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Sui profeti del nuovo patto ci sono opinioni
differenti tra i cristiani. Alcuni ritengono che essi siano sullo stampo dei
profeti d’Israele dell’AT (soprattutto in campo carismaticista). Altri affermano
che i profeti siano cessati con il completamento del canone del NT (soprattutto
in campo darbista e non carismaticista). Io personalmente dissento da queste due
posizioni. La Scrittura mi convince che i profeti teocratici siano cessati con
Giovanni battista. Dopo di Lui nessuno si presento chiamandosi personalmente
«profeta con nome» (p.es. «profeta Giovanni»; cfr. invece apostolo).
In seno alle
assemblee cristiane del NT l’interpretazione ispirata delle sacre Scritture
ebraiche — specialmente in senso messianologico (o cristologico) — era chiamata
«profezia» o «profetare». Si trattava di una «proclamazione ispirata» sulla base
della lettura comunitaria dell’AT di ciò che riguardava specialmente il «mistero
di Gesù» quale Messia, secondo l’assunto di Ap 19,10: «La testimonianza di
Gesù; è lo spirito della profezia» (Ap 19,10).
Per non appesantire troppo
questo confronto, alcuni aspetti li ho messi nei seguenti articoli:
►
Profeta con nome nel NT {Nicola Martella}
►
Profezia e profetare nel NT {Nicola Martella} |
1. La tesi
{Emanuela Crespi}
▲
Nota redazionale:
Sebbene il lungo testo dell’autrice contenga alcuni errori tecnici, oltre a
citazioni altrui non delimitate con virgolette e note bibliografiche, lascio in
genere tutto così. Mi limito solo all'usuale lavoro di redazione.
|
Caro Nicola, ho letto con interesse la tua opinione riguardo a Bob Hazlett
[►
Voglia di profeti e veggenti] e ai profeti in generale
(«Profeti
nel Nuovo Testamento»). Ho letto anche la tua risposta ad Andrea Merli in merito
a questo argomento. [►
Bob Hazlett: due tesi a confronto]
È chiaro che quando si
discute di ciò che è dottrinalmente giusto o sbagliato, parlare della propria
esperienza personale, di quello cioè che si «sente» e si «vive» in prima
persona, costituisce un argomento debole ed inaffidabile proprio per la sua
natura di carattere personale e soggettiva.
Sono d’accordo con te nel
ritenere che l’esperienza da sola non sia affatto una garanzia di verità. Questo
è biblico, ma ancor più dimostrato dall’osservazione del mondo intorno a noi.
Fenomeni straordinari («miracolosi») avvengono di continuo non solo fra vari
gruppi cristiani, ma anche fra buddisti, induisti, musulmani e perfino gruppi
esoterici, come tu ben sai.
Sono anche d’accordo con te
(anche se non lo dici espressamente negli scritti citati) nel credere che negli
ultimi tempi la caratteristica della chiesa, secondo la Bibbia, è una grande
apostasia, con venti di «dottrine di demoni» che spirano in tutte le direzioni,
dentro la chiesa.
Il fatto che siamo negli
ultimi tempi credo sia fuori discussione.
Detto questo, vorrei
sottoporti alcune riflessioni sulla questione profetica che spero saranno al tuo
livello di preparazione e che indurranno alla reciproca riflessione.
Sono rimasta molto colpita
dalla tua definizione di «profeta» nel NT. Cito tue testuali parole: «Per
prima cosa, il concetto “profeta/i di Dio” non esiste in tutto il NT e
neppure “profeta/i del Signore”, ma semplicemente “profeta /i”. Il termine greco
prophētēs significa soltanto “proclamatore”, ossia “parlatore in pubblico” e
non, come falsamente si afferma e si ripete, chi predice il futuro».
In effetti, la frase
«profeta di Dio» non esiste nel NT. Tuttavia, sostengo che questo avviene perché
dire «profeta di Dio» è semplicemente inutile — è la ripetizione di uno stesso
concetto. Sarebbe come dire «figlio dei miei genitori»: il concetto di figlio
presuppone già di per sé l’esistenza dei genitori. Dall’evidenza che ho trovato,
e che ora ti sottopongo, il concetto di profeta presuppone già il fatto che una
persona parli a nome di Dio.
Secondo la normale
interpretazione del termine, un profeta è un individuo che parla al posto di
qualcun altro, preannunziandone la volontà; nel caso specifico, tradizionalmente
si definisce «profeta» un uomo che parla in vece di Dio. Ma lasciamo perdere il
fallace senso comune, e guardiamo l’etimologia di questa parola. Citi
giustamente il greco prophētēs,
che significa letteralmente «proclamatore».
Sicuramente saprai (e qualunque linguista te lo potrà confermare) che il
significato etimologico di una parola si estrapola da tre parametri
fondamentali: primo, la radice
della parola stessa; secondo, il contesto nel quale quella parola veniva
utilizzata; terzo, i suoi sinonimi nella stessa lingua e in altre lingue.
Guardiamo allora questi tre parametri.
Prima di tutto, la radice.
Il termine greco
prophētēs (in latino, prophetas) deriva direttamente dal verbo
profànai, cioè «parlare a nome di un
altro». Quindi, anche se la parola in sé si può tradurre genericamente come
«parlare», il significato vero e proprio è questo: parlare «pro-qualcuno»,
parlare «al posto di», «per» qualcun altro. Vediamo ora il contesto greco: il
profeta greco era, per definizione, colui che rivelava il futuro, l’interprete
delle cose divine, in modo particolare degli oscuri oracoli. Questo termine si
associava perfino ai poeti, nel momento in cui questi si facevano portatori del
messaggio delle muse: «Ispirami, o Musa, il tuo profeta io sarò»
(Pindaro, Framm. 127).
Ma andiamo ancora più in
profondità. Andiamo al termine, anzi ai termini che nella lingua ebraica
traducono «profeta».
La prima parola che troviamo
in ebraico è
nabî’, di etimologia incerta. Secondo molti critici recenti la radice
nabî’ significa «parlare con entusiasmo», «emettere grida, e gesticolare in
maniera più o meno esagitata», come facevano i visionari pagani. A giudicare da
un esame comparativo di altre parole ebraiche e delle altre lingue semitiche,
pare altrettanto probabile che il significato originale di questa parola fosse
solo «dire parole, parlare» (cfr. Laur, «Die Prophetennamen des A.T.», Fribourg,
1903, pag. 14-38).
Vediamo allora il
significato di nabî’
rispetto al contesto e ai suoi sinonimi. I due sinonimi più comuni, ro’éeh
e hozéh, enfatizzano al contrario la speciale natura della conoscenza
profetica, la visione, vale a dire la divina rivelazione o ispirazione. Entrambe
le parole hanno lo stesso significato; hozéh si utilizza quasi sempre in
riferimento alle visioni sovrannaturali, mentre râ’ah, di cui ro’éh
è il participio, è il termine comunemente usato per indicare il verbo «vedere»
in tutte le sue forme. Parlare nel senso di «vedere» è una chiarissima
indicazione del fatto che questo «parlare» avviene in concomitanza ad una
speciale rivelazione, o «visione».
Il fatto che le due parole
sono sinonimi viene confermato nella stessa Bibbia. L’autore del primo libro dei
Re ci informa del fatto che, prima della sua epoca, ro’éh veniva usato
nei casi in cui al suo tempo si utilizzava nabî’ .
Hozéh si trova con
maggior frequenza dai tempi di Amos. Vengono utilizzati altri termini più o meno
specifici, il cui significato è chiaro: messaggero di Dio, uomo di Dio, servo di
Dio, uomo dello Spirito o uomo ispirato, e così via. Molto frequente è invece
l’uso del termine
hazôn, visione, parola di Dio o oracolo (ne um) di Dio.
In questo senso, il greco
(del NT) prophetes
(da «pro-phanai,» parlare «per», o «in nome di» qualcuno) traduce il
significato ebraico in modo accurato.
Questo, brevemente, per
quanto riguarda l’etimologia. La tua affermazione che il termine phophetes
significhi semplicemente «parlatore in pubblico» e non abbia nulla a che vedere
con predizioni future o trasmissione di un messaggio divino è del tutto
arbitraria. Non è certamente supportata da basi linguistiche, oltre che dal
senso comune, e pare più fondata sull’idea aprioristica che questo tipo di
comunicazione sovrannaturale non debba e non possa più verificarsi.
Ma andiamo oltre.
Tua frase: «“Profetare”
nel NT significa parlare pubblicamente in una situazione specifica per
convincere con la Parola, ad esempio, il non-credente e il principiante che
viene al raduno, applicando la sacra Scrittura alla sua situazione particolare;
qui non ci vuole un dono di chiaroveggenza o divinazione».
Sostieni dunque che «profetare» sia sinonimo di testimoniare pubblicamente ai
credenti e non, parlare di Gesù, esortare, edificare e consolare con il
messaggio della salvezza. Questo concetto sembrerebbe apparentemente confermato
da 1 Corinzi 14,3s, dove leggiamo che: «Chi profetizza, invece, parla agli
uomini per edificazione, esortazione e consolazione.
4Chi
parla in altra lingua edifica se stesso, ma chi profetizza edifica la chiesa».
Questo testo però non dice
affatto che la profezia equivale
al «parlare per esortare e consolare». Dice che: la profezia esorta e consola.
Bisogna fare attenzione. La profezia ha la
funzione di esortare, consolare ed edificare. Ma queste
cose non sono, di per sé, profezia. Di nuovo, stai dando alle parole un
significato che esse non hanno, basandoti su un preconcetto. Tradotto
riduttivamente in un banale esempio, sarebbe come dire che «chi canta, regala
gioia e serenità al prossimo» e da questa frase dedurre che cantare
significa regalare gioia al
prossimo. Cantare non significa regalare gioia al prossimo più di quanto
profetizzare significhi edificare, esortare e consolare. La gioia del canto è
una delle sue conseguenze, dei suoi scopi. Ma il canto non si identifica con la
gioia. Similmente, profetizzare non si identifica con l’esortazione. Uno
profetizza; lo scopo e la conseguenza per cui lo fa è l’edificazione della
chiesa (o la conversione dei non credenti).
Oltre a questo, in questo
passaggio di 1 Corinzi Paolo sta parlando espressamente di doni spirituali,
ponendoli a confronto. «Parlare» con franchezza non è un dono, e mai viene
definito tale in tutto il NT. Al contrario: sono i doni dello spirito che
infondono coraggio e franchezza
nel parlare, nonché potenza, a chi li riceve. L’uno è la causa dell’altro; ma i
due non sono la stessa cosa.
Ma vediamo qualche esempio.
Quando Pietro (che nei capitoli precedenti non aveva certo brillato per il
proprio coraggio) riceve il dono dello Spirito Santo a Pentecoste, si alza e fa
un discorso ardito e convincente davanti a tutto il popolo. Un «discorso»,
appunto: nella Bibbia, queste parole franche di testimonianza, esortazione,
consolazione eccetera, che tu definiresti a questo punto «profezia», vengono
chiamate per quello che sono veramente: «Discorso di Pietro». Anche
l’apostolo Paolo fa spesso quello che tu ritieni profezia, cioè: «parlare
pubblicamente in una situazione specifica per convincere con la Parola, ad
esempio, il non-credente e il principiante che viene al raduno, applicando la
sacra Scrittura alla sua situazione particolare» in varie occasioni. E in
tutte, quello che lui fa è definito, correttamente, «discorso di Paolo». Al
contrario, quando Gesù parla della fine dei tempi in Luca, il passo è intitolato
giustamente: «discorso profetico di Gesù». Secondo la tua definizione, una
ripetizione in termini.
Pare che la tua
interpretazione della profezia, oltre a non avere riscontro da un punto di vista
linguistico, sia anche sfuggita per secoli a frotte di traduttori e compilatori
della Bibbia.
Ma torniamo all’apostolo
Paolo. Che la profezia non sia un semplice «parlare» per esortare, consolare ed
edificare fine a se stesso è chiaro proprio nel passo di 1 Corinzi che tu citi
(«Superiorità del dono di profezia su quello delle lingue»).
Al verso 1: «Desiderate
l’amore e cercate ardentemente i doni spirituali, ma soprattutto che
possiate profetizzare». Chiaro: l’amore va desiderato, la profezia è uno dei
doni spirituali che vanno ricercati ardentemente. In questo senso Paolo dice che
«gli spiriti dei profeti son sottoposti ai profeti, perché Dio non è un Dio
di confusione, ma di pace» (1 Corinzi 14:32s). Se profetare è parlare,
perché Paolo parla di «spiriti dei profeti»? Perché non parlare allora di
«spiriti dei lavoratori»? o «spiriti di quelli che fanno la lode»? La risposta è
chiara: perché la profezia è un dono dello Spirito. E siccome Dio è un Dio di
ordine, solo un profeta (cioè uno che abbia ricevuto il dono di profezia)
giudica un altro profeta. Se così non fosse, Paolo avrebbe logicamente scritto
che «Gli spiriti dei profeti – leggi: gli spiriti di quelli che parlano in modo
intellegibile – sono sottoposti a tutti i presenti». Ma non è quello che
leggiamo.
Ancora, tua affermazione:
«Se tutti profetano [= parlano in modo intellegibile], ed entra qualche non
credente o principiante, egli è persuaso da tutti…» (1 Cor 14,24s). Qui risulta
che tutti profetano (= parlano pubblicamente), non solo persone particolari
(«unti»), sebbene ciò accade secondo un ordine».
Dice davvero questo?
Leggiamo il testo. Paolo, poco prima, dice che:
«Io vorrei che tutti
parlaste in lingue, ma molto più che profetizzaste» (v. 5): quindi non tutti
parlano in altre lingue e non tutti profetizzano, anche se questo è il desiderio
e l’esortazione dell’apostolo.
«Ma nell’assemblea
preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli
altri, piuttosto che diecimila parole in altra lingua» (v. 19). «Cinque
parole con la mia intelligenza per istruire gli altri»! Una definizione
piuttosto lunga per quello che Paolo poteva benissimo esprimere come
«profetizzare». Infatti qui non sta affatto confrontando la profezia con il
parlare in lingue, ma sta sottolineando l’importanza dell’interpretazione delle
lingue e dell’ordine.
«Tutti infatti, ad uno ad
uno, potete profetizzare affinché tutti imparino e tutti siano incoraggiati»
(v. 31). Questo è in linea con le precedenti affermazioni di Paolo: tutti
dobbiamo desiderare il dono di profezia, ed esercitarlo con ordine. Tutti
possiamo, potenzialmente, profetizzare.
«Perciò, fratelli miei,
cercate ardentemente il profetizzare e non impedite di parlare in lingue».
Ancora una volta, Paolo esorta a cercare il dono di profezia. Tutto il suo
discorso è incentrato sui doni spirituali, fra i quali è la profezia.
Considerare la profezia come un «parlare umano intellegibile», quindi
un’attività umana, non ha senso perché elimina qualunque connessione logica fra
questa attività e gli altri doni del discorso, oltre ad essere contraddittorio
di altre cose che Paolo afferma. Sarebbe come sostituire al verbo «profetizzare»
il verbo «cantare».
A chiarimento totale della
questione leggiamo Romani 12,6: «Ora, avendo noi doni differenti secondo la
grazia che ci è stata data, se abbiamo profezia, profetizziamo secondo la
proporzione della fede». Questo passo si commenta da solo. Se abbiamo
il dono di profezia, lo esercitiamo secondo la misura della nostra fede.
D’altronde Paolo ripete in varie occasione il concetto della diversità dei doni
spirituali, e che non tutti sono apostoli, non tutti parlano in altre lingue,
non tutti profetizzano.
Come la pensava Pietro,
sempre nel NT?
«Nessuna profezia infatti è mai proceduta da volontà d’uomo, ma i santi
uomini di Dio hanno parlato, perché spinti dallo Spirito Santo» (2 Pietro
1,21). È chiaro che nessuna parola di questo versetto avrebbe senso se la
profezia fosse davvero solo un «parlare, Bibbia alla mano, della salvezza a un
non credente» (anche se lo Spirito Santo in questo ci guida e ci aiuta).
È invece vero quello che tu
affermi in risposta ad Andrea: cioè che «l’espressione “parole profetiche”
compare solo una volta nel NT, e in riferimento alle parole scritte dei profeti
dell’AT. In 2 Pietro 1,19ss la “parola profetica” corrisponde a “profezia della
Scrittura” (= AT!) o semplicemente a “profezia” (= AT!)». Giusto! Questo
perché si sta parlando dell’infallibilità delle Scritture e del fatto che la
profezia della Bibbia non è soggetta ad interpretazione personale. Da cosa trai
però l’assunto: «Perciò, quelle che un “unto” dà a qualcuno, non sono “parole
profetiche”». Chiamiamole allora come la Bibbia le chiama: «profezie». Da
oggi in avanti, per non incappare nell’accusa di aver coniato un termine
improprio, chiameremo le rivelazioni che Dio dà a qualcuno (spec. ai credenti
che hanno chiesto e ricevuto il dono di profezia) con il loro nome: «profezie».
Infine, al verso 30,
leggiamo: «E se una rivelazione è data a uno di quelli che stanno seduti, il
precedente si taccia» (v. 30).
Tu interpreti questa frase
come segue: «Si tratta quindi di un linguaggio “ispirato”, ossia che abbia le
caratteristiche di 1 Cor 14,3 (edificare, esortare e consolare)». A parte
mettere il termine «ispirato» fra virgolette (quando la Scrittura parla di
ispirazione in modo inconfutabilmente legato alla rivelazione diretta di Dio),
stupisce la tua definizione di ispirazione: un linguaggio di amore. Da quando in
qua amore e ispirazione sono la stessa cosa? Sembrerebbe che le difficoltà
etimologiche si riflettano tanto nella lingua greca quanto in quella italiana.
Per inciso (anche se questa
affermazione è così semplice che ti potrà sembrare puerile) uno potrebbe notare
che, se la Scrittura ci esorta continuamente a guardarci dai «falsi profeti», a
«provare gli spiriti», a «riconoscere l’albero dai frutti» e a distinguere fra i
profeti falsi e quelli veri, questo significa che, accanto ai profeti falsi, ci
sono anche i profeti veri. Giustamente tu chiedi: «se si abbassa la guardia e
si attribuisce tutto a Dio o al suo Spirito… Dove stanno allora tali “molti
falsi profeti” operanti proprio dall’interno del cristianesimo?» Giusto; ma
se si attribuisce tutto ai «sensitivi e [ai] “canali” spiritualistici», alla
chiaroveggenza e alla divinazione, o se si riduce la profezia al semplice
«discorso pubblicò, dove sono i profeti veri? Non c’è motivo di distinguere fra
due cose se una delle due non esiste.
Se poi, di nuovo, profezia
significa «parlare», allora «falso profeta» significa semplicemente «bugiardo».
Un qualunque bugiardo è forse definito «falso profeta»? Falso profeta non è
forse (anche negli scritti degli anti-carismatici) chi parla del futuro o di
cose a lui ignote, senza essere stato ispirato da Dio? Come mai fate voi stessi
un uso così «selettivo» di questa bizzarra, nuova e fallace definizione di
profezia?
Paradossalmente, la
definizione di falso profeta non si applica nemmeno, necessariamente, al profeta
che dica qualcosa di «suo», accompagnandolo con una presunta benedizione da
parte di Dio. Si veda ad esempio il caso in cui il profeta Nathan disse a
Davide, che voleva costruire un tempio a Dio: «Va’, fa’ tutto ciò che hai in
cuore di fare, perché l’Eterno è con te» (2 Samuele 7,3). Quella stessa
notte Dio comandò a Nathan di tornare dal re e di dirgli che la gloria della
costruzione del tempio era riservata non a lui, ma a suo figlio. Questo non fece
di Nathan un falso profeta, né mise in discussione la sua sottomissione a Dio.
Un’ultima precisazione:
conosco, purtroppo, il «fuoco estraneo» di cui parli, le tristi manifestazioni
del «Toronto Blessing», per non parlare di Benny Hinn e Paul Cain (sospetto per
le sue tesi prima ancora di essere smascherato come omosessuale). Ripeto,
leggendo la Bibbia ci si aspetta apostasia, e non risveglio, nella chiesa. Ma
tagliare rettamente la Parola di verità significa ammettere tutto quello che c’è
scritto, che non è, fino a prova contraria, il contenuto del tuo saggio «Profeti
nel Nuovo Testamento» né la tua tesi contro il fratello Andrea Merli (su Bob
Hazlett).
Quanto a Bob Hazlett non mi
esprimo: lo incontrerò il 10 novembre con la massima tranquillità, pregando per
il necessario discernimento. Potrebbe essere un falso profeta; ma per quello che
so, e per quello che leggo nella Bibbia, potrebbe anche essere un credente con
un autentico dono di profezia e una vita esemplare.
Qualunque sarà la mia
impressione, sarò felice di condividerla con chiunque non abbia la propria
capacità di discernimento (anche umana) inquinata da preconcetti.
Grazie per la tua attenzione
e, se proverai per me la simpatia che Gesù ebbe per il giovane ricco, per la tua
cortese risposta. {02-11-2007}
2. Osservazioni e obiezioni
{Nicola Martella}
▲
Per non ripetermi, mi limito solo ad alcune questioni
aperte. Per molti aspetti rimando a questa mia letteratura:
■ Nicola Martella,
Manuale Teologico dell’Antico Testamento (Punto°A°Croce, Roma 2002), articoli:
«Profeta (ambito ministeriale)», pp. 279ss; «Falsi profeti», pp. 281s; «Falsi legittimi»,
p. 283; «Profetismo: fenomeno», pp. 283s; «Profezia: proclamazione», pp. 284s.
■ Nicola Martella (a cura di), «Che cos’è la “profezia”?», Escatologia biblica
essenziale,
Escatologia 1 (Punto°A°Croce, Roma 2007), pp. 21-24.
2.1. ENTRIAMO IN TEMA: Apprezzo
lo sforzo di Emanuela di spiegare il suo punto di vista. Riconosco pure il suo
diritto di avere opinioni divergenti dalle mie. Il mio piccolo consiglio a lei è
il seguente: prima di attribuire al proprio interlocutore qualcosa, su
cui poi si costruisce il proprio ragionamento e i proprio giudizi, si fa
bene a chiedergli preventivamente se veramente la pensa così. Detto
questo, considero ogni confronto sempre utile, quindi anche con Emanuela. Non
conoscendo la sua preparazione tecnica e linguistica (ebraico, greco, ecc.), può
sempre mettermi al corrente al riguardo, così sappiamo su che piano ci muoviamo.
Quindi non ho nessuna preclusione nei suoi confronti né intendo offenderla in
alcun modo con le mie osservazioni che seguono, visto che si trovano su un piano
dialettico e non su uno personale. Poi è fuori dubbio che ognuno di noi
cristiani può imparare dall'altro, se la sacra Scrittura rimane l'unica
«livella» nella dottrina e nella morale.
2.2. IL FINE NON GIUSTIFICA I MEZZI:
Ritengo che bisogna giocare secondo regole di correttezza (anche quelli morali
sulla proprietà altrui) e di fair play. Vorrei fare quindi un appunto a Emanuela
fin dall’inizio: Perché non cita correttamente le parti che non provengono dalle
sue conoscenze e che ha preso da altrove? Perché non delimita il testo con
virgolette e non pone alla fine il riferimento bibliografico? Ad esempio cita un
autore (Laur) che difficilmente potrà aver consultato per data (1903) e per
lingua (tedesco).
Una breve ricerca ha
mostrato che Emanuela ha semplicemente copiato e modificato parti di
articoli presenti sul web, ad esempio:
■
Alexamenos. La Voce di Dio (inizio): «Un profeta è, come dice la stessa etimologia del termine, un
individuo che parla al posto di qualcun altro, preannunziandone la volontà; nel
caso specifico, tradizionalmente dicesi “profeta” un uomo che parla in vece di
dio». Uno sguardo a questo sito mostra che esso è chiaramente
anticristiano.
■
Associazione Archeosofica - Nazireato e Profetismo (inizio). «Nella nostra lingua il vocabolo “profeta”
deriva dal latino propheta, e questo dal greco propétes, proveniente dal verbo
profànai, cioè “parlare a nome di un altro”». Non disdegna di citare neppure
una fonte chiaramente esoterica. Anche altre frasi sono tratte da
qui!
■
Catholic Encyclopedia: Prophecy, Prophet, and Prophetess (I.B.2.). «The Hebrew Names --
The ordinary Hebrew for prophet is nabî’. Its etymology is uncertain. According to many recent
critics, the root nabî, not employed in Hebrew, signified to speak enthusiastically, “to utter cries, and
make more or less wild gestures”, like the pagan mantics. Judging from a
comparative examination of the cognate words in Hebrew and the other Semitic
tongues, it is at least equally probable that the original meaning was merely:
to speak, to utter words (cf. Laur, “Die Prophetennamen des A.T.”, Fribourg,
1903, 14-38). The historic meaning of nabî’ established by biblical usage is
“interpreter and mouthpiece of God”. This is forcibly illustrated by the
passage, where Moses, excusing himself from speaking to Pharao on account of his
embarrassment of speech, was answered by Yahweh: “Behold I have appointed thee
the God of Pharao: and Aaron thy brother shall be thy prophet. Thou shalt speak
to him all that I command thee; and he shall speak to Pharao, that he let the
children of Israel go out of his land” (Exodus 7:1-2). Moses plays towards the
King of Egypt the role of God, inspiring what is to be uttered, and Aaron is the
prophet, his mouthpiece, transmitting the inspired message he shall receive. The
Greek prophetes (from pro-phanai, to speak for, or in the name of someone)
translates the Hebrew accurately. The Greek prophet was the revealer of the
future, and the interpreter of divine things, especially of the obscure oracles
of the pythoness. Poets were the prophets of the muses: Inspire me, muse, thy
prophet I shall be” (Pindar, Bergk, Fragm. 127).
The word nabî’ expresses more especially
a function. The two most usual synonyms ro’éeh and hozéh emphasize more clearly
the special source of the prophetic knowledge, the vision, that is, the Divine
revelation or inspiration. Both have almost the same meaning; hozéh is employed,
however, much more frequently in poetical language and almost always in
connexion with a supernatural vision, whereas râ’ah, of which ro’éh is the
participle, is the usual word for to see in any manner. The compiler of the
first book of Kings (ix, 9) informs us that before his time ro’éh was used where
nabî’ was then employed. Hozéh is found much more frequently from the days of
Amos. There were other less specific or more unusual terms employed, the meaning
of which is clear, such as, messenger of God, man of God, servant of God, man of
the spirit, or inspired man, etc. It is only rarely, and at a later period, that
prophecy is called nebû’ah, a cognate of nabî’; more ordinarily we find hazôn,
vision, or word of God, oracle (ne um) of Yahweh, etc.». Da questo sito cattolico ha tratto
anche le altre informazioni (si noti la citazione di Laur, “Die Prophetennamen des A.T.”!!!).
Mi fermo
qui. Il «non rubare» non vale anche della proprietà letteraria di altri?
Tutto questo le fa onore come persona e come cristiana? Non dovrebbe ella
ravvedersi al riguardo e scusarsi con i lettori? Purtroppo questa è una prassi
diffusa fra cristiani e non, quindi non limitata a Emanuela, e mostra che anche
gli evangelici possono avere una dottrina salvifica biblica, ma una morale del
mondo.
Visto il modo non professionale di trattare i dati altrui, da ciò deriva anche
l’altra domanda: Quale competenza diretta ha Emanuela di tutto ciò?
Infatti, oltre alla mancanza di professionalità, le molte approssimazioni da lei
usate, non rivelano le sue lacune tecniche? Già tutto ciò non squalifica
l'intero lavoro che mi ha mandato? L'albero buono non deve fare frutti buoni!?
(Mt 7,17).
2.3. LA TRATTAZIONE DEL TEMA:
Non ostante ciò non voglio sottrarmi dall’affrontare alcune sue osservazioni e
obiezioni. Intanto Emanuela mi ha mandato un secondo scritto, di cui vuole la
mia analisi, ma non lo tratterò qui. Seguo a mano a mano il «suo» scritto
soprastante.
■ Profeti di Dio: È la ripetizione di uno
stesso concetto? Che dire allora dell’espressione nell’AT «profeti di Ba`al»? (1
Re 18,19.22.25.40; 2 Re 10,19; Gr 2,8; Gr 23,13). Se fosse la ripetizione dello
stesso concetto, sorprende che nell’AT si trovi l’espressione nabî’ di Jahwè
«proclamatore dell’Eterno» tradotta nella Settanta come prophētēs tou Kyriou
«proclamatore del Signore» (1 Sm 3,20; 1 Re 18,4.13.22; 1 Re 22,7; 2 Re 3,11).
Si noti il contrasto evidenziato da Elia: «Son rimasto io solo dei
proclamatori di Jahwè, mentre i proclamatori di Ba`al sono in
quattrocentocinquanta». Ricorre pure l’espressione «profeti di Dio» (Esd
5,1). ● La tesi mi sembra essere qui confutata. Se questa espressione non
ricorre mai nel NT, ci deve pur essere un motivo!
A ciò si aggiunga anche
l’espressione «profetare (= proclamare) nel nome di ***»:
Esd 5,1 Dio d’Israele; Gr 2,8 di Ba`al; 11,21 dell’Eterno; 23,13 di Ba`al; 36,9
dell’Eterno; 26,16 dell’Eterno, del nostro Dio; 26,20 dell’Eterno; Zc 13,3
dell’Eterno. L’unico luogo in cui questa espressione fu usata nel NT,
riguardava il lontano passato, l’AT: «Prendete, fratelli, per esempio di
sofferenza e di pazienza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore»
(Gcm 5,10; v. 11 Giobbe).
■ Profeta greco: Si afferma che «il profeta
greco era, per definizione, colui che rivelava il futuro». Ciò è errato. Chi
rivelava il futuro era il mántis «medium», ad esempio la Pizia, mentre il
prophētēs
era il «portavoce» di tale sapere, ossia colui che interpretava il responso,
adattandolo al cliente.
■ Che significa nabî’?:
La tesi della radice che significa «parlare con
entusiasmo» è vecchia e ormai desueta. Che nābā’
significhi «proclamare» si può vedere dal
suo uso «non profetico», ossia ad esempio nel tempio da parte dei cantori. I
figli di Asaf, di Heman e di Jeduthun «erano i proclamatori [ebr. hannebî’îm]
degli inni sacri accompagnandosi con cetre, con saltèri e con cembali».
Asaf «proclamava [ebr. hannibā’]
gli inni sacri» (v. 2) e similmente faceva Jedutun (v. 3). Cfr.
Nicola Martella, «Salmi»,
Radici 1-2
(Punto°A°Croce, Roma 1994), p. 92.
Che
nabî’
significasse semplicemente «proclamatore, portavoce» e addirittura in senso
passivo «chiamato, eletto», è mostrato da brani in cui non si parla dei
profeti d’Israele. Dio disse in sogno ad Abimelek: «Restituisci la moglie a
quest’uomo, perché è nabî’; ed egli pregherà per te, e tu vivrai» (Gn 20,7);
qui si può interpretare con «chiamato, eletto». Questo significato è confermato
dal Sal 105,15 in cui Dio disse dei tre patriarchi d’Israele: «Non toccate i
miei unti e non fate alcun male ai miei nebî’îm».
In Es 7,1 Aaronne fungeva da nabî’ «portavoce» di Mosè dinanzi a faraone,
su cui Jahwè lo aveva stabilito come autorità (ebr. ‘ëlohîm
«tremendo»).
Tralascio qui i termini
ro’éh e
ḥozéh,
sia perché ci porterebbero troppo fuori dalla discussione, sia perché ro’éh
era un termine già disusato ai tempi dei profeti teocratici in epoca monarchica,
sia perché non hanno nessuna incidenza nel NT. A ciò si aggiunga che in Amos Am
7,12 il termine
ḥozéh
era usato in senso dispregiativo; per altro non ricorre mai nel resto dei libri
profetici.
■ Falsi sillogismi: Si afferma che in greco
prophētēs
«traduce il significato ebraico in modo accurato». Per prima cosa dall’ultimo
nabî’ d’Israele nell’AT (Malachia) all’ultimo prophētēs d’Israele nel
NT (Giovanni battista) erano trascorsi 400 anni senza «profeti». Seconda cosa,
intanto si era passati in Palestina per due mutamenti linguistici: dall’ebraico
all’aramaico e poi al greco. Terza cosa, ognuno che conosce un po’ di
linguistica o almeno diverse lingue sa che ogni parola ha un «campo semantico»
che non coincide con quello del termine corrispondente in un’altra lingua. Ciò
che io posso dire in tedesco, non lo posso dire in italiano allo stesso modo, e
viceversa; se in una lingua c’è un termine, nell’altra ce ne voglio almeno due o
più per dire le stesse cose.
Che i termini non si
equivalgono è mostrato, ad esempio, da «cuore»: una persona di «buon cuore» in
ebraico non è una persona benigna o caritatevole, ma una persona di «buon
senso», piena di discernimento! Questo è mostrato dal fatto che il grande
comandamento in ebraico recitava: «Tu amerai dunque l’Eterno, il tuo Dio, con
tutto il cuore, con tutta l’anima tua e con tutte le tue forze» (Dt 6,5
cuore = mente); per renderlo comprensibile ai lettori greci, esso fu modificato
o ampliato nel NT (diversamente dalla Settanta) così: «Ama il Signore Dio tuo
con tutto il tuo cuore e con tutta l’anima tua e con tutta
la mente tua» (Mt 22,37), oppure: «amarlo con tutto il cuore,
con tutto l’intelletto e con tutta
la forza» (Mc 12,33).
A ciò si aggiunga, ad
esempio che nell’AT mai un
poeta fu chiamato nabî’, mentre ciò accade nel NT con prophētēs
(Tt 1,12; cfr. invece At 17,28 «poeta»). Ciò non accade in Nu 21,27. Ciò mostra
che il campo semantico delle due parole era differente. Si noti che Daniele
non era un nabî’ teocratico d’Israele, ma un funzionario di Stato (per di
più straniero) e un apocalittico; egli parlò del profeta Geremia (Dn 9,2) e dei
«profeti, tuoi / suoi servi» (vv. 6.10) indicando così altri. Eppure, sebbene
nel libro di Daniele (7°-6° sec. a.C.) «profeta, profetare» non fossero stati
mai usati per lui e la sua attività, nel NT Gesù lo chiamò «prophētēs
Daniele» (Mt 24,15).
Pietro parlò della «profezia
della Scrittura pronunziata dallo Spirito Santo per bocca di Davide»
(At 1,26). È chiaro che Davide non era un nabî’,
ossia un profeta teocratico d’Israele, poiché egli stesso consultava Nathan, Gad
e altri nebî’îm di Jahwè per conoscere la volontà di Dio; nel
NT prophēteia indicava semplicemente il «discorso ispirato» da Dio
mediante una persona (qui dell’AT), indipendentemente dal fatto che questa fosse
nabî’
o meno. La definizione di prophēteia nel NT rispetto all’AT era questa: «Uomini
hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo» (2 Pt
1,21); ciò non corrispondeva però al concetto tecnico di «profezia» nell’AT
quale espressione dei nebî’îm di Jahwè, gli organi
dell’alleanza. Tutto ciò mostra che il campo semantico di nabî’ e
prophētēs non coincidevano.
■ 1° bilancio provvisorio: Meraviglia che Emanuela tiri delle conclusioni
affrettate da falsi sillogismi. Perciò asserisce: «La
tua affermazione… è del tutto arbitraria. Non è certamente supportata da basi
linguistiche… e pare più fondata sull’idea aprioristica…». Non crede che lo
spiedo potrebbe essere girato nell’altra direzione? C’è quindi da temere che ciò
che segue, essendo basato su false conclusioni, non ci porterà più vicini alla
verità. Se il primo bottone è messo male, il risultato è immaginabile. Così non
meraviglia che anche dopo Emanuela continui attribuendomi «un preconcetto» e
simili; ma tutto è ribaltabile.
■ Profetare nel NT: «Chi profetizza… parla agli uomini» (1 Cor 14,3): era quindi un «parlare
ispirato». Paolo evidenziò anche il fine, ossia «per edificazione,
esortazione e consolazione»: chi parlava, non intendeva comunicare nuove
rivelazioni ma edificare, esortare e consolare con la sacra Scrittura. Era
quindi una rivelazione profetica che proveniva dalla lettura comune dell’AT. Ma
non era un semplice chiacchierare sulla Scrittura, ma un «parlare ispirato»,
poiché è scritto: «Se una rivelazione è data a uno di quelli che stanno
seduti, il precedente si taccia» (1 Cor 14,30). Questo è evidenziato nella
seguente constatazione: «Tutto quello che fu scritto per l’addietro, fu
scritto per nostro ammaestramento,
affinché mediante la pazienza e mediante la
consolazione delle Scritture noi riteniamo la speranza» (Rm 15,4).
L’autore della lettera agli Ebrei parlò del suo scritto come della «mia
parola d’esortazione» (Eb 13,22). Anche Pietro disse: «V’ho scritto
brevemente esortandovi» (1 Pt 5,12). Tutti costoro si basavano su una
lettura ispirata delle sacre Scritture ebraiche alla luce delle novità del nuovo
patto, specialmente della «testimonianza di Gesù» quale Messia.
Perciò Paolo, l’autore della lettera agli Ebrei e Pietro presentarono nei loro
scritti una «lettura profetica» dell’AT alla luce dell’avvento di Gesù Messia.
Questo era il cuore e il senso della «profezia» (= proclamazione ispirata) al
tempo del NT! L’angelo dovette ammonire l’apostolo Giovanni, per poi dirgli che
«la testimonianza di Gesù è lo spirito della profezia» (Ap 19,10).
■ 2° bilancio provvisorio: Non è singolare chiamare
«discorso profetico di Gesù» qualcosa e usarlo come argomento, solo
perché è il titolo che i traduttori (!) hanno dato a Mt 24 o Lc 21? Dove sta nel
testo greco?
Emanuela afferma, concludendo: «Pare che la
tua interpretazione della profezia, oltre a non avere riscontro da un punto di
vista linguistico, sia anche sfuggita per secoli a frotte di traduttori e
compilatori della Bibbia». Ecco quando si mette male il primo bottone.
L’argomento linguistico è inconsistente, come abbiamo visto. Ella dovrebbe
sapere come il campo semantico di una parola (qui profezia, profetare) muti in
due millenni di storia! Si veda a confronto la parola «protestare»: Che
significava al tempo di Lutero? Che significa ora? Che nesso c’è tra
«protestare» e «protestante»?
■ Profetare: Non ho mai detto che «profetare» nel NT significasse
semplicemente e solo «parlare», ma «proclamare in modo ispirato» sulla
base delle sacre Scritture (allora l’AT) ciò che riguardava il mistero di Gesù
quale Messia, secondo il seguente assunto, già ricordato: «La testimonianza
di Gesù è lo spirito della profezia» (Ap 19,10).
Emanuele afferma: «E siccome Dio è un Dio di ordine,
solo un profeta (cioè uno che abbia ricevuto il dono di profezia) giudica un
altro profeta». Paolo afferma, però, appena prima: «Tutti,
uno ad uno, potete profetare; affinché tutti imparino e tutti
siano consolati» (v. 31). Se tutti possono fare qualcosa (v. 24 «tutti
profetizzano»), non ci sono persone specializzate e particolari; quindi
anche tutti possono giudicare quanto un altro pretende di aver detto sotto
ispirazione. Il v. 5 è da leggere alla luce dei vv. 24 e 31, dove ciò è
premesso. Questo significato di «profetizzare» (= proclamare in modo ispirato la
testimonianza di Gesù nelle Scritture ebraiche) è corroborato dal v. 19, dove fu
da lui parafrasato con «dire cinque parole con la mia intelligenza per
istruire anche gli altri»! È erroneo dire qui che Paolo «non sta affatto
confrontando la profezia con il parlare in lingue, ma sta sottolineando
l’importanza dell’interpretazione delle lingue e dell’ordine»; ogni esegeta può
smentirlo, poiché la maggior parte di 1 Cor 14 consiste proprio nell’esaltazione
del «profetare» in contrasto col parlare in lingue.
Sorvolo il resto, contenendo
un falso sillogismo che è basato su erronee premesse linguistiche e
contenutistiche. Ribadisco solo che «profetare» non è semplicemente «parlare»,
ma parlare in modo ispirato sulla base della Scrittura, evidenziando in essa
specialmente la «testimonianza di Gesù».
■ Pietro: In 2 Pietro 1,21 l’autore non parlò del profetare nella chiesa,
ma della «profezia» contenuta nell’AT, quindi le sacre Scritture ebraiche!
Infatti, se Emanuela fosse stata attenta al contesto, avrebbe letto un verso
prima che l'apostolo parlò qui della «profezia della Scrittura» (v. 20),
corrispondente alla «parola profetica» (v. 19), mentre un verso dopo mise in
guardia contro «falsi profeti» e «falsi dottori che introdurranno di
soppiatto eresie di perdizione» (2,1). È questo l’effetto della distrazione
e della versettologia!? Poi quanto sia discutibile il resto, lo giudichino i
lettori stessi.
■
Ispirazione: Emanuela si attacca a delle virgolette in «ispirato». Si
stupisce di una definizione di ispirazione quale «un
linguaggio di amore», che non ho mai usata e non so da dove l’abbia cavata.
Semmai qui rivelazione era l’intuizione spirituale di un credente durante la
lettura comune della Scrittura (allora l’AT) specialmente riguardo alla
«testimonianza di Gesù». Si veda qui l’esortazione di 1 Tm 4,13: «Attendi
finché io torni,
alla lettura, all’esortazione,
all’insegnamento». Dalla lettura dell’AT venivano tratti anche l’esortazione
e l’insegnamento.
2.4. ASPETTI CONCLUSIVI:
Che cosa c’entra il caso di Nathan con la falsa
profezia, rimane un mistero. Ma non è il solo.
Purtroppo Emanuela
ricalca in modo ricorrente e riduttivo che «profetare» significhi semplicemente
«parlare», attribuendo ciò a me, e su di ciò basa la sua invettiva. Ma queste
sono solo le sue false attribuzioni, da cui trae poi false conclusioni.
Poi fa ironia e sarcasmo gratuiti per le conclusioni che trae. Ciò
non è serio. Come non è serio parlare di «questa
bizzarra, nuova e fallace definizione di profezia». Se all’inizio voleva fare la
«dotta», specialmente attribuendosi contenuti di altri, come mai alla fine
mostra una certa arroganza
nei miei confronti? Non avrebbe dovuta essere più seria, corretta e
professionale?
Infine c'è da chiedersi se
la frase «chiunque non abbia la propria capacità di discernimento (anche umana)
inquinata da preconcetti», non sia formulata
—
sulla scia di quanto ha detto sopra
— in antitesi al sottoscritto. Le sono comunque grato
che si è astenuta dalla solita minaccia di aver commesso il peccato contro lo
Spirito Santo e di essere sotto il giudizio divino.
Il mio fraterno consiglio
per Emanuela è ad esempio il seguente: prima di esprimere un
(pre)giudizio, su cui poi costruisce tutta la sua tesi, è salutare
chiedere preventivamente se ciò che ha capito, sia giusto o meno. Ciò la
preserverebbe dall’attribuire indebitamente cose al suo prossimo, di usare
ironia e sarcasmo per tali presunte cose, magari mal capite, e di fare così una
magra figura. Non ha mostrato Emanuele poca serietà tecnica, citando
fonti anticristiane ed esoteriche? Non ha mostrato così poco
discernimento e poco rispetto per la proprietà altrui?
Termino con una
piccola lezione di etica,
destinata a tutti noi cristiani inseriti nel contesto sociale e morale
italiano. Ho fatto riferimento sopra al fatto che l'albero buono deve fare
frutti buoni! (Mt 7,17). Ciò vale certamente per ognuno di noi. Penso
che, se ci fosse un undicesimo comandamento, reciterebbe: «Non barare». Facendo
una piccola «spedizione» tra siti, forum e gruppi di discussione cristiani e
non, constato che vengono copiati testi altrui con disinvoltura, senza permesso
e senza riferimenti bibliografici, sebbene siano «proprietà letteraria
riservata». Non è ormai una questione di un singolo, ma un atteggiamento morale
diffuso al punto che è considerato una «bagatella» o un «peccato veniale».
Giacomo fece notare: «La
sapienza che è da alto, prima è
pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di
buoni frutti, senza parzialità, senza
ipocrisia» (Gcm 3,17). Paolo raccomandava: «Siate
irreprensibili e schietti, figli di Dio
senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale
voi risplendete come luminari nel mondo,
tenendo alta la Parola della vita» (Ef 2,15). I cristiani fedeli alla
sacra Scrittura dovrebbero mostrare qui di saper essere e fare la differenza!
In ogni modo, per il troppo
tempo già investito nella risposta e per potermi dedicare anche agli altri
lettori, non potrò rispondere, per ora, alla sua seconda missiva, arrivata
mentre mettevo in rete questo articolo. Questo non chiude però le porte per un
confronto fraterno per il futuro.
►
Questioni sui profeti del NT: parliamone {Nicola Martella} (T)
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Den/A1-Discuti_profeti_NT_OiG.htm
08-11-2007; Aggiornamento:
10-11-2007
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