«Il denaro non puzza», ossia va bene qualunque sia la fonte, dicono gli
uni. Secondo altri, sarebbe addirittura lo sterco del diavolo.
Nonostante ciò, alcuni ci sguazzano bene dentro.
La Bibbia è realista come al solito. Da una parte, afferma che la
ricchezza sia un riparo (Ec 7,12), apre tante porte (Ec 10,19) ed è un
soffice cuscino che fa dormire sonni tranquilli (cfr. Ec 5,19); si trova
nella casa del giusto (Sal 112,3) e i padri la ereditano ai figli (Pr
19,14). Dall’altra, asserisce che le ricchezze acquisite con la frode
non saranno una garanzia per l’empio nel giorno della resa dei conti (Pr
11,4). Sebbene le ricchezze possono essere utili, chi confida in esse
fallirà nella vita (Pr 11,28; cfr. 23,5). Infine, essa afferma che
l’amore per il denaro sia l’origine di ogni tipo di male (1 Tm 6,10).
La Bibbia contiene anche molti saggi consigli su come comportarsi col
denaro e la ricchezza (Pr 13,8.11) e molti preziosi avvertimenti e
insegnamenti (Sal 62,10; Pr 13,22; 19,4; 22,22; 23,4s; 27,24; Ec 4,8;
5,10.13s; 5,19; 6,2).
Geoge Orwell, il famoso autore del libro apocalittico «1984», ha
riscritto addirittura 1 Corinzi 13 («l’inno dell’amore»), facendone il
canto della pecunia.
«Anche se io parlassi tutte le lingue degli uomini e degli angeli,
se non ho denaro divento un ramo risonante e un tintinnante cembalo.
E se anche avessi il dono di profezia e intendessi tutti i misteri e
tutta la scienza,
e se avessi tutta la fede, tanto da poter smuovere le montagne,
se non ho denaro, non sono nulla.
E anche se spendessi nel nutrire i poveri tutte le mie facoltà e dessi
il mio corpo a essere arso,
se non ho denaro, ciò niente mi giova.
Il denaro sa resistere a lungo ed è benigno;
il denaro non invidia,
non procede perversamente,
non si gonfia;
non opera disonestamente,
non cerca le cose sue proprie,
non s’inasprisce,
non sospetta il male;
…
queste tre cose durano al presente: fede, speranza e denaro, ma la
maggiore di esse è il denaro».
(da Fiorità l’aspidistra
[1936]; testo inviato da Argentino Quintavalle}
Un segno degli gli uomini alla fine dei tempi è che saranno tra altre
cose «egoisti,
amanti del denaro, vanagloriosi,
superbi…» (2 Tm 3,2). Per i cristiani rimane la sfida di Gesù
rivolta ai suoi discepoli: «Nessuno può servire a due padroni; perché
o odierà l’uno ed amerà l’altro, o si atterrà all’uno e sprezzerà
l’altro. Voi non potete servire a Dio ed a Mammona [la ricchezza
personificata]» (Mt 6,24).
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1.
{Argentino Quintavalle}
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Fin dall’antichità il denaro ha avuto un’importanza fondamentale nella società
umana. Il denaro ha determinato, e determina tutt’oggi, classi sociali e
rapporti interpersonali. In molti casi il potere economico coincide con il
potere politico o almeno influenza la politica in maniera sostanziale. Il denaro
poi, spesso divide poiché la sua stessa esistenza crea disparità tra gli
individui. Nel lodevole tentativo di creare una società equa,
basata sulla parità dei singoli, il problema della disparità economica si è
rivelato come uno dei più ardui da affrontare. Molte religioni hanno ritenuto
opportuno limitare l’importanza del denaro: basti pensare all’aspirazione alla
povertà della dottrina cattolica o alla vita ascetica dei monaci buddisti. Eppure è strano che la Bibbia non predichi affatto la
povertà. La vita di ogni cristiano, per quanto egli sia
spirituale e devoto, si svolge in questo mondo materiale, anche se ovviamente la
materia è un mezzo da usare, non il fine della vita. La Legge del Vecchio Testamento sanciva un sistema
sociale che garantiva una società egalitaria in cui il rispetto per l’uomo
veniva davanti a tutto. Questo era il senso dell’anno sabbatico e del giubileo.
Nel primo sarebbe dovuto avvenire una sorta di condono sulle operazioni
commerciali, mentre nel secondo anche la terra, che era stata venduta, sarebbe
dovuta tornare al proprietario originale, mantenendo quella situazione di parità
che era stata stabilita all’ingresso nel paese. La terra, simbolo primo della
ricchezza per un popolo di pastori, è concessa in usufrutto all’uomo ma la sua
proprietà rimane di Dio. Dio disse ad Israele: «E voi mi sarete come tesoro
tra i popoli poiché è mia tutta la terra». Il riconoscere la proprietà
divina della Terra è quindi una cosa fondamentale. I beni materiali sono dunque un mezzo e vanno
amministrati nella giusta maniera. Solo chi riduce volontariamente la propria
ricchezza afferma che essa non gli appartiene ma gli è concessa in usufrutto.
Non può mancare in questa chiave una riflessione sulla povertà. «Se vi sarà qualche tuo fratello bisognoso in mezzo
a te, in alcuna delle tue città nel paese che l’Eterno, il tuo Dio, ti dà, non
indurirai il tuo cuore e non chiuderai la tua mano davanti al tuo fratello
bisognoso; ma gli aprirai generosamente la tua mano e gli presterai quanto gli
occorre per venire incontro al bisogno in cui si trova. Bada che non vi sia
alcun cattivo pensiero nel tuo cuore, che ti faccia dire: il settimo anno,
l’anno di remissione, è vicino, e il tuo occhio sia cattivo verso il tuo
fratello bisognoso e tu non gli dia nulla; egli griderebbe contro di te
all’Eterno e ci sarebbe del peccato in te. Dagli generosamente, e il tuo cuore
non si rattristi quanto gli dai, perché proprio per questo, l’Eterno, il tuo
Dio, ti benedirà in ogni tuo lavoro e in ogni cosa a cui porrai mano. Poiché i
bisognosi non mancheranno mai nel paese, perciò io ti do questo comandamento e
ti dico: Apri generosamente la tua mano a tuo fratello, al tuo povero e al tuo
bisognoso nel tuo paese» (Dt 15,7-11) Parole del genere non necessitano di molti commenti:
dobbiamo entrare in un ordine di idee molto distante dall’etica corrente. Spetta a colui, che è stato benedetto con la ricchezza,
di testimoniare che questa viene da Dio, dando al povero o a chi si trova
momentaneamente in difficoltà economica. La parola «carità» in ebraico non
esiste. Dare denaro a un povero è zedakà «giustizia». Chi presta a un
povero, presta a Dio. Chi dona a un povero, riconosce che ciò che ha non gli
appartiene. Non può limitarsi a dare pochi spiccioli. Ha il dovere di dare al
povero o a chi è in difficoltà, tutto ciò di cui egli ha bisogno, e questo ce lo
insegna Gesù Cristo nella parabola del buon samaritano. Certo non ci si deve
impoverire per sostenere gli altri, ma non deve commettere l’errore di sentirsi
il padrone del denaro che ha. La materia appartiene a Dio. È inutile frugarsi le tasche. Sappiamo perfettamente
dove abbiamo i soldi. Ma quando diamo al povero, vogliamo soddisfare la nostra
esigenza di sentirci in pace con la coscienza o vogliamo veramente aiutare una
persona in difficoltà? Il miglior modo di praticare la zedakà è di dare
a una persona che non conosciamo, facendo in modo che egli non sappia chi sia
colui che dà. È il rispetto verso il prossimo, la dignità del misero che deve
prevalere. È la mano destra che non sa quello che fa la sinistra, come disse
Gesù. Da questo punto di vista sarebbe colui che dà a dover
dire grazie al povero perché in questo caso il povero consente a chi è più
benestante di poter testimoniare della sovranità di Dio sul creato. Gesù disse:
«Più felice cosa è il dare che il ricevere». Essere in condizione di dare a chi ne ha bisogno è un
dono che Dio fa a noi che abbiamo avuto bisogno di essere perdonati.
Per l’approfondimento dei sabati, dell’anno sabbatico e del giubileo ebraico, della legislazione
in merito e della loro applicazione o meno nel corso della storia, si veda Nicola Martella,
Šabbât (Punto°A°Croce, Roma 1999). |
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► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Cul/T1-Denaro_puzza_Sh.htm
24-04-2007; Aggiornamento: 30-06-2010 |