Un taglio netto alle convenzioni anti-bibliche e pseudo-bibliche, all'ignoranza e alle speculazioni — Ein klarer Schnitt zu den anti-biblischen und pseudo-biblischen Konventionen, zur Unwissenheit und den Spekulationen — A clean cut to the anti-biblical and pseudo-biblical conventions, to the ignorance and the speculations — Une coupe nette aux conventions anti-bibliques et pseudo-bibliques, à l'ignorance et aux spéculations — Un corte neto a las convenciones anti-bíblicas y pseudo-bíblicas, a la ignorancia y a las especulaciones

La fede che pensa — Accettare la sfida nel nostro tempo

«Glaube gegen den Strom»: Für das biblische Unterscheidungsvermögen — «Faith countercurrent»: For the biblical discernment — «Foi contre-courant»: Pour le discernement biblique — «Fe contracorriente»: Por el discernimiento bíblico

Per il discernimento biblico

Prima pagina

Contattaci

Domande frequenti

Novità

Arte sana

Bibbia ed ermeneutica

Culture e ideologie

Confessioni cristiane

Dottrine

Religioni

Scienza e fede

Teologia pratica

▼ Vai a fine pagina

 

Offensiva intorno a Gesù 1

 

Carismaticismo

 

 

 

 

«Chi dice la gente ch’io sia?» — Offensiva intorno a Gesù 1: È ciò che dicono gli altri su Gesù.

Ecco le parti principali:
■ Gesù nei mass-media
■ Gesù fra teologia e filosofia
■ Gesù fra filosofia e ideologia
■ Gesù fra ideologie e religioni
■ Excursus: La via che porta a Dio

 

«E voi, chi dite ch’io sia?» — Offensiva intorno a Gesù 2: È ciò che la Bibbia dice su Gesù.

Ecco le parti principali:
■ Gesù nella Bibbia e nella storia
■ La questione giudaica
■ Aspetti conclusivi (Gesù e le donne, Il Gesù sacramentale, Interrogativi)
■ Dizionarietto dei termini

 

► Vedi al riguardo le recensioni.

 

 Offensiva intorno a Gesù 2

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Serviti della e-mail sottostante!

E-mail

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

QUESTIONI SUI PROFETI DEL NT

 

 di Emanuela Crespi - Nicola Martella

 

1. La tesi {Emanuela Crespi}

2. Osservazioni e obiezioni {Nicola Martella}

 

Clicca sul lemma desiderato per raggiungere il punto sottostante

 

Sui profeti del nuovo patto ci sono opinioni differenti tra i cristiani. Alcuni ritengono che essi siano sullo stampo dei profeti d’Israele dell’AT (soprattutto in campo carismaticista). Altri affermano che i profeti siano cessati con il completamento del canone del NT (soprattutto in campo darbista e non carismaticista). Io personalmente dissento da queste due posizioni. La Scrittura mi convince che i profeti teocratici siano cessati con Giovanni battista. Dopo di Lui nessuno si presento chiamandosi personalmente «profeta con nome» (p.es. «profeta Giovanni»; cfr. invece apostolo).

     In seno alle assemblee cristiane del NT l’interpretazione ispirata delle sacre Scritture ebraiche — specialmente in senso messianologico (o cristologico) — era chiamata «profezia» o «profetare». Si trattava di una «proclamazione ispirata» sulla base della lettura comunitaria dell’AT di ciò che riguardava specialmente il «mistero di Gesù» quale Messia, secondo l’assunto di Ap 19,10: «La testimonianza di Gesù; è lo spirito della profezia» (Ap 19,10).

     Per non appesantire troppo questo confronto, alcuni aspetti li ho messi nei seguenti articoli:

Profeta con nome nel NT {Nicola Martella}

Profezia e profetare nel NT {Nicola Martella}

 

 

1. La tesi {Emanuela Crespi}

 

Nota redazionale: Sebbene il lungo testo dell’autrice contenga alcuni errori tecnici, oltre a citazioni altrui non delimitate con virgolette e note bibliografiche, lascio in genere tutto così. Mi limito solo all'usuale lavoro di redazione.

 

Caro Nicola, ho letto con interesse la tua opinione riguardo a Bob Hazlett [► Voglia di profeti e veggenti] e ai profeti in generale («Profeti nel Nuovo Testamento»). Ho letto anche la tua risposta ad Andrea Merli in merito a questo argomento. [► Bob Hazlett: due tesi a confronto]

     È chiaro che quando si discute di ciò che è dottrinalmente giusto o sbagliato, parlare della propria esperienza personale, di quello cioè che si «sente» e si «vive» in prima persona, costituisce un argomento debole ed inaffidabile proprio per la sua natura di carattere personale e soggettiva.

     Sono d’accordo con te nel ritenere che l’esperienza da sola non sia affatto una garanzia di verità. Questo è biblico, ma ancor più dimostrato dall’osservazione del mondo intorno a noi. Fenomeni straordinari («miracolosi») avvengono di continuo non solo fra vari gruppi cristiani, ma anche fra buddisti, induisti, musulmani e perfino gruppi esoterici, come tu ben sai.

     Sono anche d’accordo con te (anche se non lo dici espressamente negli scritti citati) nel credere che negli ultimi tempi la caratteristica della chiesa, secondo la Bibbia, è una grande apostasia, con venti di «dottrine di demoni» che spirano in tutte le direzioni, dentro la chiesa.

     Il fatto che siamo negli ultimi tempi credo sia fuori discussione.

     Detto questo, vorrei sottoporti alcune riflessioni sulla questione profetica che spero saranno al tuo livello di preparazione e che indurranno alla reciproca riflessione.

     Sono rimasta molto colpita dalla tua definizione di «profeta» nel NT. Cito tue testuali parole: «Per prima cosa, il concetto “profeta/i di Dio” non esiste in tutto il NT e neppure “profeta/i del Signore”, ma semplicemente “profeta /i”. Il termine greco prophētēs significa soltanto “proclamatore”, ossia “parlatore in pubblico” e non, come falsamente si afferma e si ripete, chi predice il futuro».

     In effetti, la frase «profeta di Dio» non esiste nel NT. Tuttavia, sostengo che questo avviene perché dire «profeta di Dio» è semplicemente inutile — è la ripetizione di uno stesso concetto. Sarebbe come dire «figlio dei miei genitori»: il concetto di figlio presuppone già di per sé l’esistenza dei genitori. Dall’evidenza che ho trovato, e che ora ti sottopongo, il concetto di profeta presuppone già il fatto che una persona parli a nome di Dio.

     Secondo la normale interpretazione del termine, un profeta è un individuo che parla al posto di qualcun altro, preannunziandone la volontà; nel caso specifico, tradizionalmente si definisce «profeta» un uomo che parla in vece di Dio. Ma lasciamo perdere il fallace senso comune, e guardiamo l’etimologia di questa parola. Citi giustamente il greco prophētēs, che significa letteralmente «proclamatore». Sicuramente saprai (e qualunque linguista te lo potrà confermare) che il significato etimologico di una parola si estrapola da tre parametri fondamentali: primo, la radice della parola stessa; secondo, il contesto nel quale quella parola veniva utilizzata; terzo, i suoi sinonimi nella stessa lingua e in altre lingue. Guardiamo allora questi tre parametri.

     Prima di tutto, la radice. Il termine greco prophētēs (in latino, prophetas) deriva direttamente dal verbo profànai, cioè «parlare a nome di un altro». Quindi, anche se la parola in sé si può tradurre genericamente come «parlare», il significato vero e proprio è questo: parlare «pro-qualcuno», parlare «al posto di», «per» qualcun altro. Vediamo ora il contesto greco: il profeta greco era, per definizione, colui che rivelava il futuro, l’interprete delle cose divine, in modo particolare degli oscuri oracoli. Questo termine si associava perfino ai poeti, nel momento in cui questi si facevano portatori del messaggio delle muse: «Ispirami, o Musa, il tuo profeta io sarò» (Pindaro, Framm. 127).

     Ma andiamo ancora più in profondità. Andiamo al termine, anzi ai termini che nella lingua ebraica traducono «profeta».

     La prima parola che troviamo in ebraico è nabî’, di etimologia incerta. Secondo molti critici recenti la radice nabî’ significa «parlare con entusiasmo», «emettere grida, e gesticolare in maniera più o meno esagitata», come facevano i visionari pagani. A giudicare da un esame comparativo di altre parole ebraiche e delle altre lingue semitiche, pare altrettanto probabile che il significato originale di questa parola fosse solo «dire parole, parlare» (cfr. Laur, «Die Prophetennamen des A.T.», Fribourg, 1903, pag. 14-38).

     Vediamo allora il significato di nabî’ rispetto al contesto e ai suoi sinonimi. I due sinonimi più comuni, ro’éeh e hozéh, enfatizzano al contrario la speciale natura della conoscenza profetica, la visione, vale a dire la divina rivelazione o ispirazione. Entrambe le parole hanno lo stesso significato; hozéh si utilizza quasi sempre in riferimento alle visioni sovrannaturali, mentre râ’ah, di cui ro’éh è il participio, è il termine comunemente usato per indicare il verbo «vedere» in tutte le sue forme. Parlare nel senso di «vedere» è una chiarissima indicazione del fatto che questo «parlare» avviene in concomitanza ad una speciale rivelazione, o «visione».

     Il fatto che le due parole sono sinonimi viene confermato nella stessa Bibbia. L’autore del primo libro dei Re ci informa del fatto che, prima della sua epoca, ro’éh veniva usato nei casi in cui al suo tempo si utilizzava nabî’ .

     Hozéh si trova con maggior frequenza dai tempi di Amos. Vengono utilizzati altri termini più o meno specifici, il cui significato è chiaro: messaggero di Dio, uomo di Dio, servo di Dio, uomo dello Spirito o uomo ispirato, e così via. Molto frequente è invece l’uso del termine hazôn, visione, parola di Dio o oracolo (ne um) di Dio.

     In questo senso, il greco (del NT) prophetes (da «pro-phanai,» parlare «per», o «in nome di» qualcuno) traduce il significato ebraico in modo accurato.

 

     Questo, brevemente, per quanto riguarda l’etimologia. La tua affermazione che il termine phophetes significhi semplicemente «parlatore in pubblico» e non abbia nulla a che vedere con predizioni future o trasmissione di un messaggio divino è del tutto arbitraria. Non è certamente supportata da basi linguistiche, oltre che dal senso comune, e pare più fondata sull’idea aprioristica che questo tipo di comunicazione sovrannaturale non debba e non possa più verificarsi.

     Ma andiamo oltre.

     Tua frase: «“Profetare” nel NT significa parlare pubblicamente in una situazione specifica per convincere con la Parola, ad esempio, il non-credente e il principiante che viene al raduno, applicando la sacra Scrittura alla sua situazione particolare; qui non ci vuole un dono di chiaroveggenza o divinazione».

     Sostieni dunque che «profetare» sia sinonimo di testimoniare pubblicamente ai credenti e non, parlare di Gesù, esortare, edificare e consolare con il messaggio della salvezza. Questo concetto sembrerebbe apparentemente confermato da 1 Corinzi 14,3s, dove leggiamo che: «Chi profetizza, invece, parla agli uomini per edificazione, esortazione e consolazione. 4Chi parla in altra lingua edifica se stesso, ma chi profetizza edifica la chiesa».

     Questo testo però non dice affatto che la profezia equivale al «parlare per esortare e consolare». Dice che: la profezia esorta e consola. Bisogna fare attenzione. La profezia ha la funzione di esortare, consolare ed edificare. Ma queste cose non sono, di per sé, profezia. Di nuovo, stai dando alle parole un significato che esse non hanno, basandoti su un preconcetto. Tradotto riduttivamente in un banale esempio, sarebbe come dire che «chi canta, regala gioia e serenità al prossimo» e da questa frase dedurre che cantare significa regalare gioia al prossimo. Cantare non significa regalare gioia al prossimo più di quanto profetizzare significhi edificare, esortare e consolare. La gioia del canto è una delle sue conseguenze, dei suoi scopi. Ma il canto non si identifica con la gioia. Similmente, profetizzare non si identifica con l’esortazione. Uno profetizza; lo scopo e la conseguenza per cui lo fa è l’edificazione della chiesa (o la conversione dei non credenti).

     Oltre a questo, in questo passaggio di 1 Corinzi Paolo sta parlando espressamente di doni spirituali, ponendoli a confronto. «Parlare» con franchezza non è un dono, e mai viene definito tale in tutto il NT. Al contrario: sono i doni dello spirito che infondono coraggio e franchezza nel parlare, nonché potenza, a chi li riceve. L’uno è la causa dell’altro; ma i due non sono la stessa cosa.

     Ma vediamo qualche esempio. Quando Pietro (che nei capitoli precedenti non aveva certo brillato per il proprio coraggio) riceve il dono dello Spirito Santo a Pentecoste, si alza e fa un discorso ardito e convincente davanti a tutto il popolo. Un «discorso», appunto: nella Bibbia, queste parole franche di testimonianza, esortazione, consolazione eccetera, che tu definiresti a questo punto «profezia», vengono chiamate per quello che sono veramente: «Discorso di Pietro». Anche l’apostolo Paolo fa spesso quello che tu ritieni profezia, cioè: «parlare pubblicamente in una situazione specifica per convincere con la Parola, ad esempio, il non-credente e il principiante che viene al raduno, applicando la sacra Scrittura alla sua situazione particolare» in varie occasioni. E in tutte, quello che lui fa è definito, correttamente, «discorso di Paolo». Al contrario, quando Gesù parla della fine dei tempi in Luca, il passo è intitolato giustamente: «discorso profetico di Gesù». Secondo la tua definizione, una ripetizione in termini.

     Pare che la tua interpretazione della profezia, oltre a non avere riscontro da un punto di vista linguistico, sia anche sfuggita per secoli a frotte di traduttori e compilatori della Bibbia.

     Ma torniamo all’apostolo Paolo. Che la profezia non sia un semplice «parlare» per esortare, consolare ed edificare fine a se stesso è chiaro proprio nel passo di 1 Corinzi che tu citi («Superiorità del dono di profezia su quello delle lingue»).

     Al verso 1: «Desiderate l’amore e cercate ardentemente i doni spirituali, ma soprattutto che possiate profetizzare». Chiaro: l’amore va desiderato, la profezia è uno dei doni spirituali che vanno ricercati ardentemente. In questo senso Paolo dice che «gli spiriti dei profeti son sottoposti ai profeti, perché Dio non è un Dio di confusione, ma di pace» (1 Corinzi 14:32s). Se profetare è parlare, perché Paolo parla di «spiriti dei profeti»? Perché non parlare allora di «spiriti dei lavoratori»? o «spiriti di quelli che fanno la lode»? La risposta è chiara: perché la profezia è un dono dello Spirito. E siccome Dio è un Dio di ordine, solo un profeta (cioè uno che abbia ricevuto il dono di profezia) giudica un altro profeta. Se così non fosse, Paolo avrebbe logicamente scritto che «Gli spiriti dei profeti – leggi: gli spiriti di quelli che parlano in modo intellegibile – sono sottoposti a tutti i presenti». Ma non è quello che leggiamo.

     Ancora, tua affermazione: «Se tutti profetano [= parlano in modo intellegibile], ed entra qualche non credente o principiante, egli è persuaso da tutti…» (1 Cor 14,24s). Qui risulta che tutti profetano (= parlano pubblicamente), non solo persone particolari («unti»), sebbene ciò accade secondo un ordine».

     Dice davvero questo? Leggiamo il testo. Paolo, poco prima, dice che: «Io vorrei che tutti parlaste in lingue, ma molto più che profetizzaste» (v. 5): quindi non tutti parlano in altre lingue e non tutti profetizzano, anche se questo è il desiderio e l’esortazione dell’apostolo.

     «Ma nell’assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri, piuttosto che diecimila parole in altra lingua» (v. 19). «Cinque parole con la mia intelligenza per istruire gli altri»! Una definizione piuttosto lunga per quello che Paolo poteva benissimo esprimere come «profetizzare». Infatti qui non sta affatto confrontando la profezia con il parlare in lingue, ma sta sottolineando l’importanza dell’interpretazione delle lingue e dell’ordine.

     «Tutti infatti, ad uno ad uno, potete profetizzare affinché tutti imparino e tutti siano incoraggiati» (v. 31). Questo è in linea con le precedenti affermazioni di Paolo: tutti dobbiamo desiderare il dono di profezia, ed esercitarlo con ordine. Tutti possiamo, potenzialmente, profetizzare.

     «Perciò, fratelli miei, cercate ardentemente il profetizzare e non impedite di parlare in lingue». Ancora una volta, Paolo esorta a cercare il dono di profezia. Tutto il suo discorso è incentrato sui doni spirituali, fra i quali è la profezia. Considerare la profezia come un «parlare umano intellegibile», quindi un’attività umana, non ha senso perché elimina qualunque connessione logica fra questa attività e gli altri doni del discorso, oltre ad essere contraddittorio di altre cose che Paolo afferma. Sarebbe come sostituire al verbo «profetizzare» il verbo «cantare».

     A chiarimento totale della questione leggiamo Romani 12,6: «Ora, avendo noi doni differenti secondo la grazia che ci è stata data, se abbiamo profezia, profetizziamo secondo la proporzione della fede». Questo passo si commenta da solo. Se abbiamo il dono di profezia, lo esercitiamo secondo la misura della nostra fede. D’altronde Paolo ripete in varie occasione il concetto della diversità dei doni spirituali, e che non tutti sono apostoli, non tutti parlano in altre lingue, non tutti profetizzano.

 

     Come la pensava Pietro, sempre nel NT?

     «Nessuna profezia infatti è mai proceduta da volontà d’uomo, ma i santi uomini di Dio hanno parlato, perché spinti dallo Spirito Santo» (2 Pietro 1,21). È chiaro che nessuna parola di questo versetto avrebbe senso se la profezia fosse davvero solo un «parlare, Bibbia alla mano, della salvezza a un non credente» (anche se lo Spirito Santo in questo ci guida e ci aiuta).

     È invece vero quello che tu affermi in risposta ad Andrea: cioè che «l’espressione “parole profetiche” compare solo una volta nel NT, e in riferimento alle parole scritte dei profeti dell’AT. In 2 Pietro 1,19ss la “parola profetica” corrisponde a “profezia della Scrittura” (= AT!) o semplicemente a “profezia” (= AT!)». Giusto! Questo perché si sta parlando dell’infallibilità delle Scritture e del fatto che la profezia della Bibbia non è soggetta ad interpretazione personale. Da cosa trai però l’assunto: «Perciò, quelle che un “unto” dà a qualcuno, non sono “parole profetiche”». Chiamiamole allora come la Bibbia le chiama: «profezie». Da oggi in avanti, per non incappare nell’accusa di aver coniato un termine improprio, chiameremo le rivelazioni che Dio dà a qualcuno (spec. ai credenti che hanno chiesto e ricevuto il dono di profezia) con il loro nome: «profezie».

 

     Infine, al verso 30, leggiamo: «E se una rivelazione è data a uno di quelli che stanno seduti, il precedente si taccia» (v. 30).

     Tu interpreti questa frase come segue: «Si tratta quindi di un linguaggio “ispirato”, ossia che abbia le caratteristiche di 1 Cor 14,3 (edificare, esortare e consolare)». A parte mettere il termine «ispirato» fra virgolette (quando la Scrittura parla di ispirazione in modo inconfutabilmente legato alla rivelazione diretta di Dio), stupisce la tua definizione di ispirazione: un linguaggio di amore. Da quando in qua amore e ispirazione sono la stessa cosa? Sembrerebbe che le difficoltà etimologiche si riflettano tanto nella lingua greca quanto in quella italiana.

 

     Per inciso (anche se questa affermazione è così semplice che ti potrà sembrare puerile) uno potrebbe notare che, se la Scrittura ci esorta continuamente a guardarci dai «falsi profeti», a «provare gli spiriti», a «riconoscere l’albero dai frutti» e a distinguere fra i profeti falsi e quelli veri, questo significa che, accanto ai profeti falsi, ci sono anche i profeti veri. Giustamente tu chiedi: «se si abbassa la guardia e si attribuisce tutto a Dio o al suo Spirito… Dove stanno allora tali “molti falsi profeti” operanti proprio dall’interno del cristianesimo?» Giusto; ma se si attribuisce tutto ai «sensitivi e [ai] “canali” spiritualistici», alla chiaroveggenza e alla divinazione, o se si riduce la profezia al semplice «discorso pubblicò, dove sono i profeti veri? Non c’è motivo di distinguere fra due cose se una delle due non esiste.

     Se poi, di nuovo, profezia significa «parlare», allora «falso profeta» significa semplicemente «bugiardo». Un qualunque bugiardo è forse definito «falso profeta»? Falso profeta non è forse (anche negli scritti degli anti-carismatici) chi parla del futuro o di cose a lui ignote, senza essere stato ispirato da Dio? Come mai fate voi stessi un uso così «selettivo» di questa bizzarra, nuova e fallace definizione di profezia?

     Paradossalmente, la definizione di falso profeta non si applica nemmeno, necessariamente, al profeta che dica qualcosa di «suo», accompagnandolo con una presunta benedizione da parte di Dio. Si veda ad esempio il caso in cui il profeta Nathan disse a Davide, che voleva costruire un tempio a Dio: «Va’, fa’ tutto ciò che hai in cuore di fare, perché l’Eterno è con te» (2 Samuele 7,3). Quella stessa notte Dio comandò a Nathan di tornare dal re e di dirgli che la gloria della costruzione del tempio era riservata non a lui, ma a suo figlio. Questo non fece di Nathan un falso profeta, né mise in discussione la sua sottomissione a Dio.

     Un’ultima precisazione: conosco, purtroppo, il «fuoco estraneo» di cui parli, le tristi manifestazioni del «Toronto Blessing», per non parlare di Benny Hinn e Paul Cain (sospetto per le sue tesi prima ancora di essere smascherato come omosessuale). Ripeto, leggendo la Bibbia ci si aspetta apostasia, e non risveglio, nella chiesa. Ma tagliare rettamente la Parola di verità significa ammettere tutto quello che c’è scritto, che non è, fino a prova contraria, il contenuto del tuo saggio «Profeti nel Nuovo Testamento» né la tua tesi contro il fratello Andrea Merli (su Bob Hazlett).

     Quanto a Bob Hazlett non mi esprimo: lo incontrerò il 10 novembre con la massima tranquillità, pregando per il necessario discernimento. Potrebbe essere un falso profeta; ma per quello che so, e per quello che leggo nella Bibbia, potrebbe anche essere un credente con un autentico dono di profezia e una vita esemplare.

     Qualunque sarà la mia impressione, sarò felice di condividerla con chiunque non abbia la propria capacità di discernimento (anche umana) inquinata da preconcetti.

     Grazie per la tua attenzione e, se proverai per me la simpatia che Gesù ebbe per il giovane ricco, per la tua cortese risposta. {02-11-2007}

 

 

2. Osservazioni e obiezioni {Nicola Martella}

 

Per non ripetermi, mi limito solo ad alcune questioni aperte. Per molti aspetti rimando a questa mia letteratura:

     ■ Nicola Martella, Manuale Teologico dell’Antico Testamento (Punto°A°Croce, Roma 2002), articoli: «Profeta (ambito ministeriale)», pp. 279ss; «Falsi profeti», pp. 281s; «Falsi legittimi», p. 283; «Profetismo: fenomeno», pp. 283s; «Profezia: proclamazione», pp. 284s.

     ■ Nicola Martella (a cura di), «Che cos’è la “profezia”?», Escatologia biblica essenziale, Escatologia 1 (Punto°A°Croce, Roma 2007), pp. 21-24.

 

2.1.  ENTRIAMO IN TEMA: Apprezzo lo sforzo di Emanuela di spiegare il suo punto di vista. Riconosco pure il suo diritto di avere opinioni divergenti dalle mie. Il mio piccolo consiglio a lei è il seguente: prima di attribuire al proprio interlocutore qualcosa, su cui poi si costruisce il proprio ragionamento e i proprio giudizi, si fa bene a chiedergli preventivamente se veramente la pensa così. Detto questo, considero ogni confronto sempre utile, quindi anche con Emanuela. Non conoscendo la sua preparazione tecnica e linguistica (ebraico, greco, ecc.), può sempre mettermi al corrente al riguardo, così sappiamo su che piano ci muoviamo. Quindi non ho nessuna preclusione nei suoi confronti né intendo offenderla in alcun modo con le mie osservazioni che seguono, visto che si trovano su un piano dialettico e non su uno personale. Poi è fuori dubbio che ognuno di noi cristiani può imparare dall'altro, se la sacra Scrittura rimane l'unica «livella» nella dottrina e nella morale.

 

2.2.  IL FINE NON GIUSTIFICA I MEZZI: Ritengo che bisogna giocare secondo regole di correttezza (anche quelli morali sulla proprietà altrui) e di fair play. Vorrei fare quindi un appunto a Emanuela fin dall’inizio: Perché non cita correttamente le parti che non provengono dalle sue conoscenze e che ha preso da altrove? Perché non delimita il testo con virgolette e non pone alla fine il riferimento bibliografico? Ad esempio cita un autore (Laur) che difficilmente potrà aver consultato per data (1903) e per lingua (tedesco).

     Una breve ricerca ha mostrato che Emanuela ha semplicemente copiato e modificato parti di articoli presenti sul web, ad esempio:

    ■ Alexamenos. La Voce di Dio (inizio): «Un profeta è, come dice la stessa etimologia del termine, un individuo che parla al posto di qualcun altro, preannunziandone la volontà; nel caso specifico, tradizionalmente dicesi “profeta” un uomo che parla in vece di dio». Uno sguardo a questo sito mostra che esso è chiaramente anticristiano.

     ■ Associazione Archeosofica - Nazireato e Profetismo (inizio). «Nella nostra lingua il vocabolo “profeta” deriva dal latino propheta, e questo dal greco propétes, proveniente dal verbo profànai, cioè “parlare a nome di un altro”». Non disdegna di citare neppure una fonte chiaramente esoterica. Anche altre frasi sono tratte da qui!

     ■ Catholic Encyclopedia: Prophecy, Prophet, and Prophetess (I.B.2.). «The Hebrew Names -- The ordinary Hebrew for prophet is nabî’. Its etymology is uncertain. According to many recent critics, the root nabî, not employed in Hebrew, signified to speak enthusiastically, “to utter cries, and make more or less wild gestures”, like the pagan mantics. Judging from a comparative examination of the cognate words in Hebrew and the other Semitic tongues, it is at least equally probable that the original meaning was merely: to speak, to utter words (cf. Laur, “Die Prophetennamen des A.T.”, Fribourg, 1903, 14-38). The historic meaning of nabî’ established by biblical usage is “interpreter and mouthpiece of God”. This is forcibly illustrated by the passage, where Moses, excusing himself from speaking to Pharao on account of his embarrassment of speech, was answered by Yahweh: “Behold I have appointed thee the God of Pharao: and Aaron thy brother shall be thy prophet. Thou shalt speak to him all that I command thee; and he shall speak to Pharao, that he let the children of Israel go out of his land” (Exodus 7:1-2). Moses plays towards the King of Egypt the role of God, inspiring what is to be uttered, and Aaron is the prophet, his mouthpiece, transmitting the inspired message he shall receive. The Greek prophetes (from pro-phanai, to speak for, or in the name of someone) translates the Hebrew accurately. The Greek prophet was the revealer of the future, and the interpreter of divine things, especially of the obscure oracles of the pythoness. Poets were the prophets of the muses: Inspire me, muse, thy prophet I shall be” (Pindar, Bergk, Fragm. 127).

     The word nabî’ expresses more especially a function. The two most usual synonyms ro’éeh and hozéh emphasize more clearly the special source of the prophetic knowledge, the vision, that is, the Divine revelation or inspiration. Both have almost the same meaning; hozéh is employed, however, much more frequently in poetical language and almost always in connexion with a supernatural vision, whereas râ’ah, of which ro’éh is the participle, is the usual word for to see in any manner. The compiler of the first book of Kings (ix, 9) informs us that before his time ro’éh was used where nabî’ was then employed. Hozéh is found much more frequently from the days of Amos. There were other less specific or more unusual terms employed, the meaning of which is clear, such as, messenger of God, man of God, servant of God, man of the spirit, or inspired man, etc. It is only rarely, and at a later period, that prophecy is called nebû’ah, a cognate of nabî’; more ordinarily we find hazôn, vision, or word of God, oracle (ne um) of Yahweh, etc.». Da questo sito cattolico ha tratto anche le altre informazioni (si noti la citazione di Laur, “Die Prophetennamen des A.T.”!!!).

 

Mi fermo qui. Il «non rubare» non vale anche della proprietà letteraria di altri? Tutto questo le fa onore come persona e come cristiana? Non dovrebbe ella ravvedersi al riguardo e scusarsi con i lettori? Purtroppo questa è una prassi diffusa fra cristiani e non, quindi non limitata a Emanuela, e mostra che anche gli evangelici possono avere una dottrina salvifica biblica, ma una morale del mondo.

     Visto il modo non professionale di trattare i dati altrui, da ciò deriva anche l’altra domanda: Quale competenza diretta ha Emanuela di tutto ciò? Infatti, oltre alla mancanza di professionalità, le molte approssimazioni da lei usate, non rivelano le sue lacune tecniche? Già tutto ciò non squalifica l'intero lavoro che mi ha mandato? L'albero buono non deve fare frutti buoni!? (Mt 7,17).

 

2.3.  LA TRATTAZIONE DEL TEMA: Non ostante ciò non voglio sottrarmi dall’affrontare alcune sue osservazioni e obiezioni. Intanto Emanuela mi ha mandato un secondo scritto, di cui vuole la mia analisi, ma non lo tratterò qui. Seguo a mano a mano il «suo» scritto soprastante.

     ■ Profeti di Dio: È la ripetizione di uno stesso concetto? Che dire allora dell’espressione nell’AT «profeti di Ba`al»? (1 Re 18,19.22.25.40; 2 Re 10,19; Gr 2,8; Gr 23,13). Se fosse la ripetizione dello stesso concetto, sorprende che nell’AT si trovi l’espressione nabî’ di Jahwè «proclamatore dell’Eterno» tradotta nella Settanta come prophētēs tou Kyriou «proclamatore del Signore» (1 Sm 3,20; 1 Re 18,4.13.22; 1 Re 22,7; 2 Re 3,11). Si noti il contrasto evidenziato da Elia: «Son rimasto io solo dei proclamatori di Jahwè, mentre i proclamatori di Ba`al sono in quattrocentocinquanta». Ricorre pure l’espressione «profeti di Dio» (Esd 5,1). ● La tesi mi sembra essere qui confutata. Se questa espressione non ricorre mai nel NT, ci deve pur essere un motivo!

     A ciò si aggiunga anche l’espressione «profetare (= proclamare) nel nome di ***»: Esd 5,1 Dio d’Israele; Gr 2,8 di Ba`al; 11,21 dell’Eterno; 23,13 di Ba`al; 36,9 dell’Eterno; 26,16 dell’Eterno, del nostro Dio; 26,20 dell’Eterno; Zc 13,3 dell’Eterno. L’unico luogo in cui questa espressione fu usata nel NT, riguardava il lontano passato, l’AT: «Prendete, fratelli, per esempio di sofferenza e di pazienza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore» (Gcm 5,10; v. 11 Giobbe).

 

     ■ Profeta greco: Si afferma che «il profeta greco era, per definizione, colui che rivelava il futuro». Ciò è errato. Chi rivelava il futuro era il mántis «medium», ad esempio la Pizia, mentre il prophētēs era il «portavoce» di tale sapere, ossia colui che interpretava il responso, adattandolo al cliente.

 

     ■ Che significa nabî’?: La tesi della radice che significa «parlare con entusiasmo» è vecchia e ormai desueta. Che nābāsignifichi «proclamare» si può vedere dal suo uso «non profetico», ossia ad esempio nel tempio da parte dei cantori. I figli di Asaf, di Heman e di Jeduthun «erano i proclamatori [ebr. hannebî’îm] degli inni sacri accompagnandosi con cetre, con saltèri e con cembali». Asaf «proclamava [ebr. hannibā] gli inni sacri» (v. 2) e similmente faceva Jedutun (v. 3). Cfr. Nicola Martella, «Salmi», Radici 1-2 (Punto°A°Croce, Roma 1994), p. 92.

     Che nabî’ significasse semplicemente «proclamatore, portavoce» e addirittura in senso passivo «chiamato, eletto», è mostrato da brani in cui non si parla dei profeti d’Israele. Dio disse in sogno ad Abimelek: «Restituisci la moglie a quest’uomo, perché è nabî’; ed egli pregherà per te, e tu vivrai» (Gn 20,7); qui si può interpretare con «chiamato, eletto». Questo significato è confermato dal Sal 105,15 in cui Dio disse dei tre patriarchi d’Israele: «Non toccate i miei unti e non fate alcun male ai miei nebî’îm». In Es 7,1 Aaronne fungeva da nabî’ «portavoce» di Mosè dinanzi a faraone, su cui Jahwè lo aveva stabilito come autorità (ebr. ëlohîm «tremendo»).

     Tralascio qui i termini ro’éh e ozéh, sia perché ci porterebbero troppo fuori dalla discussione, sia perché ro’éh era un termine già disusato ai tempi dei profeti teocratici in epoca monarchica, sia perché non hanno nessuna incidenza nel NT. A ciò si aggiunga che in Amos Am 7,12 il termine ozéh era usato in senso dispregiativo; per altro non ricorre mai nel resto dei libri profetici.

 

     ■ Falsi sillogismi: Si afferma che in greco prophētēs «traduce il significato ebraico in modo accurato». Per prima cosa dall’ultimo nabî’ d’Israele nell’AT (Malachia) all’ultimo prophētēs d’Israele nel NT (Giovanni battista) erano trascorsi 400 anni senza «profeti». Seconda cosa, intanto si era passati in Palestina per due mutamenti linguistici: dall’ebraico all’aramaico e poi al greco. Terza cosa, ognuno che conosce un po’ di linguistica o almeno diverse lingue sa che ogni parola ha un «campo semantico» che non coincide con quello del termine corrispondente in un’altra lingua. Ciò che io posso dire in tedesco, non lo posso dire in italiano allo stesso modo, e viceversa; se in una lingua c’è un termine, nell’altra ce ne voglio almeno due o più per dire le stesse cose.

     Che i termini non si equivalgono è mostrato, ad esempio, da «cuore»: una persona di «buon cuore» in ebraico non è una persona benigna o caritatevole, ma una persona di «buon senso», piena di discernimento! Questo è mostrato dal fatto che il grande comandamento in ebraico recitava: «Tu amerai dunque l’Eterno, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima tua e con tutte le tue forze» (Dt 6,5 cuore = mente); per renderlo comprensibile ai lettori greci, esso fu modificato o ampliato nel NT (diversamente dalla Settanta) così: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore e con tutta l’anima tua e con tutta la mente tua» (Mt 22,37), oppure: «amarlo con tutto il cuore, con tutto l’intelletto e con tutta la forza» (Mc 12,33).

     A ciò si aggiunga, ad esempio che nell’AT mai un poeta fu chiamato nabî’, mentre ciò accade nel NT con prophētēs (Tt 1,12; cfr. invece At 17,28 «poeta»). Ciò non accade in Nu 21,27. Ciò mostra che il campo semantico delle due parole era differente. Si noti che Daniele non era un nabî’ teocratico d’Israele, ma un funzionario di Stato (per di più straniero) e un apocalittico; egli parlò del profeta Geremia (Dn 9,2) e dei «profeti, tuoi / suoi servi» (vv. 6.10) indicando così altri. Eppure, sebbene nel libro di Daniele (7°-6° sec. a.C.) «profeta, profetare» non fossero stati mai usati per lui e la sua attività, nel NT Gesù lo chiamò «prophētēs Daniele» (Mt 24,15).

     Pietro parlò della «profezia della Scrittura pronunziata dallo Spirito Santo per bocca di Davide» (At 1,26). È chiaro che Davide non era un nabî’, ossia un profeta teocratico d’Israele, poiché egli stesso consultava Nathan, Gad e altri nebî’îm di Jahwè per conoscere la volontà di Dio; nel NT prophēteia indicava semplicemente il «discorso ispirato» da Dio mediante una persona (qui dell’AT), indipendentemente dal fatto che questa fosse nabî’ o meno. La definizione di prophēteia nel NT rispetto all’AT era questa: «Uomini hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo» (2 Pt 1,21); ciò non corrispondeva però al concetto tecnico di «profezia» nell’AT quale espressione dei nebî’îm di Jahwè, gli organi dell’alleanza. Tutto ciò mostra che il campo semantico di nabî’ e prophētēs non coincidevano.

 

     ■ 1° bilancio provvisorio: Meraviglia che Emanuela tiri delle conclusioni affrettate da falsi sillogismi. Perciò asserisce: «La tua affermazione… è del tutto arbitraria. Non è certamente supportata da basi linguistiche… e pare più fondata sull’idea aprioristica…». Non crede che lo spiedo potrebbe essere girato nell’altra direzione? C’è quindi da temere che ciò che segue, essendo basato su false conclusioni, non ci porterà più vicini alla verità. Se il primo bottone è messo male, il risultato è immaginabile. Così non meraviglia che anche dopo Emanuela continui attribuendomi «un preconcetto» e simili; ma tutto è ribaltabile.

 

     ■ Profetare nel NT: «Chi profetizza… parla agli uomini» (1 Cor 14,3): era quindi un «parlare ispirato». Paolo evidenziò anche il fine, ossia «per edificazione, esortazione e consolazione»: chi parlava, non intendeva comunicare nuove rivelazioni ma edificare, esortare e consolare con la sacra Scrittura. Era quindi una rivelazione profetica che proveniva dalla lettura comune dell’AT. Ma non era un semplice chiacchierare sulla Scrittura, ma un «parlare ispirato», poiché è scritto: «Se una rivelazione è data a uno di quelli che stanno seduti, il precedente si taccia» (1 Cor 14,30). Questo è evidenziato nella seguente constatazione: «Tutto quello che fu scritto per l’addietro, fu scritto per nostro ammaestramento, affinché mediante la pazienza e mediante la consolazione delle Scritture noi riteniamo la speranza» (Rm 15,4). L’autore della lettera agli Ebrei parlò del suo scritto come della «mia parola d’esortazione» (Eb 13,22). Anche Pietro disse: «V’ho scritto brevemente esortandovi» (1 Pt 5,12). Tutti costoro si basavano su una lettura ispirata delle sacre Scritture ebraiche alla luce delle novità del nuovo patto, specialmente della «testimonianza di Gesù» quale Messia.

     Perciò Paolo, l’autore della lettera agli Ebrei e Pietro presentarono nei loro scritti una «lettura profetica» dell’AT alla luce dell’avvento di Gesù Messia. Questo era il cuore e il senso della «profezia» (= proclamazione ispirata) al tempo del NT! L’angelo dovette ammonire l’apostolo Giovanni, per poi dirgli che «la testimonianza di Gesù è lo spirito della profezia» (Ap 19,10).

 

     ■ 2° bilancio provvisorio: Non è singolare chiamare «discorso profetico di Gesù» qualcosa e usarlo come argomento, solo perché è il titolo che i traduttori (!) hanno dato a Mt 24 o Lc 21? Dove sta nel testo greco? Emanuela afferma, concludendo: «Pare che la tua interpretazione della profezia, oltre a non avere riscontro da un punto di vista linguistico, sia anche sfuggita per secoli a frotte di traduttori e compilatori della Bibbia». Ecco quando si mette male il primo bottone. L’argomento linguistico è inconsistente, come abbiamo visto. Ella dovrebbe sapere come il campo semantico di una parola (qui profezia, profetare) muti in due millenni di storia! Si veda a confronto la parola «protestare»: Che significava al tempo di Lutero? Che significa ora? Che nesso c’è tra «protestare» e «protestante»?

 

     ■ Profetare: Non ho mai detto che «profetare» nel NT significasse semplicemente e solo «parlare», ma «proclamare in modo ispirato» sulla base delle sacre Scritture (allora l’AT) ciò che riguardava il mistero di Gesù quale Messia, secondo il seguente assunto, già ricordato: «La testimonianza di Gesù è lo spirito della profezia» (Ap 19,10).

     Emanuele afferma: «E siccome Dio è un Dio di ordine, solo un profeta (cioè uno che abbia ricevuto il dono di profezia) giudica un altro profeta». Paolo afferma, però, appena prima: «Tutti, uno ad uno, potete profetare; affinché tutti imparino e tutti siano consolati» (v. 31). Se tutti possono fare qualcosa (v. 24 «tutti profetizzano»), non ci sono persone specializzate e particolari; quindi anche tutti possono giudicare quanto un altro pretende di aver detto sotto ispirazione. Il v. 5 è da leggere alla luce dei vv. 24 e 31, dove ciò è premesso. Questo significato di «profetizzare» (= proclamare in modo ispirato la testimonianza di Gesù nelle Scritture ebraiche) è corroborato dal v. 19, dove fu da lui parafrasato con «dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri»! È erroneo dire qui che Paolo «non sta affatto confrontando la profezia con il parlare in lingue, ma sta sottolineando l’importanza dell’interpretazione delle lingue e dell’ordine»; ogni esegeta può smentirlo, poiché la maggior parte di 1 Cor 14 consiste proprio nell’esaltazione del «profetare» in contrasto col parlare in lingue.

     Sorvolo il resto, contenendo un falso sillogismo che è basato su erronee premesse linguistiche e contenutistiche. Ribadisco solo che «profetare» non è semplicemente «parlare», ma parlare in modo ispirato sulla base della Scrittura, evidenziando in essa specialmente la «testimonianza di Gesù».

 

     ■ Pietro: In 2 Pietro 1,21 l’autore non parlò del profetare nella chiesa, ma della «profezia» contenuta nell’AT, quindi le sacre Scritture ebraiche! Infatti, se Emanuela fosse stata attenta al contesto, avrebbe letto un verso prima che l'apostolo parlò qui della «profezia della Scrittura» (v. 20), corrispondente alla «parola profetica» (v. 19), mentre un verso dopo mise in guardia contro «falsi profeti» e «falsi dottori che introdurranno di soppiatto eresie di perdizione» (2,1). È questo l’effetto della distrazione e della versettologia!? Poi quanto sia discutibile il resto, lo giudichino i lettori stessi.

 

     ■ Ispirazione: Emanuela si attacca a delle virgolette in «ispirato». Si stupisce di una definizione di ispirazione quale «un linguaggio di amore», che non ho mai usata e non so da dove l’abbia cavata. Semmai qui rivelazione era l’intuizione spirituale di un credente durante la lettura comune della Scrittura (allora l’AT) specialmente riguardo alla «testimonianza di Gesù». Si veda qui l’esortazione di 1 Tm 4,13: «Attendi finché io torni, alla lettura, all’esortazione, all’insegnamento». Dalla lettura dell’AT venivano tratti anche l’esortazione e l’insegnamento.

 

2.4.  ASPETTI CONCLUSIVI: Che cosa c’entra il caso di Nathan con la falsa profezia, rimane un mistero. Ma non è il solo.

     Purtroppo Emanuela ricalca in modo ricorrente e riduttivo che «profetare» significhi semplicemente «parlare», attribuendo ciò a me, e su di ciò basa la sua invettiva. Ma queste sono solo le sue false attribuzioni, da cui trae poi false conclusioni. Poi fa ironia e sarcasmo gratuiti per le conclusioni che trae. Ciò non è serio. Come non è serio parlare di «questa bizzarra, nuova e fallace definizione di profezia». Se all’inizio voleva fare la «dotta», specialmente attribuendosi contenuti di altri, come mai alla fine mostra una certa arroganza nei miei confronti? Non avrebbe dovuta essere più seria, corretta e professionale?

     Infine c'è da chiedersi se la frase «chiunque non abbia la propria capacità di discernimento (anche umana) inquinata da preconcetti», non sia formulata sulla scia di quanto ha detto soprain antitesi al sottoscritto. Le sono comunque grato che si è astenuta dalla solita minaccia di aver commesso il peccato contro lo Spirito Santo e di essere sotto il giudizio divino.

     Il mio fraterno consiglio per Emanuela è ad esempio il seguente: prima di esprimere un (pre)giudizio, su cui poi costruisce tutta la sua tesi, è salutare chiedere preventivamente se ciò che ha capito, sia giusto o meno. Ciò la preserverebbe dall’attribuire indebitamente cose al suo prossimo, di usare ironia e sarcasmo per tali presunte cose, magari mal capite, e di fare così una magra figura. Non ha mostrato Emanuele poca serietà tecnica, citando fonti anticristiane ed esoteriche? Non ha mostrato così poco discernimento e poco rispetto per la proprietà altrui?

     Termino con una piccola lezione di etica, destinata a tutti noi cristiani inseriti nel contesto sociale e morale italiano. Ho fatto riferimento sopra al fatto che l'albero buono deve fare frutti buoni! (Mt 7,17). Ciò vale certamente per ognuno di noi. Penso che, se ci fosse un undicesimo comandamento, reciterebbe: «Non barare». Facendo una piccola «spedizione» tra siti, forum e gruppi di discussione cristiani e non, constato che vengono copiati testi altrui con disinvoltura, senza permesso e senza riferimenti bibliografici, sebbene siano «proprietà letteraria riservata». Non è ormai una questione di un singolo, ma un atteggiamento morale diffuso al punto che è considerato una «bagatella» o un «peccato veniale». Giacomo fece notare: «La sapienza che è da alto, prima è pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia» (Gcm 3,17). Paolo raccomandava: «Siate irreprensibili e schietti, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale voi risplendete come luminari nel mondo, tenendo alta la Parola della vita» (Ef 2,15). I cristiani fedeli alla sacra Scrittura dovrebbero mostrare qui di saper essere e fare la differenza!

     In ogni modo, per il troppo tempo già investito nella risposta e per potermi dedicare anche agli altri lettori, non potrò rispondere, per ora, alla sua seconda missiva, arrivata mentre mettevo in rete questo articolo. Questo non chiude però le porte per un confronto fraterno per il futuro.

 

Questioni sui profeti del NT: parliamone {Nicola Martella} (T)

 

► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Den/A1-Discuti_profeti_NT_OiG.htm

08-11-2007; Aggiornamento: 10-11-2007

 

▲ Vai a inizio pagina ▲

Proprietà letteraria riservata

© Punto°A°Croce