Un
lettore mi ha scritto quanto segue: Volevo sapere se praticare arti
marziali, come Karate, Judo, ecc. sono cose idonee per i credenti. Un
credente può lavorare per il Signore e praticare arti marziali? Mio
fratello ha scritto mio nipote allo Judo; lui non è credente, tanto meno
mio nipote. Però questa cosa mi ha messo dei pensieri. Io come credente
devo pensare che un credente può praticare arti marziali e vivere nello
stesso tempo una fede genuina in Cristo? {Maurizio Maniscalco; 16
ottobre 2009}
Ho scritto ad alcuni amici cristiani che nel passato avevano avuto a che
fare con alcune discipline delle arti marziali orientali (Judo, Karate e
così via), invitandoli a rispondere tu alle questioni sollevate dal
lettore. Alcuni di loro hanno praticato una o più arti marziali per
lungo tempo e sono molto addentrati nella questione; con uno di loro ho
avuto un lungo colloquio molto istruttivo e chiarificatore e confido che
egli interverrà ancora per iscritto. Chiedevo loro, fra altre cose,
anche queste cose: La questione principale è quanto incida
effettivamente la religiosità orientale nel frasario e nella gestualità
(spiritualità, devozione, idolatria) di chi apprende o esercita le arti
marziali. Ad esempio, l’allievo comprende tutte le frasi che dice nella
lingua orientale? A chi fa eventuali inchini? Deve fare gesti o atti di
devozione verso foto di persone (maestri, ecc.) che stanno in Oriente o
addirittura che sono morte? E così via.
Che cosa ne pensate? Quali sono al riguardo le vostre
esperienze, idee e opinioni?
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1.
{Nicola Martella}
▲
Qui di seguito introduco soltanto alla questione, fidando che lettori con
competenze specifiche interverranno, chiarendo aspetti particolari. La
locuzione «arti marziali» proviene da «arte» e
da «marziale». «L’arte,
nel suo significato più ampio, comprende ogni attività umana — svolta
singolarmente o collettivamente — che, poggiando su accorgimenti
tecnici, abilità innate e norme comportamentali derivanti dallo studio e
dall’esperienza, porta a forme creative di espressione estetica». Il
termine «marziale» significa «(in nome) di Marte, relativo a Marte» e
per estensione, essendo considerato Marte il dio della guerra, «relativo
al combattimento». Sebbene per «arti marziali» si dovrebbe intendere
ogni disciplina legata al combattimento, nella pratica oggigiorno si
intendono specialmente le arti marziali orientali e specialmente quelle
giapponesi e cinesi. Sebbene fin dall’antichità esistano arti marziali
europee, qui di seguito ci occuperemo solo di quelle orientali.
In origine le arti marziali orientali erano legate in modo indissolubile
alle culture, religioni (induismo, buddismo, taoismo, shintoismo), alle
filosofie orientali e alle tecniche della medicina tradizionale cinese.
Non a caso, erano tecniche praticate nei monasteri e riservate a una
certa elite di persone. [Per l’approfondimento si vedano in Nicola
Martella, Dizionario delle medicine alternative,
Malattia e guarigione 2 (Punto°A°Croce, Roma 2003), gli articoli: «Agopuntura»,
pp. 13-26 (+ 27-43); «Ayurveda», pp. 37ss; «Chi», pp. 94s; «Induismo
e buddismo», p. 107; «Macrobiotica», pp. 275-279; «Medicina tradizionale cinese», pp. 327-332;
«Meridiani», pp. 333s; «Qi Gong», pp. 447s; «Tai Chi Chuan», p. 518; «Tao», pp. 518s; «Taoismo», pp. 519s; «Tecniche di rilassamento», pp.
520-528; «Yin e yang», pp. 555s; «Yoga», pp. 556-563.]
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, le arti marziali furono
importate nell’Occidente, dove vennero adattate alla cultura
occidentale, persero la maggior parte degli elementi ideologici
orientali, divenendo perlopiù solo tecniche fisiche, di lotta, di
combattimento, quindi uno sport. Infatti, nell’occidente le arti
marziali non furono insegnate presso monasteri e templi, ma in palestre;
in grandi complessi di fitness si possono trovare palestre di arti
marziali di tipo orientale accanto ad altre discipline di tradizione
occidentale, sport, culturismo, ginnastica e così via. Le arti marziali
di tipo orientale sono diventate quindi un prodotto di consumo come
altri.
C’è da dire comunque che anche in occidente esistono maestri di arti
marziali orientali che, avendo studiato con un maestro buddista,
scintoista o Zen ed essendosi convertiti alle religioni orientali,
usano le loro palestre come «specchietto per le allodole», ossia come
mezzo per fare proseliti. In pratica la palestra di arti marziali
orientali è parimenti il tempio per il buddismo e la scuola per la
filosofia Zen.
2. {Marco Aladino, ps.}
▲
Nota redazionale: Marco è un ragazzo adolescente (ca. 16 anni),
convertito da non molto tempo, che ama il Signore Gesù Cristo ed è
impegnato a seguirlo con serietà di discepolo e in fedeltà alla sua
Parola. Come
ben sai, io faccio Karate da molti anni, credo che purtroppo alcune
palestre effettuino tale cosa di venerare il maestro e cose varie
oppure inchinarsi di fronte a divinità e cose del genere. Ma non tutte
le palestre sono così. Per quanto mi riguarda, io conosco tutti i
termini e i gesti orientali che mi sono stati insegnati e che
ovviamente ho imparato col passare degli anni; questa è un’esigenza che
ti permette di diventare in seguito una cintura nera e insegnare.
Per quanto riguarda l’inchino in tutte le palestre di Karate e di
Judo, in cui sono andato, mi è stato insegnato il saluto come rispetto
verso l’avversario. Ora, ti sarà capitato di vedere persone che fanno un
inchino o combinazione di sole mosse (cfr.
qui) che si chiamano «kata», ovvero lotta immaginaria, che è la base
prima d’iniziare il «kumite», il combattimento corpo a corpo (cfr.
qui). Quindi, qui da noi non s’effettuano saluti o cose simili a
divinità, ma è solo una sorta d’esercitazione, e come dire l’ABC del
combattimento (parlo per il Karate).
Per quanto riguarda gli inchini di fronte a foto di maestri vivi
o morti, nella mia esperienza non mi sono mai inchinato di fronte a una
foto o stemmi e non l’ho mai visto fare da nessun’altro. Per esempio,
nel mio «dojo» (palestra) c’è una foto del fondatore del mio stile di
Karate (Kenyu Kay), ma lo si tiene solo per rispetto nei confronti di
chi l’ha inventato; a ciò si aggiunga che lo si conosce ed è vivo e
vegeto, ma non è obbligatorio avere una foto, questo dipende dal
rapporto tra maestro e fondatore, visto che il mio maestro ha avuto la
fortuna d’essere uno dei suoi allievi.
Secondo il mio giudizio è sbagliato affermare che le arti marziali e la
religione cristiana non vadano d’accordo. Per esempio, ho letto una
sito dove si parlava degli atleti di Cristo, credo che tu ne abbia
sentito parlare, comunque fra i partecipanti ci sono anche maestri
d’arti marziali (cfr.
qui); sebbene in questo articolo si parli più sui calciatori, fra i
partecipanti è menzionato anche un maestro d’arti marziali.
Come ripeto, possono esistere palestre che esigono certe regole strambe,
ma ti devo dire che in tutti questi anni non ne ho mai incontrato una.
Spero d’essermi spiegato e d’aver risposto a tutte le tue domande. {16
ottobre 2009}
3.
{Sandro Carini}
▲ Quando
abbiamo deciso d’iscrivere Simone [9 anni, N.d.R] a una palestra di
Karate, è stato per consiglio d’un ortopedico, il quale ci aveva
indicato, come terapia, alcuni sport da far praticare a nostro
figlio, per aiutarlo in un paio di problemi articolari (piede piatto e
poca sincronia nei movimenti). Debbo dare atto al medico ortopedico che
aveva ragione, Simone in 2 anni (di esercizi ginnici karateki) è
migliorato così tanto che in quella palestra da novellino è diventato il
migliore nei movimenti d’apertura, distensione e coordinamento degli
arti inferiori.
Chiaramente da padre credente veglio, spero abbastanza, su quello che
viene proposto in quella palestra, e fino a oggi non ho mai riscontrato
episodi che mi debbano preoccupare.
Parliamo del saluto: nella palestra di Simone si saluta
all’ingresso sul tappeto il campo d’allenamento (in questo caso il
tappeto), il maestro al termine della lezione e nuovamente il tappeto
all’uscita dal medesimo. Sembra che sia una sorta di saluto che inizia
l’attività sportiva (quindi come la campanella di scuola), cioè
dall’entrata sul tappeto si fa sul serio e dall’uscita ci si può
rilassare e giocare. Quello verso il maestro è di rispetto verso
l’insegnante; di rispetto è anche il saluto fra allievi prima e dopo una
gara. Non ho ravvisati altri tipi di saluto.
Credo che in Europa e in America il Karate è visto più come uno
sport (ora è anche disciplina olimpica, mi sembra). In
Oriente invece, nel suo paese natale (Cina, ecc.), il Karate è più
una filosofia di vita che non si limita alla cultura fisica ma anche a
quella spirituale.
Purtroppo sia gli scritti, sia i film, sia addirittura i cartoni animati
fanno vedere che quasi tutte le arti marziali hanno
contatti con la sfera spirituale (maligna e benigna), quello che in
occidente fanno i medium, i guaritori, i maghi (magia bianca e nera),
ecc.; e qui noi credenti dovremmo sapere cosa dice al riguardo la Parola
di Dio: evitare qualsiasi tipo di contatto con il mondo dell’occulto.
Credo sia questa la preoccupazione del nostro fratello in fede
verso il nipote e suo fratello.
La mia opinione è che, se una persona è maturo nella fede, quando vede
che la strada svia dalla via del nostro Signore, dovrebbe essere in
grado di guardare e seguire la via di Gesù. Se non ha raggiunto tale
maturità e ha dei dubbi, chieda aiuto agli anziani della sua chiesa che,
pregando ed esaminando la Parola su quel tema, troveranno insieme la
giusta soluzione.
Ho saputo proprio in questi giorni che negli «atleti per Cristo»
(chiaramente tutti credenti) ci sono anche un paio di campioni d’arti
marziali; quindi lo sport, se fatto con il timore del Signore e separato
dalle sue tradizioni religiose, non credo faccia male a nessuno, anzi
sicuramente c’insegnerà a essere più perseveranti, più disciplinati e
concentrati per raggiungere l’obiettivo sportivo e ne avremo beneficio
anche nella fede. {18 ottobre 2009}
Nota redazionale: In questo contributo mi rimane oscuro il fatto di
dover salutare il tappeto, visto che è un oggetto inanimato. Visto che
potrebbe esserci un fraintendimento, sarebbe meglio che chiedere
spiegazioni al maestro; nella Bibbia si salutano solo persone, non cose.
{Nicola Martella}
4.
{Stefano Frascaro}
▲
Nota redazionale: Quando ho letto questo contributo, sono rimasto
dapprima meravigliato per diversi motivi: 1. La conoscenza profonda che
il lettore fa della «filosofia dello Judo»; 2. L'apparente
coinvolgimento ideologico che traspare dal modo di scrivere. A voce il
lettore mi ha assicurato che quanto segue non rappresenta le sue
convinzioni attuali, ma solo il credo originario di tale ideologia
orientale, a cui egli aveva allora aderito. Nel prossimo contributo
riporto poi le mie obiezioni a tale sistema ideologico e religioso
dell'Estremo Oriente che si incarna nelle arti marziali tradizionali. Qui di
seguito riporto un piccolo sunto della filosofia dello Judo, sport che
ho seguito per anni, ottenendo anche buoni risultati (3° a livello
nazionale cat. 64 Kg).
Da quanto sotto s’evince, lo spirito attuale dello Judo non è più quello
delle origini. Nelle palestre che ho frequentato uno Judoka non si
doveva inchinare davanti a immagini di vecchi maestri, né accende
incensi. Questi sono retaggi di film come quelli con Bruce Lee. Di
giapponese si conoscono le quattro, cinque parole che servono, il «Rej»
iniziale (saluto al maestro), «l’Hajime» (che fa iniziare il confronto)
e le varie mosse e tecniche di punteggio; non si conosce probabilmente
il significato letterale del termine. Lo «Judo
Kodokan» tradizionale è nato come metodo d’educazione globale
dell’individuo che s’avvale d’esercizi d’educazione fisica tratti dalla
tradizione marziale giapponese. Le motivazioni che hanno determinato la
scelta del nome «Judo Kodokan» sono facilmente immaginabili e vanno
ricercate sopratutto nel momento storico che il Giappone stava vivendo.
In quel periodo di decadimento morale, nel quale i vecchi valori
tradizionali erano sviliti e mortificati, molti Samurai, per
sopravvivere, erano costretti ai lavori più umili. Altri, umiliati e
ridotti quasi a saltimbanchi, davano spettacolo delle loro doti e
capacità per una misera elemosina, degradando ulteriormente lo spirito e
la tecnica del vecchio «Ju Jutzu». Altri si riunivano in bande criminali
e altri ancora, per sbarcare il lunario, insegnavano e praticavano la
violenza, mentre i giovani giapponesi del tempo preferivano i «modi»
occidentali al «rigore morale» dei loro padri.
Jigoro Kano, per ridare vigore e ideali ai giovani del tempo,
elaborò, sulla base delle esperienze maturate nelle varie scuole di «Ju
Jutzu» da lui frequentate, un nuovo metodo d’educazione fisica, morale,
etica e sociale che s’avvaleva dell’insegnamento e della cultura dei
Samurai del vecchio Giappone, opportunamente liberato da quanto di
brutale, violento e inutile potesse contenere, per farne quel mirabile
metodo moderno d’educazione morale e civile che conosciamo come «Judo
Kodokan». Jigoro Kano volle cambiare il nome al suo metodo, per quanto
fosse derivato direttamente dallo «Ju Jutzu» tradizionale, per
distinguerlo da quelle scuole che in quel periodo andavano insegnando
violenza e sopraffazione e, ricordando che dal 16° secolo la «Takenouchi
Ryu» insegnava lo Judo, chiamò il suo nuovo metodo «Judo» e, per essere
assolutamente originale lo chiamò «Judo Kodokan», dove «Ko Do Kan» vuol
dire, letteralmente «la vera scuola per studiare la corretta via».
Lo «Judo Kodokan» non è altro che l’arte dell’attacco e della difesa
dei vecchi Samurai (l’antico «Ju Jutzu» che è comprensivo di tutte le
tecniche di combattimento con armi e a mani nude e di cui ne è, di
conseguenza, la summa) che da «arte» (Jutzu), si trasforma in «via»
(Do), portata a metodo per la formazione del carattere e della
personalità dell’individuo sul piano etico, sociale e spirituale.
Nelle parole del fondatore, Jigoro Kano, i principi e gli scopi dello
«Judo Kodokan» sono racchiuse nel motto: «Il miglior impiego
dell’energia dello spirito e del corpo, per ottenere amicizia,
prosperità e mutuo beneficio».
Lo Judo Kodokan è finalizzato a un mondo d’armonia, a un mondo di
pace, a un mondo d’amore, nel quale «se stesso e l’universo sono in un
corpo solo», ovvero «se stesso e gli altri sono fusi nell’“Uno”».
Esiste uno stretto legame tra lo «Judo Kodokan» tradizionale e lo
Zen cominciando dal luogo nel quale si pratica lo «Judo Kodokan», il
«Dojo».
Il «Dojo» non è una palestra. Questo termine ci riconduce al
luogo più raccolto e segreto del tempio buddista, dove si pratica il
«Do», la «via» per la «realizzazione» di sé, attraverso la
«meditazione», l’elevazione spirituale fino al raggiungimento del
«Satori».
Nello «Judo Kodokan» la posizione seduta dello Judoka è «Za Zen».
Deshimaru Taisen, patriarca della scuola «Soto Zen», affermava che la
pratica dello Zen è «Za Zen». Nello «Za Zen» c’è l’oblio di se stesso.
Infatti lo «Judo Kodokan» considera mente e corpo come parti
inseparabili d’una unica entità, l’individuo. Mente e corpo sono
indissolubili come sono indissolubili pratica e teoria.
Per lo «Judo Kodokan» la teoria è rappresentata dai «Kata», la
grammatica dello «Judo Kodokan», e la pratica dal «Randori», l’esercizio
libero dove ognuno s’esprime al meglio nella massima libertà. Per lo
«Judo Kodokan» non esiste una pratica valida, se non è sostenuta da una
teoria altrettanto valida e viceversa.
Il «Saika Tanden» è il «punto unico», ovvero il punto d’unione
tra spirito e corpo, che ha una collocazione fisica ben definita in
«Hara». Ci sono esercizi specifici per la presa di «coscienza» e il
«potenziamento» di questo «punto unico» dalla forza del quale dipendono
l’equilibrio e la potenza dell’espressione psicofisica.
Lo la filosofia Zen conduce per mano in questo cammino verso la
presa di coscienza dello Judoka. Lo «Judo Kodokan» tradizionale è, oggi,
l’esercizio per eccellenza sia per la presa di coscienza che per il
potenziamento del «Saika Tanden», ovvero di «Hara».
A questo punto bisogna ricordare che nel mondo orientale il concetto di
spirito non equivale al nostro. Quando si dice spirito in senso
Occidentale si sottintende un qualche cosa di personale, d’individuale
che s’identifica facilmente con l’anima e lo si riconduce
inevitabilmente a concetti religiosi. Per i giapponesi lo spirito è
identificato nel «Ki» [Chi o Qi, N.d.R.]. Il «Ki» è l’energia primigenia
allo stato di caos originale, senza nome e senza «intenzioni», è
l’energia pura che tutto pervade. Senza il «Ki» nulla può esistere. Ogni
essere vivente e anche ogni cosa inanimata è permeato di «Ki».
I vari aspetti di questo mondo particolare rappresentato dallo «Judo
Kodokan» tradizionale che ancora oggi, a distanza di decenni dalla sua
diffusione in occidente, ancora quasi sconosciuto, si possono
riassumere, per sommi capi, come segue.
Lo «Judo Kodokan» è lealtà, rispetto di sé e degli altri, è
sincerità nell’azione e nel pensiero, è volontà di pace, è fantasia e
libertà totale d’espressione nel «Randori», è il superamento delle paure
ancestrali, è formazione del carattere, è fiducia in se stessi, è
sviluppare energia vitale positiva (Yang), è sfogo ottimale per bambini
sempre sereni, è rilassarsi e scaricare tutte le tensioni.
È tra i migliori e più efficaci metodi di difesa personale. Dopo
la sconfitta nella seconda guerra mondiale, in Giappone i valori morali
e spirituali. che erano propri dello Judo. erano oramai decaduti. Ancora
oggi, in memoria delle sue origini marziali strettamente legate il mito
dei Samurai, lo «Judo Kodokan» tradizionale ha come simbolo il fiore di
ciliegio, che ne rappresenta lo spirito, immutabile nel tempo, purezza
d’animo e ardore nell’agire, mentre, come memoria del combattimento
reale, «l’Hajime» (cominciate) viene dato alla distanza di quattro metri
tra i contendenti ed è da quell’istante che ha inizio lo scontro, non
dal momento delle «prese», ma ben prima.
Qui bisogna però chiarire che questa è la «teoria» dello Judo. La
pratica nelle palestre attuali in Italia è però ben diversa e sono
veramente poche quelle che ancora seguono e mettono in pratica la via
filosofica dello Judo. In moltissime rimane solo il «Rej»
iniziale, una sorta di saluto eseguito al maestro, che segue un
formalismo ben preciso, rimane l’inchino all’entrata sul tatami e
«l’Hajime» all’inizio del confronto. Poi tutto diventa uno «sport»,
senza collegamenti filosofico-spirituali. {20 ottobre 2009}
5.
{Nicola Martella}
▲
Qui faccio alcune osservazioni e obiezioni al sistema ideologico e religioso
dell'estremo oriente, che si incarna nelle arti marziali tradizionali,
così come è presentato nel contributo precedente. Da quanto leggo, è
fuori dubbio che la filosofia originale dello Judo fosse e sia di
natura panteistica e monista e, come tale, auto-elevazione
e di auto-redenzione. Non a caso lo Zen è una filosofia panteista (tutto è dio, dio è tutto) e monista
(tutto è Uno, creatura e universo o dio). Tale filosofia mal si combina
con la dottrina biblica. [Per l’approfondimento si vedano in Nicola
Martella, Dizionario delle medicine alternative,
Malattia e guarigione 2 (Punto°A°Croce, Roma 2003), gli articoli:
«Dio e paramedicina», pp. 127-130; «Escatologia e paramedicina», p. 146; «Realtà e paramedicina 1: gnosticismo», p. 475;
«Redenzione e paramendicina», pp. 481ss.] Per la Bibbia
l’uomo non è in grado di elevarsi fino a Dio, non può redimersi da sé né
unirsi a Dio in un tutt’uno. Inoltre il fine biblico non è l’ascesa
mistica mediante la «escarnazione», attuata per mezzo di varie o
infinite reincarnazioni, ma l’incarnazione del Figlio di Dio e la
risurrezione della carne. La Bibbia parla di rigenerazione spirituale e
di santificazione mediante lo Spirito Santo, cose che l’uomo non può
produrre da sé, non di consapevolizzazione del divino in sé e di
autoprodotta elevazione umana al divino, come insegna invece la
filosofia Zen.
Inoltre la passività e l’oblio di se stesso sono aspetti
importanti nella spiritualità esoterica, nell’occultismo e nel
misticismo gnostico cristianizzato (carismaticismo), ma tutto ciò è in
contrasto con la dottrina biblica che mira all’autocontrollo, all’azione
positiva e all’attività etica. [Per l’approfondimento si vedano i
seguenti articoli: Nicola Martella,
La lieve danza delle tenebre (Veritas, Roma 1992): «La
consultazione degli occultisti e le sue conseguenze»,pp.
91-98; «Medianismo e fenomeni extrasensoriali», pp. 145-154. Nicola
Martella, «Passività»,
Entrare nella breccia (Punto°A°Croce, Roma 1996), pp.
195-199. Nicola Martella, «Passività», Dizionario delle medicine alternative,
Malattia e guarigione 2 (Punto°A°Croce, Roma 2003), pp. 412s (cfr. qui anche «Meditazione Trascendentale» e
«Training autogeno). Nicola Martella, «Passività e coercizione»,
Carismosofia (Punto°A°Croce, Roma 1995), pp. 60-68.]
La teoria del «Chi» — quale impersonale energia cosmica, energia
vitale o energia divina, con la sua manifestazione in «Yin e Yang» nel
taoismo — male si accordano con la dottrina biblica di un Creatore
personale e di uno Spirito personale, distinti dalla creazione e
dall’uomo. [Per l’approfondimento si vedano nel sunnominato
Dizionario delle medicine alternative (Malattia
e guarigione 2) gli articoli: «Chi», pp. 94s; «Dio e paramedicina», pp. 127-130; «Tao»,
pp. 518s; «Yin e yang», pp. 555s.]
Dapprima sono rimasto, a dir poco, alquanto meravigliato per quella che
sembra un’apologia acritica e idealistica della religiosità
orientale, della filosofia Zen, con tutti gli elementi ideologici
annessi, e dello «Judo Kodokan»! La sproporzione fra la descrizione
della teoria e quella della pratica è vistosa. E meno male che si
afferma alla fine: «Poi tutto diventa uno “sport”, senza collegamenti
filosofico-spirituali». Nel caso contrario, saremmo veramente
preoccupati! Come ho espresso nella nota redazionale all'inizio del
contributo precedente, tali concezioni della filosofia dello Judo
tradizionale non corrispondono alle convinzioni attuali dell'amico
lettore.
Posso immaginarmi che tale filosofia orientale abbia poco a che fare in
Occidente con le pratiche popolari e sportive dello Judo. Probabilmente
anche
i principi e gli scopi originari dello Judo sono solo la teoria.
Chi ha la forza, come c’insegna la realtà quotidiana, la usa spesso per
sé e non sempre per il «mutuo beneficio»; ciò vale anche per le arti
marziali, come qualcuno mi ha detto. Inoltre, ricordo che i Samurai più
recenti, ossia quelli della Seconda Guerra Mondiale, erano i Kamikaze,
gente che si votava alla morte per l’onore del dio-imperatore e per fare
il male più grande possibile agli avversari.
6.
{Emanuele Proietti}
▲ Io ho
praticato arti marziali per tanti anni, arrivando alla cintura nera di
«Tae Kwon Do» e marrone di «Judo». Secondo il mio parere il discorso
delle arti marziali è simile alla carne sacrificata agli idoli [1 Cor
10,19ss, N.d.R.] e, come spesso succede, bisogna usare un po’ di
discernimento. Infatti le arti marziali hanno una parte filosofica e una
parte fisica. La parte fisica è basata sull’allenamento, non è quindi
nulla di contrario alla Bibbia; del resto Dio non ha mai condannato un
soldato che s’allena nel combattimento. Sulla parte filosofica,
escludendo la logica regola di «combattere solo per difesa», il resto è
da scartare essendo basata su meditazione e dottrine orientali; comunque
in Italia le palestre, che ho visto io, tralasciano quasi sempre la
parte filosofica.
A tutto questo c’è da aggiungere che sono sport di lotta e competizione.
Io penso che quando la volontà di Dio non è chiara, bisogna farsi due
domande.
■ 1. Quello che voglio fare, va contro la Bibbia?
■ 2. Quello che voglio fare o il modo d’arrivarci a ciò, creerà problema
al mio rapporto con Dio?
Se a una di queste due domande la risposta è sì, ovviamente non stiamo
nella volontà di Dio. Tuttavia in questo caso la risposta alla prima
domanda è no, mentre la seconda è ovviamente molto personale e dipende
dalle nostre capacità; a questo riguardo la mia esperienza è stata
diversa a seconda dell’arte marziale.
Nel «Tae Kwon Do» sono arrivato a cintura nera. Essendo questo uno sport
basato su calci e pugni e avendo come avversari gente piuttosto forte,
ho visto che nel combattimento mettevo cattiveria, quindi ho lasciato
poco dopo; tuttavia questa non è una regola, ho infatti conosciuto un
credente che era cintura nera e non aveva questo problema.
Diverso è invece con lo «Judo», essendo lotta ed essendo basato sul
concetto di fare ciò che si vuole del proprio avversario (farlo cadere,
leve, strangolamenti, ecc.), ma senza fargli male, non era per me
possibile usare la cattiveria, e ho lasciato solo per problemi alla
schiena.
Questa sono a grandi linee la mia idea e la mia esperienza. {24 ottobre
2009}
7.
{Irene Bitassi}
▲
Da vari anni (questo in corso è il quinto) pratico un’arte marziale
giapponese, il «kendo», nata dagli allenamenti con la «katana» dei
samurai. In pratica, si tratta della scherma giapponese (esempio d’uno
degli esercizi base:
qui). Gli atleti sono protetti da un’armatura e si colpiscono
tramite delle spade di bambù che sostituiscono le «katane».
«Kendo»è
formata dai termini «ken» che significa «spada» e «do» che significa
arte o via (in giapponese «arti marziali» è «budo», letteralmente «la
via, l’arte del guerriero»). Via, naturalmente, è un termine molto
ambiguo, perché può intendersi sia come modo corretto d’eseguire una
tecnica, sia essere rivestito di forti allusioni religiose.
Essendo il «kendo» un’arte marziale ancora poco praticata in Occidente,
è ancora molto legata alla tradizione giapponese e poco internazionale,
poco sportiva. Non è sport olimpico, perché la federazione giapponese
teme che privilegiando troppo l’aspetto sportivo, vadano persi le
caratteristiche morali di disciplina volta al miglioramento della
personalità. Infatti, il fine dichiarato del «kendo» moderno
è «disciplinare il carattere attraverso l’applicazione dei principi
dell’arte della «katana». Un interessante
studio dell’Università dell’Aquila confermerebbe la variazione d’alcuni
parametri psicologici, indotti dalla pratica, anche se personalmente mi
sembra che il campione di «kendoka» studiato sia troppo piccolo e non si
sia proceduto a una doverosa controverifica a distanza d’anni. Per
quello che ho visto finora, andando in palestra, il fine ultimo della
maggior parte dei «kendoka» è fare sport in maniera divertente e tutta
la parte sul miglioramento del carattere è un po’ retorica, pari a
quell’occidentale sullo sport che unisce tutti i popoli.
Quando ho iniziato la pratica (ero già credente da diversi anni), ho
visto alcune cose che mi hanno lasciato perplessa, così mi sono
informata leggendo un po’ di libri sull’origine di quest’arte marziale
per farmi un’idea di quali pericoli potessi andare incontro.
1. Il problema vero e sostanziale, a mio avviso, è che la
cultura orientale non distingue tra tecnica e
filosofia. Qualsiasi cosa presa dal Giappone tradizionale,
è necessariamente impastata di filosofia zen (com’è noto, persino
prendere il tè!), perché questa costituiva il linguaggio e la forma
attraverso cui concettualizzare ogni tecnica. Faccio un paio d’esempi
presi dal «kendo»:
■ In tutte le arti marziali il
concetto di «hara» è fondamentale. Hara (la zona della pancia
all’altezza dell’ombelico) è per il samurai la sede della vita e dello
spirito (per questo i giapponesi maschi si suicidano con «l’harakiri»,
il taglio del ventre, nonostante questo porti a una morte molto lenta,
al punto che il samurai suicida veniva «aiutato» da un amico che dava il
colpo finale decapitando il disgraziato per abbreviarne l’agonia; mi
scuso della crudezza delle descrizioni, ma servono per comprendere la
mentalità giapponese). Un maestro giapponese dirà che bisogna avanzare
con «l’hara», perché lì si trova l’energia. Un istruttore occidentale
probabilmente «tradurrà»: «Avanza con il bacino, dove c’è il baricentro,
così sei più stabile».
■ Nel «kendo» il punto viene
assegnato soltanto se il colpo arriva in «ki-ken-tai»: spirito,
spada e corpo colpiscono insieme. Lo spirito deve essere espresso con
convinzione attraverso un urlo, che deve giungere nello stesso istante
del colpo e della chiusura dell’azione con il piede. Si rischia di dare
una lettura filosofica di questo concetto, che invece in termini tecnici
occidentali è un banale problema di fisica: l’energia cinetica del corpo
si trasmette alla punta della spada aumentandone la forza di taglio, se
al momento del colpo tutto il corpo si contrae precisamente in
quell’istante. Ciò s’ottiene con la battuta del piede al momento del
colpo e con un urlo, che provoca automaticamente la compressione del
diaframma e la tensione dei muscoli addominali. Potrei
proseguire per un bel po’ con esempi del genere, ma per farla breve,
come si vede, fa un effetto molto differente se si traduce «hara»
come il «centro dell’energia vitale» oppure come la «zona del
baricentro»; parimenti se il «kiai» (l’urlo) deve «esprimere il tuo
spirito» oppure «contrarre il tuo diaframma». Questo però è un problema
tutto occidentale, perché i giapponesi non conoscono questa distinzione.
È un nostro problema di traduzione: possiamo usare termini filosofici
oppure fisici, farne una filosofia o una tecnica. Quindi, il problema è:
cosa sto cercando in questa arte marziale? Dove voglio arrivare? Dove
vuole arrivare il maestro? A cosa sembra dare importanza?
2. Un secondo problema, a mio avviso più grave, è quello dei «rei»
(inchini). Per i giapponesi inchinarsi è un modo di
salutare tale e quale allo stringersi la mano. L’inchino da
inginocchiati o da in piedi ha lo stesso significato. Gli inchini sono
di tre tipi:
■ Quelli rivolti ai compagni e al
maestro (sempre contraccambiato, in questo senso il maestro si pone
sullo stesso livello dei suoi allievi e non c’è particolare venerazione
nelle forma) non creano particolari problemi e hanno più o meno il
significato: «Grazie che mi stai insegnando, grazie che mi dai la
possibilità di colpirti per poter imparare, ecc.».
■ Un inchino del tutto personale
alla propria armatura prima d’indossarla. Non ho mai compreso bene
che senso abbia (scaramanzia?). C’è da dire che è del tutto facoltativo
e solo chi vuole lo fa. Naturalmente in questo caso ci s’astiene e
basta.
■ Il problema serio, tanto da poter
portare alla rinuncia della pratica, è invece
l’inchino rivolto agli «spiriti» degli inventori dell’arte marziale.
Esso può essere eseguito sia in presenza, sia in assenza di «kamiza»
(letteralmente la «casa degli dei, degli spiriti», insomma una specie di
tempietto). Per a maggior parte dei praticanti occidentali è un gesto
che non dice nulla e viene fatto solo perché richiesto. Una minoranza lo
fa con l’idea d’esprimere un «ringraziamento» (non si sa bene a chi)
d’essere lì. Un ristrettissimo numero di fanatici crede ai «kami»
[spiriti, dèi, N.d.R.]. Però si tratta d’un evidente e, a mio parere,
troppo diretto gesto religioso.
Come diceva giustamente il fratello Emanuele, qui siamo di fronte a un
vero e proprio caso di coscienza pari a quello di 1 Corinzi.
Personalmente, non sentivo in coscienza di poterlo fare e ho affrontato
questo aspetto direttamente con l’istruttore e il maestro (un italiano
cattolico) subito prima d’iscrivermi, spiegando loro il mio problema di
cristiana. Ho trovato più comprensione di quello che m’ero aspettata e
quindi sono stata esentata da quella parte del saluto iniziale. Insomma,
il problema esiste, ma non è detto che per forza per non scendere a
compromessi, di cui vergognarsi, l’unica soluzione sia rinunciare: a
volte capitano anche le belle sorprese! Anzi, in più d’un caso è
diventata un’occasione di testimonianza, perché c’è stato chi mi ha
chiesto ragione del fatto che non m’inchinavo. Certamente però, se
avessi avuto a che fare con un giapponese, invece che con un italiano,
il problema poteva esserci, perché per i giapponesi è difficile
comprendere il monoteismo e vivono l’astensione dal «rei» come una
grande maleducazione. Nei forum internazionali di «kendo» in giro per il
web, il problema del «rei» al «kamiza» torna di tanto in tanto,
sollevato non solo da cristiani, ma anche da atleti musulmani.
3. Un altro aspetto che, a volte, lascia perplessi è il «mokuso»,
cioè il momento di meditazione
prima e dopo l’allenamento. Anche qui, bisogna tenere presente che,
se l’origine è certamente la meditazione orientale, in realtà si è di
fatto trasformato all’inizio in un momento di concentrarsi e alla fine
di rifiatare. Soprattutto, è importante sottolineare che
non viene insegnata alcuna tecnica di
meditazione o di respirazione. Quindi, si tratta d’un momento di
silenzio autogestito (volendo lo si può anche usare per pregare!).
4. Un ultimo problema che si pone è quello divenir
troppo coinvolti. Nel gruppo d’allenamento si stringono
naturalmente amicizie, ogni quindicina di giorni ci sono allenamenti
speciali o gare nei fine settimana, s’organizzano cene e feste tra i
compagni d’allenamento, ecc. Occorre quindi discernimento nel far sì che
non diventi un’esperienza totalizzante e tolga tempo alle priorità.
Bisogna vigilare che la propria scala di valori non ne venga sovvertita.
A mio avviso, occorre particolare attenzione con gli esami di passaggio
di grado. Essendo tutti inquadrati in un grado (semi-militare), rimanere
indietro con gli esami vuol dire inevitabilmente scivolare in basso
sulla «scala sociale» della palestra. Le sessioni d’esame si tengono
quasi sempre di domenica, quindi potrebbe accadere di voler ripetere gli
esami ogni volta, che sia possibile, saltando i culti domenicali pur
d’avanzare di grado.
È necessario secondo me per il credente vigilare, chiedere in preghiera,
se e quante domeniche all’anno eventualmente andare agli stage e agli
esami. Proprio quest’estate ho pregato per questo motivo e la risposta
che al momento ho avuta è stata: zero!! Naturalmente con questo non
intendo dire che per tutti deve essere così: dipende dalle condizioni
d’ognuno. Dio conosce quello di cui ognuno di noi ha bisogno, la sua
situazione familiare e le debolezze personali, perciò bisogna chiederlo
a Lui.
Per essere giusti però bisogna ammettere che in tutti gli sport quello
dell’eccessivo coinvolgimento e dell’impegno delle domeniche può essere
un problema (basta pensare alle partite di calcio e pallavolo), perciò
non è un difetto specifico delle arti marziali.
5. Aspetti positivi:
Alla fine di questo bell’elenco di problemi, uno potrebbe dire: «E
allora, perché complicarsi la vita? Perché semplicemente non
praticare uno sport occidentale?».
A mio avviso, spesso in ambito cristiano ci si preoccupa (giustamente)
dei possibili difetti delle arti marziali, ma non si sottolineano mai
gli aspetti positivi, che pure ci sono e sono
interessanti per un credente che cerchi un modo sano di fare sport.
Riferendomi sempre all’arte marziale che conosco da vicino, innanzitutto
ho visto che nel «kendo» generalmente
l’aspetto competitivo è messo in secondo piano. L’allievo deve
cercare di migliorare sé stesso senza preoccuparsi eccessivamente di
vincere. Ciò ha delle ricadute molto positive:
■ Anche durante le competizioni, i
rapporti tra gli atleti sono rilassati e cordiali.
■ I maestri non si permetterebbero
mai d’insegnare agli allievi a commettere delle scorrettezze (sembra
l’abc dello sport, ma da ragazza quando praticavo calcio, l’allenatore
ci aveva sollecitato a fare fallo senza farci vedere dall’arbitro!).
■ I maestri dedicano lo stesso tempo
e cura a quelli bravi e a quelli meno capaci. Una ragazza che s’allena
con me mi ha raccontato che prima di fare «kendo», ha praticato scherma
occidentale per diverso tempo presso una palestra famosa in città, ma
quando è stato evidente che non ha le capacità fisiche di diventare una
campionessa, è stata messa da parte: nessuno la correggeva più o le
insegnava qualcosa di nuovo. Storie come questa ne conosco a bizzeffe:
ragazzi di 17 anni che mettono anche l’anima nell’allenamento, vengono
buttati fuori squadra perché non arrivano all’altezza di 1,90 m; scuole
di danza che pesano le adolescenti; bambini eternamente rilegati in
panchina durante le partite di calcio, ecc. Negli sport occidentali
l’istruttore non ha alcun interesse per il benessere e l’apprendimento
dell’allievo, perché è votato esclusivamente al risultato sportivo. Nel
«kendo» il maestro si preoccupa d’insegnare a tutti, anche a quello che
non diventerà mai un campione, perché lo scopo non è vincere, ma
migliorare
Inoltre, c’è un il maggior rispetto
del corpo. In molti sport occidentali, il corpo deve
forzosamente adattarsi allo sport. Danni ai tendini e alla schiena sono
frequentissimi. Pur facendo un intenso allenamento, nel «kendo», non c’è
sollecitazione delle ginocchia e della schiena, i muscoli non vengono
gonfiati (si è in forma senza avere l’aspetto dei «palestrati»). I
«kendoka» sono alti, bassi, magri o grassi, minuti o massicci, non c’è
regola.
6. La violenza: Un
problema che di solito mette in imbarazzo i credenti che praticano arti
marziali è quello della violenza. Secondo me, per affrontare bene l’argomento
senza ipocrisie è necessario distinguere tra violenza ideale e reale.
Idealmente nel «kendo» uccidiamo chi ci sta davanti. Ci s’allena come se
si dovesse combattere poi realmente con delle «katane». In questo senso,
la violenza c’è e in maniera marcata ed evidente. I colpi che vengono
portati non sono bastonate, ma tagli. Tuttavia, bisogna considerare che
la possibilità d’applicare realmente ciò che s’impara in palestra è
nulla nel nostro contesto. Nessuno va in guerra o si difende utilizzando
una «katana». Inoltre, un’analisi appena superficiale degli sport
tradizionali rivela che anche lì concettualmente si sta facendo una
guerra: sia a pallavolo, sia a calcio, sia a basket ci s’occupa
d’attacco e difesa, si studiano le strategie, termini non casualmente
militari.
Se invece ci si preoccupa della violenza reale, un allenamento di
«kendo» è spesso meno violento di quello che si vede su un campo di
calcio. Nel «kendo», i due contendenti si picchiano su un’armatura che
attutisce notevolmente i colpi e impedisce che l’altro possa subire dei
danni reali. Abbastanza spesso accade di sbagliare mira e di provocare
dei lividi all’avversario sui gomiti, sulle ascelle, sulle cosce e,
raramente, sul collo. Questi però sono errori involontari (e non valgono
come punto)! Chi li commette normalmente si scusa. In alcuni casi, può
capitare che il combattimento diventi più «cattivo», di solito se ci
sono tensioni personali fra due atleti. È difficile spiegare il come a
chi non pratica, ma fra i «kendoka» è chiaro chi sta praticando in
maniera dura ma corretta e chi invece si comporta da picchiatore con lo
scopo di fare male. Si tratta di casi eccezionali e normalmente il
colpevole viene rimproverato.
Quando si gioca a calcio sono assolutamente normali e accettati spinte
spalla a spalla e falli tecnici, quali trattenere l’avversario per la
maglietta. Sono poi all’ordine del giorno spintoni, calci all’altezza
delle caviglie e addirittura non rari quelli al ginocchio. Non è
difficile sentire durante le partite genitori e allenatore incitare
bambini di 10 anni «a spaccare le gambe all’avversario». Insomma, in
fatto di violenza reale, a mio avviso, il calcio è molto più cattivo
delle arti marziali.
7. Esiste poi in effetti il problema messo in luce dal fratello
Emanuele: quello di scoprire in
combattimento dei lati di noi che non ci piacciono. Ad esempio,
io di natura sono tendenzialmente vendicativa. Lo sono sempre stata, non
l’ho certo scoperto in palestra. Nel tempo, soprattutto dopo la
conversione, ho tentato d’abbandonare questo peccato. Certo sta sempre
in agguato ed è più facile essere buoni e concilianti quando si prega
durante il culto, molto meno quando si è stanchi per l’allenamento e
l’avversario ci ha tirato per errore una bastonata sul gomito! In questi
casi, non sempre il mio comportamento è stato «cristiano». Ho scoperto
così che certi miei buonismi erano ipocriti e non reali cambiamenti.
Sinceramente però di questi episodi non ho dato colpa al «kendo», ma
anzi mi sono serviti per cercare un cambiamento reale, mettendo il
problema davanti a Dio. Questa è una delle cose più utili che ho
ricavato dall’allenamento. Lasciare l’arte marziale nel mio caso avrebbe
voluto dire scappare, mettere la testa sotto la sabbia e non voler
vedere, dando la colpa a qualcosa d’esterno. Quindi, secondo me, bisogna
verificare onestamente con sé stessi se è la pratica dell’arte marziale
a provocare certe reazioni, perché è proprio l’ambiente a spingere a
essere aggressivi (come mi pare di capire fosse nell’esperienza del
fratello Emanuele), oppure se è un lato del nostro carattere che si
rivela sotto qualsiasi tipo di pressione, non solo in palestra e quindi
bisogna prendere provvedimenti (non si può pensare d’evitare ogni
pressione della vita: quelle che avvengono in palestra non sono nemmeno
tra le più forti!). In questo probabilmente ci vuole discernimento.
8. Un’altra cosa per cui mi è utile la pratica del «kendo» è stata
uscire dal guscio
sicuro e un po’ ovattato di casa-chiesa per relazionarmi in un ambiente
diverso. Per tanti aspetti è un’esperienza veramente utile che m’insegna
tante cose non sulla filosofia zen, ma come su relazionarmi con gli
altri.
9. Alla fine, arti marziali: sì o no?
La risposta non è semplice. Dipende da tanti fattori: il punto, in cui
si è del proprio cammino di fede, l’ambiente e il maestro con cui si
pratica, gli scopi per cui si pratica, ecc. La vigilanza deve essere
costante. Se è un bambino o un adolescente a praticare, i genitori
devono vigilare molto a mio avviso, ma soprattutto dialogare con il
figlio per capire cosa gli piace della pratica, se ne sta assorbendo i
lati positivi (il rispetto per i compagni) o quelli negativi (la
filosofia orientale). Però, a fronte d’un faticoso lavoro di vigilanza,
se tutto procede per il meglio, l’esperienza può anche essere molto
positiva. Nel mio caso, finora è stato così. Il giorno che smettesse
d’essere un’esperienza edificante, lascerei.
I seguenti versetti biblici
sono quelli che più mi hanno aiutato a riflettere:
■ Daniele 1 a proposito del
contaminarsi con i cibi del re.
■ Romani 14,23: «Ma
colui che sta in dubbio, se mangia è condannato, perché non mangia con
fede; or tutto ciò che non viene da fede è peccato».
■ 1 Corinzi 6,12: «Ogni
cosa mi è lecita, ma non ogni cosa è utile; ogni cosa mi è lecita, ma
non mi lascerò dominare da cosa alcuna».
■ 1 Corinzi 10,23: «Ogni
cosa mi è lecita, ma non ogni cosa è vantaggiosa; ogni cosa mi è lecita,
ma non ogni cosa edifica».
■ 1 Corinzi 10,31: «Sia
dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate un’altra cosa,
fate tutte le cose alla gloria di Dio».
■ Tito 1,15: «Tutto
è puro per quelli che sono puri; ma per i contaminati e gli increduli
niente è puro; anzi, sia la loro mente sia la loro coscienza sono impure».
{9 novembre 2009}
8.
{Nicola Martella}
▲ Quanto
al fare il saluto al tappeto (nel karate) o all’armatura
(nel kendo), ho dovuto pensare a ciò
che disse il profeta Habakuk in una allegoria relativamente ai guerrieri
caldei, che opprimevano con crudeltà il Medio Oriente d’allora: «Il
Caldeo li trae tutti su con l’amo, li piglia nella sua rete, li
raccoglie nel suo giacchio; perciò si rallegra ed esulta. Per questo fa
sacrifici alla sua rete e offre profumi al suo giacchio; perché per essi
la sua parte è grassa, e il suo cibo è succulento» (Hb 1,15s).
Infatti i pagani attribuiscono alle cose un valore animista, ossia come
se in loro abitasse l’energia di uno spirito, che darebbe loro la
vittoria. Per questo venerano le cose come fossero persone.
La Bibbia rende chiaro che ogni venerazione offerta a cose inanimate,
a cui si attribuisce un’energia spirituale e un valore religioso, viene
rivolta a demoni o a spiriti impuri, sebbene questa non ne sia
l’intenzione. «Che dico io dunque? Che la carne sacrificata agli
idoli sia qualcosa? Che un idolo sia qualcosa? Tutt’altro; io dico che
le carni che i pagani sacrificano, le sacrificano ai demoni e non a Dio;
or io non voglio che abbiate comunione coi demoni» (1 Cor 10,19s).
Dove qualcosa può diventare un idolo religioso, gli si attribuisce
energie vitali o cosmiche o lo si pone in connessione con spiriti di
trapassati o di dèi, o si è in grado di dire no a tali cose (pensiamo a
Šadrak, Mešak e Abed-Nego; Dn 3,12-30) e ciò viene accettato, o si fa
bene a smontare da cavallo.
Per tale motivo, il credente fa sempre bene a non aderire agli
aspetti deleteri presenti in ogni cosa (qui le tecniche di
combattimento). Dove le tecniche sportive sono usate come veicolo per
indottrinare secondo una filosofia e una religiosità esoteriche, bisogna
rifiutare tale maestro e cambiare o sport o palestra. È scritto: «…esaminate
ogni cosa e ritenete il bene! Astenetevi da ogni specie di male» (1
Ts 5,21s). Il rischio è di fare il callo con l’uso, evitando di
considerare ciò che la Scrittura dice e spegnendo così lo Spirito Santo
(vv. 19s).
Chiaramente in tutto ciò che facciamo, possiamo considerare «tutte le
cose vere, tutte le cose onorevoli, tutte le cose giuste, tutte le cose
pure, tutte le cose amabili, tutte le cose di buona fama, quelle in cui
è qualche virtù e qualche lode»; tuttavia, per avere la preservante
«pace di Dio» in sé, dobbiamo mettere tutto ciò in connessione con
Cristo, col suo avvento, con la preghiera a Dio per avere chiarezza e
con l’insegnamento biblico (Fil 4,6-9).
9.
{Fausto Gaeta}
▲
Riguardo alla questione delle arti marziali, dopo aver letto i vari interventi,
vorrei rispondere sopratutto alla domanda che fa il fratello Maurizio
Maniscalco: Un credente può lavorare per il Signore e praticare arti marziali?
Secondo me un credente non può lavorare per il Signore e
praticare arti marziali. Perché? È vero che le arti marziali in
Occidente vengono adattate alla nostra cultura e che alcune arti
marziali sono state inserite nei giochi olimpici; tuttavia anche la Box
fa parte di questi ultimi, e alcuni credenti la praticano, cercando
delle scorciatoie per dire agli altri che il credente può praticare uno
di questi sport.
Secondo me il credente si deve chiedere: Che cosa mi porta a frequentare
una delle arti marziali? Innanzitutto mi porta a
combattere, come si può vedere nel secondo filmato indicato da
Marco, e che tu citi nella tua prima risposta. Ciò vuol dire che, ad
esempio, nel Karate senza combattimento nessuno ti darebbe una cintura e
nemmeno la vittoria di un torneo. Vorrei ricordare ai credenti che «il
combattimento nostro non è contro sangue e carne, ma contro i
principati, contro le potestà, contro i dominatori di questo mondo di
tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi
celesti» (Ef
6,12).
Inoltre la maggior parte delle persone che frequentano uno di questi
sport dicono che lo fanno per l’autodifesa, al credente dico io
che la nostra difesa è la seguente: «Del
rimanente, fortificatevi nel Signore e nella forza della sua possanza.
Rivestitevi della completa armatura di Dio, onde possiate star saldi
contro le insidie del diavolo» (Ef
6,10s).
Altri dicono per migliorare i
riflessi oppure, come scrive Sandro, per problemi articolari
(piede piatto e poca sincronia nei movimenti). Riguardo ai riflessi noi
abbiamo un esempio pratico nel NT; Pietro era uno che era sempre il
primo a rispondere a Gesù su tutte le cose persino a rimproverarlo (Mt
16,22); e quando Gesù venne arrestato, mostro subito quali riflessi
possedeva: «Ed ecco, uno di coloro
ch’erano con lui, stesa la mano alla spada, la sfoderò; e percosso il
servitore del sommo sacerdote, gli spiccò l’orecchio» (Mt 26,51).
Anche Pietro pensava di difendere Gesù con la sua autodifesa, ma Gesù
gli disse: «Riponi la tua spada al suo
posto, perché tutti quelli che prendono la spada, periscono per la
spada. Credi tu forse ch’io non potrei pregare il Padre mio che mi
manderebbe in quest’istante più di dodici legioni d’angeli?» (Mt
26,52s). L’autodifesa del credente è la Parola di
Dio: «Perché la parola di Dio è vivente
ed efficace, e più affilata di qualunque spada a due tagli, e penetra
fino alla divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle
midolle; e giudica i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12).
Riguardo ai riflessi vorrei inoltre ricordare che ogni credente
ha ricevuto questi doni: «Il frutto dello
Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà,
fedeltà, mansuetudine, autocontrollo» (Gal 5,22).
Riguardo al consiglio che il dottore ha dato a
Sandro per Simone, io ritengo che qualsiasi buon maestro di educazione fisica avrebbe potuto risolvere i problemi di
Simone.
Vorrei ricordarvi al fratello
Emanuele Proietti che è strano che solo dopo molti anni
ha potuto notare che in questi sport c’è
cattiveria. Il credente non ha bisogno di cinture nere ne di arti
marziali per la sua vita quotidiana ma bensì della Parola di Dio. Se il
credente è uno sportivo, può praticare uno sport, in cui può
avere tutta la sua edificazione per il suo corpo, tenendolo pulito da
vari inquinamenti, perché il nostro corpo appartiene a Dio: «Non
sapete voi che siate il tempio di Dio, e che lo spirito di Dio vive in
voi?».
Paolo il periodo che si soffermò a Corinzi, aveva avuto modo di
osservare gli atleti, sia quelli che correvano che quelli che
lottavano; e cosa aveva imparato da loro? «Tratto
duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non avvenga che,
dopo aver predicato agli altri, io stesso sia squalificato» (1 Cor
9,27). A Paolo gli sportivi gli servirono d’esempio nel modo con
cui essi lavoravo per prepararsi per il combattimento, non è per caso
che lui ne parla molto nelle sue lettere. Quello che mi piace di più, è
quando afferma: «Ho combattuto il buon
combattimento, ho finito la corsa, ho conservato la fede» (2 Tm
4,7). Del rimanente, cari fratelli, quelli che vogliano combattere,
questo è il nostro combattimento e non le arti marziali. {10 novembre
2009}
10. {Nicola
Martella}
▲
Le convinzioni di Fausto sono da rispettare. Trovo però alcune incongruenze
nelle sue argomentazioni. Le annoto brevemente e questo di là dalle mie
preferenze personali in tema sport, atletica e agonismo. Quando è
arrivato il suo contributo non aveva evidentemente ancora letto quello
di
Irene Bitassi né il mio susseguente.
■ Mi sorprende il suo atteggiamento veemente e assoluto nel dire
«no» a ogni tipo di arti marziali. Lo stesso fa per la box e
probabilmente per altri tipi di sport. A questo punto c’è da chiedersi,
perché gli sport che lui pratica sì (corsa, ciclismo) e gli altri no?
■ Mi sorprende pure che invece di argomentare sul tipo di sport,
introduca una serie di versi che sono molto importanti, ma che
con lo sport non hanno direttamente nulla a che vedere. Mischiare capre
e cavoli non aiuta nella ricerca della verità. Non condivido questo modo
di argomentare; eviterò di commentare punto per punto l’uso improprio
dei versi biblici usati.
■ Mischiare il combattimento spirituale con quello sportivo, per
negare quest’ultimo (e solo ciò che si detesta), oltre a rappresentare
un’indebita versettologia che porta a conclusioni basate su un falso
sillogismo, porta il discorso su un terreno viziato e pericoloso come le
sabbie mobili. Per prima cosa Paolo parlò dell’agonismo sportivo come
qualcosa che non condannò, tant’è che usò come metafora per il
combattimento della fede. Mi meraviglia tale incongruenza perché,
conoscendo la dispensa di Fausto sullo sport, egli usa proprio tali
argomenti per affermare che Paolo e la Scrittura non condannano lo
sport. Ciò è visibile anche nel suo articolo «Che
cosa pensa un atleta quando gareggia».
■ Faccio presente l’incongruenza riguardo al combattimento. Ogni
sport lo contempla, anche la corsa e il ciclismo, attività agonistiche
(= gr. di lotta) care a Fausto. Lo stesso dicasi del calcio, del nuoto,
degli scacchi e così via.
■ L’autodifesa è presente anche nella maggior parte degli altri sport. Ed
essi tutti affinano i riflessi e la capacità di reazione, anche
il ciclismo e la corsa.
■ Si può affermare di sconsigliare le arti marziali per alcuni motivi,
che bisognerebbe però elencare; al riguardo non trovo però nessun
argomento valido nel suo contributo. Tuttavia gli argomenti da lui usati
possono diventare un pericoloso boomerang contro ogni tipo di
sport e attività agonistica, comprese quelle che Fausto stesso esercita.
Infatti, se si pretende di evincere un principio biblico evidente per un
certo settore della vita (qui sport, atletica, agonismo), esso
dev’essere applicato con coerenza e senza eccezioni. Allora, con tali
argomentazioni, qualcuno potrebbe addirittura porre il dubbio, se il
credente possa essere uno sportivo; infatti alcuni massimalisti
potrebbero vedere in
qualsiasi attività sportiva una perdita di tempo, un segno di
mondanità e un frutto della carne.
■ Riguardo al consiglio del dottore e alla scelta fatta da Sandro
per Simone, sarà Sandro a spiegare perché abbia scelto il Karate e non
l’educazione fisica.
■ Riguardo alla cattiveria, faccio notare per correttezza che è
stato detto che non era il particolare sport in sé cattivo, ma che esso
faceva emergere e accentuava la cattiveria di chi lo praticava. Saranno
comunque tali lettori a spiegare meglio il loro punto di vista.
■ Di là dalle proprie convinzioni sulle arti marziali, per non dare
ragione ai massimalisti, che condannano qualsiasi tipo di attività
sportiva, atletica, agonistica o ludica, si fa bene ad
argomentare in modo convincente, razionale, rigoroso ed esegetico.
Altrimenti si presta il fianco ai propri critici.
■ Inoltre bisogna usare la massima coerenza. Si potrebbe ad
esempio dire a Fausto: Se tu seguissi rigorosamente tutte le tue
argomentazioni, dovresti smettere di esercitare i tuoi sport preferiti,
che pratichi regolarmente con profitto e soddisfazione da tanti anni,
dovresti uscire dall’associazione sportiva, in cui ti trovi, e dovresti
limitarti soltanto a mettere in pratica i versi biblici da te
menzionati. Conoscendolo, credo che si sentirebbe arrugginire.
11. {Vincenzo
Russillo}
▲
Riguardo al mondo delle arti marziali, posso raccontare la mia breve esperienza.
Se pur non andai molto avanti nella frequentazione della palestra, posso
brevemente testimoniare le pratiche. All’età di 11 anni, attratto dai film di
Bruce Lee e da altri celebri esperti d’arti marziali (mi viene in mente il
famoso attore Chuck Norris), decisi d’iscrivermi alla palestra di Kickboxing,
che è più una forma di combattimento occidentalizzata con un misto di Karate e
pugilato giapponese. Il «sensei» (= maestro) era italiano, quindi oltre all’inchino
come segno di rispetto, non ci teneva ad altre forme, oserei dire, d’idolatria.
Oltre però alle lezioni pratiche di combattimento, ci faceva degli insegnamenti
sul corpo umano ovvero dei punti più deboli da colpire e di alcuni punti
d’energia. Tutto ciò fa parte della filosofia zen che viene tramandata ai
Karateki, come summa sapienza per aiutarsi nelle arti da combattimento. Mi è capitato di leggere un libro dell’attore Chuck
Norris (se pur oggi si dice cristiano, ma bisogna valutare se intriso di
filosofia orientale), proprio sulle arti marziali. Egli concentra la sua
attenzione sulle pratiche di respirazione molto importanti nello Yoga
e in ogni pagina parla della filosofia zen. La ricerca della pace interiore è
segno di potenza per un cultore di arti marziali. Il fondatore dello «shokotan»
(stile del Karate) disse: «La mente e la tecnica diventano un tutto uno in un
vero Karateka» (cit. Gichin Funakoshi). Come si può ben capire, si ha un influsso del
buddismo che insegna la fusione del lato spirituale e quello fisico,
soprattutto la ricerca interiore della perfezione. Tuttavia sappiamo questo: «Il
cuore è ingannevole più di ogni altra cosa, e insanabilmente maligno; chi potrà
conoscerlo?» (Geremia 17,9). La realizzazione della purezza spirituale
può avvenire solo da una fonte esterna a noi, dal nostro Salvatore. Di certo non
voglio demonizzare le arti marziali, perché dal lato fisico sono un ottimo
esercizio anche per autodifesa. Ma quello a cui dobbiamo stare attenti, è di non
far plasmare il nostro pensiero da ideologie estranee, poiché ci sta
scritto: «Non conformatevi a questo mondo, ma siate trasformati mediante il
rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza quale sia la
volontà di Dio, la buona, gradita e perfetta volontà» (Romani 12,2). Una
contaminazione spirituale sarebbe altamente rischiosa, e soprattutto un buon
discepolo di Cristo deve aspirare alle cose di lassù e non a quelle che sono
sulla terra (Colossesi 3,2). {10 novembre 2009}
°*°*°*°*°*°*°*°*
Continua nella seconda parte: ►
Arti marziali tra Oriente e Occidente 2.
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Cul/T1-Arti_marziali_orient_MeG.htm
02-11-2009; Aggiornamento: 14-11-2009 |