_Avv.htm
19-09-2011; Aggiornamento: 20-09-2011 |