Qui di seguito non affrontiamo la
questione se sia legittimo o opportuno andare oggigiorno a evangelizzare di casa
in casa o di porta in porta. Ci interessa primariamente verificare se una tale
pratica si evinca chiaramente dal NT, ossia se i cristiani del primo secolo
avessero una tale abitudine di andare sistematicamente di porta in porta per
evangelizzare il proprio villaggio.
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La questione del lettore
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Ieri sera il nostro
incontro con i Testimoni di Geova è andata bene. Ci hanno fatto vedere un DVD
che descrive la loro opera. In esso viene affermato di essere l’unica vera
religione, e cioè perché sono gli unici che vanno di casa in casa a predicare
l’Evangelo (o meglio: la propaganda geovista!).
Tuttavia volevo domandarti se quella pratica dei discepoli d’andare di casa in
casa (Atti 5,42) è applicabile a noi oggi. Si tratta d’una usanza culturale di
quei tempi? E poi quel passo non si scontra con il comando di Cristo di Luca
10,7? Noi Cristiani dobbiamo essere luce e sale della terra. Sempre pronti a
testimoniare, ma vuol dire che dobbiamo andare di porta in porta? Che mi dici?
{Gaio Rannuni; 12-01-2008}
La risposta ▲
Di là da come si
penserà sul fatto di andare di casa in casa per motivi di evangelizzazione,
faccio presente quanto segue. Un errore madornale è quello di isolare un verso
dal suo contesto (letterario, storico, culturale, ecc.), di riempirlo con nuovi
contenuti e di usarlo in modo fazioso, associandolo magari ad altri versi e
inserendo il tutto in una cornice ideologico-religiosa.
■ Atti 5,42: Questo brano recita come segue: «E ogni giorno, nel
tempio e per le case, non smettevano d’insegnare e di annunziare Gesù come il
Cristo». Questo verso rispecchiava la prassi del giudaismo cristiano. I
cristiani giudei di Gerusalemme, andavano al tempio come tutti i Giudei, ma poi
si radunavano nelle case dei credenti per la comunione e l’insegnamento. A quel
tempo non esistevano locali di culto, ma i credenti di un luogo si radunavano in
varie «chiese in casa» (cfr. Rm 16), secondo il bisogno e secondo che le case
d’allora potevano contenere. In questo verso non si trattava di andare a
evangelizzare di casa in casa i non-credenti, ma della normale prassi di chiesa
fra i credenti, le cui case diventavano centri di insegnamento e
d’evangelizzazione. Tale prassi è la stessa menzionata in At 2,42.46s: «Ed
erano perseveranti nell’attendere all’insegnamento degli apostoli, nella
comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere… 46E tutti
i giorni, essendo di pari consentimento assidui al tempio, e rompendo il pane
nelle case, prendevano il loro cibo assieme con letizia e semplicità di cuore,
47lodando Dio…». Il tempio era il luogo del rito, così com’erano
abituati. Le case era il luogo dell’insegnamento apostolico, della comunione
fraterna, della comunione dei beni («rompere il pane» = mangiare insieme), delle
preghiere e della lode a Dio. Subito dopo si legge: «E il Signore
aggiungeva ogni giorno quelli che erano sulla via della salvezza» (v.
47b). È evidente che non c’era un andare di casa in casa fra i non-credenti, ma
i credenti aprivano le proprie case, che diventavano centri d’insegnamento
biblico e d’evangelizzazione.
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Evangelizzazione o missione?: Spesso si fa riferimento alla prassi di Gesù
di mandare i suoi discepoli in missione e si interpreta che ciò volesse dire
mandarli nel proprio villaggio di casa in casa. Non si trattava di
evangelizzazione cittadina, ma di missione. Gesù mandò i dodici in
missione e cioè a due a due (Mc 6,7). Sebbene dovessero compiere un viaggio,
comandò loro di non portarsi nulla con sé, ma di vivere dell’ospitalità della
gente di ogni luogo dove sarebbero arrivati (vv. 8ss); tuttavia c’era anche la
triste evenienza di essere rifiutati (v. 11). Similmente Gesù, dopo aver
designato settanta discepoli, «li mandò a due a due dinanzi a sé, in
ogni città e luogo dove egli stesso era per andare» (Lc 10,1). Si trattava
di missione estensiva (v. 2). Bisognava mettersi in viaggio, con tutti i
pericoli che ciò significava, e contare solo sull’ospitalità della gente, dove
si arrivava (vv. 3-6). È chiaro che ciò era possibile solo in una cultura che
praticava ciò, ossia che accoglieva e ospitava i forestieri: «E dimorate
in quella stessa casa, mangiando e
bevendo di quello che hanno, perché l’operaio è degno della sua retribuzione.
Non passate di casa in casa». Non si trattava quindi di uscire da casa
propria per alcune ore, ma di recarsi in altre città distanti, sperando di
essere accolti e col rischio di rimanere senza vitto e alloggio (vv. 8-11).
■ Questo costume dei predicatori itineranti del cristianesimo si tenne
per secoli in Oriente. Essi si recavano di luogo in luogo per edificare i
cristiani e vivevano di ciò che i credenti davano loro durante la loro
permanenza e per l’ulteriore viaggio (Rm 15,24.28; 1 Cor 16,5ss). A volte
venivano scritte lettere di raccomandazione da parte di chiese o di persona
conosciute (Fil 2,29s; Col 4,10; Tt 3,13s). Giovanni scriveva a Gaio: «Diletto,
tu operi fedelmente in quel che fai a pro dei fratelli che sono, per di più,
forestieri.
6Essi hanno reso testimonianza del tuo amore, dinanzi alla chiesa; e
farai bene a provvedere al loro viaggio in modo degno di Dio; 7perché
sono partiti per amor del nome di Cristo, senza prendere alcun che dai pagani.
8Noi dunque dobbiamo accogliere tali uomini, per essere cooperatori
con la verità» (3 Gv 1,5-8).
■ Arriviamo ad alcuni
aspetti conclusivi. Non si può affermare che la prassi dei seguaci della
Torre di Guardia di andare di casa in casa (ossia di coloro che non sono T.d.G.)
abbia un chiaro fondamento biblico; non si può neppure considerare ciò un
elemento significativo che garantisca la loro originalità e l’essere la
«religione giusta».
Nel libro degli Atti e nelle epistole del NT non è conosciuta una prassi del
genere, ossia di andare di casa in casa fra i non-credenti nel proprio
villaggio. Al contrario, vediamo che le case dei credenti diventavano luoghi di
testimonianza, di comunione, di vita, eccetera. La vita di chiesa avveniva nelle
«chiese in casa» (At 16,5; 1 Cor 16,19; Col 4,15; Flm 1,2) ed esse erano il
luogo d’accoglienza anche dei non credenti (1 Cor 14,23ss; Gd 1,12). È scritto
che «Saulo devastava la chiesa, entrando di casa in casa» (At 8,3). I
neo-convertiti aprivano le loro case (At 16,14s.40).
Paolo e Barnaba, arrivati in un certo luogo, non andavano di casa in casa, ma si
recavano nella locale sinagoga (At 13,14; 14,1; 17,1ss.10.17; 18,4.19;
19,8), predicando qui Gesù quale Cristo. Quando nasceva il conflitto con i
Giudei che rifiutavano l’Evangelo (At 17,5ss), separavano i discepoli e si
dedicavano a questi (At 19,9). Spesso anche lo stesso annuncio pubblico
dell’Evangelo era dato da una situazione contingente (miracolo, tumulto,
persecuzione, processo, ecc.) più che dalla volontà dei predicatori. In certe
città greche ci si recava nella piazza o nell’areopago per parlare e
discutere e Paolo fece similmente (At 17,17ss). Dove egli si recava, certamente
cercava ospitalità presso persone timorate di Dio (At 18,7 entrò in casa d’un
tale); ma non andava di casa in casa.
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Bisogna andare a evangelizzare di casa in casa? Parliamone
(T)
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Den/A1-Casa_in_casa_GeR.htm
13-01-2008; Aggiornamento: 05-11-2008
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