Quando ho cercato un titolo per questo scritto, ho dovuto pensare
come sottotitolo a Giacomo 2,18: «Mostrami la tua fede senza le
tue opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede»,
facendo mentalmente una parafrasi che interpreti «opere» come «opere
sportive». L’autrice di questo contributo intende dire la sua
riguardo all’articolo «Calciatori
e fede cristiana» e al
tema connesso. La lunghezza dello scritto e la complessità dei temi affrontati ci hanno spinto a presentarlo a sé
stante. Per le competenze sportive di Irene Bitassi rimandiamo ai
temi di discussione «Arti
marziali tra Oriente e Occidente 1» (7° contributo) e «Arti
marziali tra Oriente e Occidente 2» (3° contributo).
I primi quattro punti sono di Irene Bitassi, l’ultimo è del
sottoscritto. {Nicola Martella} |
1. LA QUESTIONE DELLA CREDIBILITÀ: Non sono mai stata
particolarmente interessata alle testimonianze dei calciatori cristiani,
ma l’estate scorsa mi hanno regalato il primo libro di Nicola
Legrottaglie («Ho fatto una promessa»). L’ho trovato abbastanza
interessante: è il racconto di una conversione e di un cammino con il
Signore. Intendiamoci, niente di eclatante: probabilmente qualunque
nuovo nato potrebbe raccontare esperienze simili. Non c’è dentro fine
teologia, né particolare approfondimento biblico. Lui ha voluto dare la
sua testimonianza e, ovviamente, ha la possibilità di raggiungere molte
persone. Cristiani che fanno mestieri meno sotto i riflettori si
limitano a scriverla per i conoscenti o a pubblicarla in internet. In
questo, non vedo niente di particolare, né in positivo, né in negativo.
Tuttavia, un parente cattolico mi ha fatto involontariamente notare la
funzione specifica
che la testimonianza di un calciatore professionista può avere. Infatti,
dopo aver letto il libro, questo parente lo ha liquidato come «la solita
roba della vostra setta». Però, ha poi aggiunto di aver trovato
apprezzabile che una persona giovane, famosa e ricca, all’apice
della carriera, abbia sentito la mancanza di Dio.
Allora ho capito: un calciatore di serie A probabilmente non avrà
vocazione a essere un importante predicatore, né sarà la persona più
adatta a insegnare la Scrittura, né magari a condurre una chiesa. Però,
può testimoniare in maniera credibile
qualcosa che nessun altro cristiano, che io conosca, può: cioè che i
soldi e il successo non danno la vera felicità nella vita e che il vuoto
esistenziale può essere riempito solo da Gesù.
Se io dico
a un mio conoscente che Gesù mi soddisfa e quindi non m’interessa essere
ricca, probabilmente penserà che «la religione è l’oppio dei popoli» e
io m’illudo, per consolarmi del fatto che non sono ricca. Se, poi, a
dire questo sarà un
fratello con un servizio a tempo pieno, chi lo ascolta penserà che
questo fratello ha tutto l’interesse a essere cristiano, visto che
riceve uno «stipendio» da ciò.
Un
calciatore professionista, invece, ha soldi, donne, fama e gioventù.
È una delle persone più «realizzate» per i parametri della nostra
società. Quando testimonia che, nonostante ciò, queste cose non danno la
felicità e ha bisogno di Gesù, è molto, ma molto, più credibile
di tutti noi. In questo, mi sembra di poter ravvisare l’utilità di
queste testimonianze.
2. BERSAGLIATO CHI È IN VISTA: Per curiosità, dopo
aver letto il libro, ho girato un po’ in internet, per vedere quale
reazione il libro avesse suscitato in giro e non ho affatto trovato solo
commenti favorevoli. Esponendosi con una testimonianza cristiana, un
calciatore rischia di essere deriso dai non credenti, esattamente
come qualsiasi altro fratello. Tra i commenti al testo, non c’erano solo
i post entusiasti di alcuni credenti, che lo incoraggiavano a proseguire
nel cammino, ma anche quelli di derisione, del tipo: «Figurati se
Dio ha tempo da perdere con un calciatore, quando nel mondo ci sono
milioni di bambini che hanno fame» (eh, già, perché notoriamente i
calciatori non hanno un’anima da salvare!); «Questo qui la domenica
pesta gli attaccanti e il lunedì fa il predicatore»; «Queste sette
evangeliche ti aiutano, quando sei in crisi, ma poi ti fanno il lavaggio
del cervello»; eccetera.
È vero che un calciatore di serie A viene invitato nei salotti
televisivi: su YouTube si possono visionare parecchi filmati. Ma non è
detto che lo sia sempre per essere «innalzato». Nella «macchineria»
della popolarità, esistono anche situazioni come
queste, in cui il credente viene messo lì a bella posta per
essere bersagliato da un giornalista navigato e preso in giro da
un comico abile, mentre tenta di dire che abbiamo bisogno di Gesù...
Beh, francamente, guardando il video, non ho invidiato neanche un po’ la
possibilità di Legrottaglie di accedere a una trasmissione televisiva!
Insomma, alla fine della mia perlustrazione, non sono poi così convinta
che il dichiararsi cristiani permetta al calciatore di essere amato dal
mondo di più di quanto non lo sia prima o se, invece, non incassi anche
lui la sua buona dose di disprezzo.
Per il resto, rimane sempre valido il principio che il Padrone giudica
l’operato del suo servo, perciò, oltre alla semplice curiosità, non mi
addentro.
3. LA SCONFITTA È UNA CATASTROFE COSMICA?: Per
quanto riguarda il partecipare a delle competizioni sportive, mi
sembra francamente un po’ esagerata la posizione di chi vede in una
sconfitta sportiva una catastrofe universale. [►
Arti marziali tra Oriente e Occidente 1 (11° contributo)]
Da sportiva dilettante con scarsissimi risultati, non mi sono mai
sentita coperta di «disonore» dopo una delle tante sconfitte, non
sono mai andata in giro a capo chino, non mi sono mai inasprita dentro
di me per questo. L’orgoglio della propria prestazione (almeno rispetto
alla realtà che conosco) non è tanto legato alla vittoria o alla
sconfitta, ma quanto piuttosto al sapere di aver dato tutto ciò
che era nelle proprie possibilità. Si può uscire a testa bassa
da una vittoria, perché si ha la consapevolezza che si è vinto solo per
un errore arbitrale. Si può uscire a testa alta da una sconfitta,
nella consapevolezza di aver fatto il meglio rispetto ai propri limiti.
Misurarli questi limiti non è una vergogna, è spesso un sano prendere
atto della realtà delle cose. Avere paura della competizione può
nascondere la paura di misurare i propri limiti.
Qualcuno
deride lo sconfitto? Sì, capita. Farci una risata sopra aiuta a
crescere (magari con l’orgoglio e la consapevolezza che in Cristo siamo
più che vincitori in ben altre battaglie!). Un atleta cristiano
ovviamente non deriderà l’avversario che ha sconfitto.
La
competizione spesso non è nemmeno il fulcro dello sport e lo
«spirito agonistico» è prima di tutto il disciplinare il corpo
per acquisire un’abilità specifica (correre, saltare, tirare calci a un
pallone, ecc.). La gara è la verifica, il prendere le «misure»
dei propri risultati. Infatti, in alcuni sport è possibile valutarsi in
autonomia (sono in tanti, per esempio, che corrono tutti i giorni senza
gareggiare, perché basta cronometrarsi per vedere i miglioramenti), in
altri la competizione è indispensabile (per una squadra di calcio è
indispensabile giocare contro un’altra). Ma anche dove è possibile
auto-valutarsi, la presenza di altri spinge a fare meglio. Ad
esempio, spesso anche chi non gareggia corre con un amico: uno sprona
l’altro. Con questo spirito, l’agonismo non è «combattere un altro
per umiliarlo», ma vedere dove posso arrivare al massimo del mio
sforzo. Questo dovrebbe essere lo spirito.
Con ciò non nego che le cose non siano sempre così. Non vivo sulla luna
e so che, soprattutto a livello professionale, dove girano tanti
soldi, gli interessi portino ad altro. Ma perché un cristiano non
dovrebbe partecipare a una competizione sportiva, se ha le giuste
motivazioni? Non riesco a vedere lo scandalo.
4. PERDERE TEMPO?: Non mi sento neanche di dire che fare
sport sia sempre perdere tempo. Probabilmente dipenderà dalla vocazione
di ciascuno.
Non mi riferisco solo al fatto che può capitare di testimoniare a
compagni non credenti. In questo senso, sono d’accordo che probabilmente
è molto più «efficiente» un banchetto di evangelizzazione: nei 90 minuti
di una partita di calcio, si possono distribuire centinaia di opuscoli e
intrattenere decine di colloqui. In questo senso, stiamo perdendo tempo,
quando facciamo sport.
Però non si rischia di avere una visione un po’ troppo efficientista
della vita cristiana? Ci facciamo i resoconti orari dei tempi di
servizio, come i testimoni di Geova? Misuriamo il tempo dedicato a Dio
nella quantità di ore di missione, nella lunghezza della nostra lista di
preghiera, nel numero di studi biblici letti o ascoltati, nel conteggio
dei volantini distribuiti? O il tempo dedicato a Dio è quello che
trascorriamo con Lui, in sottomissione a Lui, in ascolto di Lui?
Quando sono in palestra, il mio corpo continua a essere presentato come
sacrificio vivente a Dio? Se sì, è difficile dire che stia perdendo
tempo. Quando sono a uno studio biblico sto presentando il mio corpo
come sacrificio vivente a Dio? Se la risposta è no, forse sto perdendo
tempo.
Posso testimoniare che in un periodo molto difficile della mia vita
cristiana, ho capito in palestra una delle cose fondamentali per
superare la prova e ho ricevuto un grande insegnamento dal Signore.
L’avevo già letto sulla Bibbia e sentito raccontare in tante prediche,
ma non avevo mai vissuto praticamente quell’esperienza, che mi era
indispensabile per comprendere davvero e interiorizzare il concetto.
Intendiamoci, non disprezzo certo leggere la Bibbia, andare al culto,
mettermi in preghiera, dedicarmi a un servizio e seguire degli studi
biblici. Tutte queste cose sono fondamentali e bisogna trovare il tempo
per farle, rinunciando, quando è necessario, a una gara sportiva o a un
allenamento. Ma non mi sembra che la loro utilità sia misurabile in
tempo e tutto il resto sia spreco.
5. SPORT E MISSIONE(Nicola
Martella): Che lo sport possa essere un campo di missione, è
testimoniato da tanti atleti cristiani che lavorano in associazioni
cristiane «sportivi per sportivi».
Un esempio a me vicino
Ad esempio, sebbene un mio collega missionario, Fausto Gaeta, non abbia una tale associazione a Tivoli, egli è inserito in
una normale associazione sportiva e con essa corre in varie
competizioni. Oltre all’interesse per la corsa, il suo obiettivo è di
spandere il buon profumo di Cristo in tale ambiente. Ultimamente mi
diceva che alcuni altri sportivi lo esortano di pregare prima di
mangiare insieme, rimproverando quelli che già avevano iniziato. In
occasioni particolari lo invitano a dare un pensiero biblico.
Ultimamente succede che non c’è gara, in cui i giovani atleti non gli
chiedano di pregare insieme prima della corsa. Chiaramente ciò non
renderà tali atleti dei cristiani, ma Dio che conosce i cuori, può
chiamare anche da tale ambito particolare coloro che lo temono e lo
cercano con sincerità di cuore. Si veda pure il seguente articolo di
Fausto Gaeta: «Che
cosa pensa un atleta quando gareggia».
Giuste ambizioni tra massimalismi e trionfalismi
Consiglio quindi di non buttare il bambino con tutta l’acqua sporca.
L’apostolo Paolo aveva «l’ambizione
di predicare l’Evangelo là dove Cristo
non fosse già stato nominato» (Rm 15,20). Bisogna portare la
luce non solo in altri Paesi, ma anche in particolari ambiti
della nostra società, quindi anche nello sport.
Come cristiani siamo dei
sorvegliati speciali da parte degli altri, nel bene e nel male.
Sebbene non esistano sport cristiani, esistono sport che si possono
praticare da cristiani.
Il credente che pratica sport, lo faccia con sentimento e
atteggiamento di cristiano; ciò significa, ad esempio, distinguersi,
praticando questa ingiunzione: «Non partecipate alle opere
infruttuose delle tenebre; anzi, piuttosto riprendetele» (Ef 5,11).
Oltre a ciò, nutra nel suo piccolo la stessa grande ambizione di Paolo.
Non bisogna essere sempre dei grandi predicatori, ma senz’altro
testimoni della verità e «segni e presagi» o segnali indicatori verso la
salvezza. Chi ha una passione sportiva può sviluppare pure una
passione per le anime e una
vocazione missionaria proprio nell’ambito, in cui opera.
Usa le tue risorse, senza sopravvalutarti né minimizzarti
Una ragazza ebrea, che si trovava in Siria come serva, quando si
presentò l’occasione, a modo suo indicò alla sua padrona semplicemente
la soluzione al problema del suo padrone lebbroso: «Oh, se il
mio signore potesse presentarsi al profeta che è a Samaria! Questi lo
libererebbe dalla sua lebbra!» (2 Re 5,3). Tale funzione indicativa
può averla oggigiorno ogni cristiano biblico, quindi anche un atleta
nell’ambito sportivo.
Nella crisi storica del giudaismo del tempo, Mardocheo fece presente
alla regina ebrea Ester, che lei era la persona giusta nel luogo
giusto e nel momento giusto, e che quindi doveva prendersi le sue
responsabilità, sebbene ciò avesse un prezzo (Est 4,13ss). Tale
funzione chiave durante particolari situazioni possono averla persone
particolari; nessuno può dire chi Dio abbia scelto in una specifica
situazione, ma quando ciò diventa evidente, bisogna assumersi le proprie
responsabilità. Ciò vale in campo civile, lavorativo e politico, ma
anche nell’ambito sportivo.
Dopo che Filippo, un uomo semplice, fu invitato da Gesù a seguirlo,
trovò Natanaele, un conoscitore delle Scritture, e gli disse: «Abbiamo
trovato colui, del quale hanno scritto Mosè nella legge e i
profeti: Gesù figlio di Giuseppe, da Nazaret» (Gv 1,43ss).
Nonostante le obiezioni dottrinali iniziali di Natanaele, ciò gli
permise di incontrare Gesù in modo personale e di riconoscerlo come
Messia (vv. 46ss). Non tutti abbiamo una chiamata e le facoltà di
argomentare teologicamente per convincere gli altri, ma tutti possiamo
indicare verso la fonte e aiutare a incontrare personalmente Gesù. Ciò
vale per tutti i campi, quindi anche per l’ambito sportivo e agonistico.
►
Sport, coerenza e testimonianza? Parliamone {Nicola Martella} (T)
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Cul/A1-Sport_coeren_testim_Mds.htm
23-07-2010; Aggiornamento: 17-08-2010 |