Questo tema di discussione prende spunto dagli articoli di Argentino Quintavalle dal titolo
«Lezioni dalla storia»: (1
| 2
| 3).
Ad essi ho fatto osservazioni e obiezioni negli articoli dal titolo «La questione della "cultura
biblica" alla luce del giudaismo» (1
| 2
| 3).
Qui riporto alcune ulteriori considerazioni e do voce, oltre che ad Argentino, anche a chi
voglia intervenire al riguardo. Lo scopo è quello di continuare a dialogare nella ricerca della verità.
Che cosa ne pensate? Quali sono al riguardo le vostre
esperienze, idee e opinioni?
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1.
{Nicola
Martella} ▲
La questione della cultura Partiamo dalla concezione antropologica della cultura:
essa è l’identità di un popolo o di un gruppo etnico e comprende il variegato
insieme di lingua, storia, costumi, atteggiamenti, valori, ideali, stile di
vita, abitudini, religiosità, credenze, eccetera. Queste loro peculiarità li
permette di distinguersi da altri popoli, gruppi etnici o gruppi culturali. Nell’accezione antropologica ed etnografica la cultura
(o la civiltà) è, secondo la definizione dell’antropologo inglese Edward Tylor,
«quell’insieme complesso che include il sapere, le credenze, l’arte, la morale,
il diritto, il costume, e ogni altra competenza e abitudine acquisita dall’uomo
in quanto membro della società» (Cultura primitiva, 1871). Ad esempio, i Recabiti avevano delle peculiarità
culturali che li distinguevano dal resto degli Israeliti al tempo del profeta
Geremia (Gr 35). Gli stessi criteri permettevano di distinguere altri gruppi
etnici o culturali. Lo stesso accade anche all’interno del cristianesimo stesso.
Un cristiano hippy ha uno stile di vita e una cultura differente da un cristiano
borghese; i cristiani gitani appartengono a una cultura diversa dai paesi che li
ospitano. I discendenti dei cristiani tedeschi anabattisti, che secoli fa si
recarono in Russia per sfuggire alle persecuzioni, rientrando in Germania
fondano proprie chiese non identificandosi con la cultura delle chiese del loro
stesso tipo. I cristiani romeni, emigrati in Italia in questi anni, fondano
proprie chiese per poter vivere così la loro identità culturale ed ecclesiale.
La questione della cultura giudeo-cristiana Il modo di vivere della chiesa giudaica della Giudea
rappresenta il modello di «cultura biblica» a cui i cristiani dovrebbero
ispirarsi anche oggigiorno? Secondo alcuni cristiani amanti del giudaismo, dovrebbe
essere così. Essi sono non solo i cosiddetti «Giudei messianici» (termine
equivoco per indicare i «cristiani giudaici», visto che anche altri Giudei
attendono il Messia e sono quindi «messianici»), ma anche cristiani gentili con
una forte aspirazione verso l’AT, il giudaismo, la cultura e i riti ebraici; non
bisogna neppure dimenticare i seguaci del «sionismo cristiano». Diversi di
questi aspetti sono condivisi ad esempio da Argentino Quintavalle. Secondo altri cristiani, la cultura occidentale,
derivata dal cristianesimo di stampo greco-romano, sarebbe la «cultura biblica»
dei cristiani. Questo modello ha imperato per secoli in Occidente e i missionari
cristiani lo hanno esportato in tutto il mondo come «modello biblico». Il
pensiero dogmatico occidentale, la mentalità razionalistica, l’approccio
filosofico-dogmatico alle Scritture, il modo di concepire la fede e la cultura,
il modo di radunarsi, le concezioni ecclesiologiche, le abitudini ecclesiastiche
e tanti altri aspetti sono stati considerati semplicemente come «pensiero
biblico», proiettato poi nell’interpretazione della Scrittura. Né io né
Argentino potremmo mai sottoscrivere una tale opinione. Secondo altri cristiani ancora, l’Evangelo è un
messaggio semplice ma potente che vuole incarnarsi in ogni cultura che trova,
trasformando le persone. Persone trasformate dall’Evangelo, trasformeranno in
meglio e nobiliteranno le loro rispettive culture, combattendo perciò (per prima
cosa nella propria vita) gli aspetti deleteri della cultura in cui sono
inseriti. Se la cultura religiosa e morale dei cristiani giudaici di Gerusalemme
fosse stata quella normativa, ossia la «cultura biblica», gli scrittori del NT
avrebbero fatto grandi sforzi per descriverla per filo e per segno e per
raccomandarla a tutti i cristiani; al contrario, Luca usò solo alcune
«pennellate» essenziali. Come si sa, i brani descrittivi da soli non possono
essere normativi e ingiuntivi, mentre lo sono quelli dottrinali. Nei brani
dottrinali degli Atti al centro sta l’Evangelo e non la cultura dei cristiani
giudaici; particolarmente in At 15, in cui c’è una decisione dottrinale storica,
i cristiani giudei di Gerusalemme decidono da parte di Dio che la cultura dei
cristiani giudei non poteva essere ingiunta come normativa ai cristiani gentili,
e ciò riguardava non solo la cultura, ma anche il giogo della Legge mosaica. Gli
scrittori del NT attribuivano all’Evangelo la potenza di trasformare in meglio
ogni cultura in cui esso s’innestava nel cuore e nella vita degli uomini. Le
parole di Gesù avrebbero poi aiutato a costruire uno stile di vita e di pensiero
all’interno della cultura in cui il credente si trovava. Questi aspetti solo le
costanti all’interno delle variabili delle singole culture. Questa «sana
dottrina» e questo «buon deposito» non doveva livellare ogni cultura a una sola
(giudaica per gli uni, occidentale per altri), ma rappresentare il patrimonio
comune all’interno di una grande variabilità di usi, costumi, stili di vita,
percezioni culturali e modi di vivere. Questa è la visione di cui la Scrittura,
in primis il NT, mi convince.
2. {Argentino
Quintavalle} ▲
Nota redazionale: Il seguente scritto di Argentino è precedente a
quanto scritto sopra, perciò non risponde a esso, ma a
«La
questione della "cultura biblica" alla luce del giudaismo 1» .
Perseguire lo scopo di dialogare nella ricerca della verità è cosa buona e tale
è il mio scopo. Non condanno le opinioni altrui per avallare le mie, dato che la
verità è monopolio solo di Dio. Ci sono argomenti che condivido e altri che non
condivido, ma la mia filosofia non è quella del «tu hai torto, io ho ragione».
Come poteva la prima e seconda rivolta giudaica avere
influenza sulla chiesa primitiva? L’ho spiegato nell’articolo «Lezioni
dalla storia 1», e lo chiarisco poi ancora di più in «Lezioni
dalla storia 2». Poi, chi vuol dissentire dissentirà, chi vuol
concordare concorderà.
Esiste una cultura biblica? L’argomento portato per
dire di no, è proprio quello che invece la conferma, semmai ce ne fosse bisogno.
Voglio tralasciare il Vecchio Testamento, dove sarebbe fin troppo facile
dimostrare che chi voleva entrare a far parte del popolo del patto doveva
conformarsi alle leggi d’Israele. Parlando dunque soltanto del Nuovo, in Atti 15
vediamo che i cristiani gentili devono incominciare a cambiare le loro abitudini
«culturali»: ■ 1) Prima di At 15 potevano mangiare di tutto, ora
invece devono astenersi dalle cose contaminate nei sacrifici agl’idoli.
Significava estraniarsi a buona parte della vita sociale di quei tempi. Questo
non significa acquisire una cultura biblica? ■ 2) Dopo At 15 dovevano astenersi dalla fornicazione.
Considerando l’ambiente di quei tempi, non significa forse acquisire una cultura
biblica? ■ 3) Dopo At 15 dovevano astenersi dalle cose soffocate
e dal sangue. Senza approfondire troppo l’argomento, questo significava cambiare
le proprie abitudini riguardo al cibo, o almeno porre attenzione a come gli
animali venivano macellati. Questo significava lasciare la propria cultura e
acquisire quella giudaica, cioè quella biblica! ■ 4) Paolo in 1 Cor 11 parla dell’usanza di mettere il
velo (le donne). I cristiani gentili, dovevano cambiare la propria
mentalità/cultura e acquisire quella giudaica/biblica. ■ 5) Un pagano che diventa cristiano, cioè crede che il
giudeo Gesù di Nazareth, il Messia, è il suo Salvatore, e che per questo
incomincia a leggere la parola ispirata di Dio, facendone regola di fede e
comportamento per la vita, per me sta cambiando la propria cultura.
Se poi, per «cultura» vogliamo intendere soltanto l’insieme delle tradizioni, il
sapere scientifico, letterario e artistico d’un determinato popolo, sono più che
mai d’accordo che l’Evangelo non vuole snaturare queste cose, a condizione che
esse non siano in conflitto con la verità biblica. Infatti abbiamo scritto un
articolo, Nicola e io, dove eravamo concordi nel dire che una cultura sbagliata
può influenzare, non solo l’interpretazione biblica, ma anche la traduzione
stessa della Bibbia. È un grande errore vedere nel cristianesimo di
Gerusalemme un modello di cultura biblica dato che durò solo pochi decenni?
Faccio presente che bastano pochissimi anni (non decenni) per creare dei
modelli; e quello che si è sviluppato a Gerusalemme, fino a prova contraria, lo
ritengo essere stato il nonplusultra del modello biblico di chiesa.
La fede in Gesù è un’eredità giudaica? Sì, lo è, dato
che «la loro caduta è la ricchezza del mondo e la loro diminuzione la
ricchezza dei Gentili». Se poi se ne sganciò, rimando al mio prossimo
articolo «Lezioni
dalla storia 2», per vedere la caduta libera in cui è andato incontro il
cristianesimo dal suo orgoglioso sganciamento.
Prendo nota dell’osservazione: «Quello che rimase fu
una concettualità generale che in genere non fu espressa neppure in ebraico ma
in greco (il NT è stato scritto in greco e non esiste neppure un solo frammento
in ebraico!)». Ho già scritto due articoli in questo sito sull’argomento: «Che
lingua parlava Gesù?». Probabilmente non sono stati sufficienti a far capire che
cosa c’è dietro il testo greco del Nuovo Testamento e in particolare degli
Evangeli sinottici. Non è facile abbattere le mura, ma siccome non m’arrendo,
ora rimando alla serie di articoli dal titolo: «La lingua degli Ebrei».
Brevemente: Se i cristiani hanno partecipato alle
rivolte giudaiche ne parlo in « «Lezioni
dalla storia 2».
Noto che spesso si parla dei cristiani giudaici come di
«poche migliaia». Mettere però l’accento sull’aggettivo indefinito «poche» è
fuorviante, perché ogni volta che la Bibbia ne parla vuole sempre indicare una
grande quantità e non una piccola quantità; quindi erano
molte le migliaia di Giudei che
s’erano convertiti a Cristo. Contrariamente, non si parla mai del numero dei
cristiani gentili. Forse anche per questo ci sarà un motivo. Le molte migliaia
di Giudei convertiti a Cristo, sono proporzionalmente di più dei Gentili
convertiti a Cristo, se dovessimo rapportarli alle rispettive popolazioni.
«Sono quindi convinto che ritenere la cultura ebraica
(anche quella del paleo-cristianesimo di Gerusalemme) come “cultura biblica” e
“modello culturale” per i cristiani d’oggi sia un abbaglio». Personalmente, ma
naturalmente è solo la mia opinione, sono del parere che la cultura ebraica è
quella biblica. Ci sono cose della Bibbia che sono praticamente impossibili da
interpretare senza conoscere la cultura ebraica. Paolo, in Rm 11 esorta i
credenti gentili a non avere un giudizio superiore sui Giudei ma a rimanere
umilmente consapevoli che i Giudei sono i rami naturali, cioè la crescita
naturale dell’albero. Comunque in «Lezioni
dalla storia 3», cercherò di far apprezzare la bellezza della cultura
greco-romana di cui 99 cristiani su 100 sono abbagliati.
3.
{Nicola
Martella} ▲
Già prima che arrivasse il cristianesimo, c’erano diversi atteggiamenti fra i
Gentili che cercavano il Dio vivente: 1) Alcuni si convertivano al giudaismo,
accettando il giogo della legge mosaica e delle tradizioni giudaiche; 2) Altri
diventavano simpatizzanti o timorati, accettando la fede in Dio e alcune regole
morali della Legge, ma non seguivano né i riti né le tradizioni giudaici.
C’erano forse anche altre sfaccettature ibride del problema. Il giudeo-cristiano Pietro entrò nella casa di
Cornelio, solo dopo qualche distinguo: «Voi sapete come non sia lecito ad
un Giudeo di aver relazioni con uno straniero o d’entrare da lui» (At
10,28). Infatti, per i Giudei ogni Gentile era un «uomo immondo o contaminato».
E questo Pietro lo disse, sebbene Cornelio fosse «pio e temente Dio con tutta
la sua casa» (v. 1), sì «uomo giusto e temente Dio e del quale rende
buona testimonianza tutta la nazione dei Giudei» (v. 22). Dopo la
manifestazione dello Spirito Santo e il battesimo dei convertiti, non si legge
che il giudeo-cristiano Pietro avesse imposto loro la cultura giudeo-cristiana.
A dire il vero, fu Pietro ad avere difficoltà, una volta tornato a Gerusalemme
(At 11,1ss). Pietro spiegò i fatti come erano avvenuti e parlò della
manifestazione dello Spirito Santo (vv. 15ss). Essi conclusero: «Dio dunque
ha dato il ravvedimento anche ai Gentili affinché abbiano vita» (v. 18).
Anche qui non si pose il problema di imporre la cultura giudeo-cristiana ai
cristiani gentili. La questione si pose solo tempo dopo, quando dei
cristiani di stampo farisaico facevano dipendere la salvezza dei cristiani
gentili dalla circoncisione (At 15,1) e quindi pretendevano che essi
osservassero la legge di Mosè (v. 5). Durante il concilio di Gerusalemme,
Pietro fece dipendere invece la questione dalla manifestazione dello Spirito
Santo, che purifica «i cuori loro mediante la fede» (vv. 8s), rilevando
che tutti Giudei e Gentili sono «salvati per la grazia del Signor Gesù»
(v. 11). Pietro ritenne che l’intento dei Farisei cristiani
costituisse un modo di tentare Dio e ammise che così facendo, si stava «mettendo
sul collo dei discepoli un giogo che né i padri nostri né noi abbiamo potuto
portare» (v. 10). La cultura derivante dalla Legge era quindi tale giogo
pesante e insopportabile (per questo Gesù parlò del suo insegnamento come di un
«giogo leggero»). Le quattro cose suggerite da Giacomo — ribadendo che «non
si dia molestia a quelli dei Gentili che si convertono a Dio» (v. 19) —
servivano a evitare localmente un’occasione di divisione con i Giudei: «Poiché
Mosè fin dalle antiche generazioni ha chi lo predica in ogni città, essendo
letto nelle sinagoghe ogni sabato» (v. 21). Questo non significava
assoggettare i cristiani gentili alla cultura giudeo-cristiana di Gerusalemme,
ma intendeva creare un minimo comune denominatore che permettesse ai due gruppi
di avere comunione. In Rm 14 Paolo evidenziò la legittimità di due
stili di vita diversi, accomunati dalla fede nello stesso Signore. I cristiani
giudei si attenevano alle prescrizioni alimentari della Legge e osservavano il
«giorno» (lo šabbat), i cristiani gentili non avevano questo costume. Paolo non
cercò di convincere i cristiani romani, che si incontravano nelle numerose
«chiese in casa» (cfr. Rm 16), che la cultura dei cristiani giudaici fosse
quella originale e migliore e quindi ingiuntiva per tutti i cristiani. Non cercò
neppure di convincere che fosse sbagliatolo stile di vita che ognuno conduceva a
casa propria («Tu, la convinzione che hai, serbala per te stesso dinanzi a
Dio. Beato colui che non condanna se stesso in quello che approva»; v. 22).
La questione si ingenerava quando i due tipi di gruppi con le loro differenti
culture avevano comunione e facevano cose comuni; in tale caso, era bene
che la parte forte (i cristiani gentili che mangiavano di tutto), avesse
riguardo alla parte debole (i cristiani giudei), non ponendo intoppi alla
coscienza altrui (vv. 21.23). Un tal caso si presenta oggigiorno, ad esempio, laddove
credenti italiani hanno comunione con quelli statunitensi. Per questi ultimi
bere vino o alcool è peccato. Per riguardo verso tali cristiani astemi
non bisogna rinunciare a bere vino a casa propria, ma è bene non farlo quando si
mangia insieme a loro. I cristiani giudei (e quelli avventisti) osservano il
sabato. Altri osservano per tradizione la domenica. Secondo me nel NT non
viene comandato un giorno da osservare e non accetto prescrizioni ingiuntive al
riguardo. Non ho però difficoltà a concedere agli altri la loro convinzione e a
incontrarmi con gli uni o con gli altri nel giorno che essi preferiscono, visto
che io stimo «tutti i giorni uguali» (Rm 14,5). L’Evangelo è uno, la
«sana dottrina» è una e uno è il «deposito della fede», le culture in cui ciò si
innesta possono essere differenti. Nessuna di loro ha la patente della
superiorità. «Sia ciascuno pienamente convinto nella propria mente» (Rm
15,5) e lo faccia «per il Signore» (v. 6), senza giudicare disprezzare il
suo fratello per la sua diversità culturale (v. 10), senza «porre pietra
d’inciampo sulla via del fratello, né essergli occasione di caduta» (v. 13),
senza far valere i propri privilegi culturali (v. 16). Ritornando ad alcune cose dette da Argentino, si noti
quanto segue. ■ I punti ingiunti ai cristiani gentili avevano
come fine la comunione coi i cristiani giudei ed erano solo e soltanto quattro
(cfr. At 21,25). È un grave errore partire da una prassi di macellazione per
arrivare a dire: «Questo significava lasciare la propria cultura e acquisire
quella giudaica, cioè quella biblica!». La cultura di un popolo non si riduce
all’astensione da cose soffocate e dal sangue. È altresì sbagliato proiettare in
ciò tutta la legge rituale del giudaismo. In At 15 il concilio non richiese ai
Gentili di abbandonare «la propria cultura e acquisire quella giudaica», né
definì quest’ultima «quella biblica», come invece volevano i cristiani di
provenienza giudeo-farisaica (vv. 1.5). Pietro definì tutto ciò, come detto, un
«giogo insopportabile» e «tentare Dio» (v. 10). ■ Quanto al velo di 1 Cor 11 mi è nuovo che al
riguardo i «cristiani gentili, dovevano cambiare la propria mentalità/cultura e
acquisire quella giudaica/biblica». Nel giudaismo erano (e sono) i maschi a
velarsi il capo. Come molti commentatori dicono di 1 Cor 11, in Corinto c’era il
problema delle prostitute. Mai nell’AT e nel NT si parla della velatura delle
donne in ambito giudaico. Questo connubio «giudaico/biblico» è ideologico e
preoccupante, poiché formulando così le cose si abbandona il terreno
dell’oggettività e dell’imparzialità. ■ Che lingua parlava Gesù? Con gli Ebrei parlava
presumibilmente ebraico, con i Samaritani e Fenici presumibilmente parlava
aramaico e con i Greci parlava greco (cfr. Gv 12,20s; la maggior parte dei
Giudei viveva nella diaspora e parlava greco; cfr. At 11,20; 14,1; 18,4). Non si
sa in che lingua avesse parlato con Pilato, probabilmente greco. Che lingua parlavano i credenti della Palestina?
Anche nella chiesa di Gerusalemme c’erano Ellenisti ed Ebrei (At 6,1), i primi
erano di lingua e cultura greca, i secondi di lingua ebraica e di cultura
medio-orientale; ciò rispecchiava il giudaismo etnico di Gerusalemme (At 6,9;
9,29), città allora cosmopolita e multilingue. Pietro non avrà avuto difficoltà
a parlare in Cesarea (colonia greco-romana) al romano Cornelio e alla gente di
casa sua in greco (At 10,24). ■ Argentino ripete continuamente che «la cultura
ebraica è quella biblica». E aggiunge che «Ci sono cose della Bibbia che
sono praticamente impossibili da interpretare senza conoscere la cultura
ebraica». Ho insegnato l’AT per più di vent’anni e penso che ci sia una
differenza fra «conoscere la cultura ebraica» e ritenere che quest’ultima sia
quella biblica; è un sillogismo incredibile. È poi così impossibile interpretare
il NT
senza conoscere la cultura ebraica? Se le cose stessero così, Dio avrebbe
aggiunto al NT un supplemento di «cultura giudaica» quale chiave ermeneutica. E poi quale «cultura ebraica»? Quella
rivoluzionaria degli Zeloti? Quella monacale degli Esseni? Quella filo ellenista
dei Sadducei? Quella dualista del giudaismo babilonese o quella ellenista di
Alessandria d’Egitto? Quella medioevale
del Talmud? Quella mistico-esoterica della cabala, dell’alchimia e dello Zoar?
Quella sionista? Quella ultraortodossa o quella liberale? Anche la «cultura
ebraica» nei secoli è stata sempre variopinta, come lo è attualmente, tanto che
si dovrebbe parlare delle «culture giudaiche». Come qualcuno ha scritto il
pluralismo religioso, politico e culturale è stato una caratteristica del
giudaismo. Ci fermiamo qui, perché il discorso ci porterebbe molto lontano.
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► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Cul/T1-Cultura_biblica_giudaismo_Sh.htm
16-02-2007; Aggiornamento: 30-06-2010 |