Entriamo in tema
«Augùri!», disse l’uno. «Tienili per te, non li voglio», rispose
l’altro, «Il verbo “augurare” proviene in origine dal paganesimo, dagli
àuguri». Un vezzo alquanto strano è quello di voler risalire
all’etimologia delle parole, quando si vuol mettere qualcuno in guardia
dall’usare una certa locuzione. Una di questa è l’espressione «auguri!»,
che secondo loro non bisognerebbe usare per le antiche radici, che
hanno. Se applicassimo tale criterio con coerenza, non potremmo usare
una buona parte del nostro vocabolario.
Approfondiamo la questione
Oggigiorno «fare gli auguri» a qualcuno significa semplicemente
desiderare, sperare, auspicarsi che le persone, a cui li destiniamo,
ricevano il bene, la felicità, cose positive, passino momenti lieti o
cose simili.
Alcuni cristiani mettono subito una riserva o addirittura un catenaccio,
facendo riferimento a un atteggiamento pagano riguardo alla
sorte, al destino o a uno degli dèi imprevedibili, capricciosi,
incontrollabili, di cui bisogna propiziarsi il favore. Già questo
discorso, fatto da cristiani biblici verso altri, fa meravigliare e
impallidire, per non dire altro, visto che parliamo di credenti che
desiderano il bene per parenti, amici e conoscenti appellandosi al Dio
vivente, che è il Padre celeste e non una bruta forza labile e
imprevedibile.
Altri cristiani vanno addirittura oltre e ti spiattellano tutta una
etimologia
di «augurio» e «augurare». Ti fanno presente che l’ugùrium presso
i romani intendeva la divinazione del futuro o presagio di cose future,
ad esempio mediante l’osservazione del volo degli uccelli, delle
interiora di animali o della caduta di fulmini. Fanno quindi notare che
l’àugure (o àuspice) fosse presso i Latini sacerdote e indovino
ufficiale.
È uno strano modo di procedere. La prima cosa che mi è venuta in mente,
è la seguente: siamo quindi continuamente in fallo, visto che molte
parole, usate comunemente, possono avere natali pagani! Dovremmo fare
l’analisi del linguaggio di tali cristiani con lo scrupolo etimologico a
senso unico, per mostrare loro la banalità di tali argomenti, visto che
una coerenza nell’uso delle parole solo veramente accertate ridurrebbe
drasticamente il loro vocabolario usuale.
Come se ciò non bastasse, tali credenti ti presentano tutto un elenco di
versi biblici in cui compaiono gli àuguri o almeno gli indovini, ad
esempio: Levitico 19,26, Numeri 23,23; Deuteronomio 18,10; Geremia
14,14; Ezechiele 12,24; 13,23; Michea 3,7; Atti 16,16.
Che cosa c’entra tutto ciò col linguaggio e con l’uso odierno di termini
come «augurio» e «augurare»? Proprio nulla. Sono discorsi che fanno solo
ridere con sufficienza ogni vero linguista. Con tale logica, non
dovremmo usare in italiano neppure il termine «Dio», poiché nel
gruppo linguistico indoeuropeo *deiwos significa «luce [del
cielo], luminoso, splendente» e tutto ciò presso i pagani era legato
alla manifestazione di divinità pagane!? Non dovremmo usarlo perché
l’aggettivo latino divus
(da cui «Dio» e «divinità») era connesso ai termini greci dîos,
zeus e diós? Tutto ciò ci porta solo ad assurdità. Nell’AT
gli dèi pagani erano degli ’elîm (potenti) è degli ’elohîm
(tremendi, per autorità); gli scrittori biblici non cercarono altri
termini, ma caratterizzarono il Dio vivente e vero, distinguendolo dai
falsi dèi. [Per l’approfondimento si veda in Nicola Martella,
Manuale Teologico dell’Antico Testamento (Punto°A°Croce,
Roma 2002), gli articoli: «Potente», pp. 277s; «Tremendo», pp. 365ss.]
Elementi di linguistica
Chi ha dimestichezza con la linguistica, sa che per ogni termine
esistono due diversi livelli:
■
L’etimologia: Essa ci indica l’origine di una parola nelle parti che
la costituiscono (p.es. «antropologia» — dal greco anthropos
«essere umano» e logos «parola» — qui nel senso di «scienza che
studia l’uomo»).
■ L’uso: Qui bisogna distinguere l’uso antico e quello moderno;
certe parole si sono così trasformate nell’uso da non avere nulla a che
fare con il significato originale. Inoltre bisogna distinguere l’uso
generale e l’uso tecnico; ciò era evidente già in molte parole
dell’antichità. Ad esempio, «dottore» è tecnicamente chiunque abbia
conseguito un dottorato in una disciplina; nel senso comune, però,
andare da dottore, significa recarsi dal medico, a cui ci si rivolge
con: «Dottore, mi fa male qui…». Inoltre, in ambito cristiano, usiamo la
dizione biblica «dottore della Parola» nel senso di insegnante della
Bibbia (chi lo è, non sempre ha una laurea).
Analisi di alcuni termini
Una delle parole che si è trasformata nel tempo è proprio «augurio»,
come pure il verbo corrispondente «augurare». Faccio notare che anche
nell’antichità esisteva un uso generale e uno tecnico (nel senso di
pronosticare la «buona fortuna»). Con il tramonto dei templi pagani
nell’occidente e della casta degli «àuguri», tale uso è andato in
secondo piano e viene usato solo in ambito occulto. Al contrario, l’uso
generale si è evoluto nel tempo, tanto da significare quanto segue:
■ Mi auguro: desidero (spero, mi aspetto, mi auspico)
personalmente che sia così…
■ Il mio augurio è: il mio desidero (la mia speranza, la mia
aspettativa, il mio auspicio) personale è che sia così…
■
Auguri di buona Pasqua!: È mio desiderio (speranza, aspettativa,
auspicio) che tu abbia / che voi abbiate una buona Pasqua.
Inoltre, «buon augurio» è inteso come «buon segno»: Quando il re Achab
disse di Ben-Hadad «È ancora vivo? egli è mio fratello», gli
inviati di quest’ultimo presero la cosa per «buon augurio» (1 Re
20,32), ossia come cosa ben promettente.
Davide affermò in un salmo: «I miei nemici
mi augurano del male, dicendo: “Quando morrà? e quando perirà il
suo nome?”» (Sal 41,5). Qui tali persone non andarono da un mago a
far fare un rito di maledizione, ma desideravano semplicemente il suo
male.
Inoltre è scritto come predizione che Dio «darà ai suoi servi un
altro nome, in modo che chi
s’augurerà d’essere benedetto nel paese, lo farà per il Dio di
verità» (Is 65,15s).
Per chi vuol usare solo ciò che ha passato l’ispezione dell’etimologia,
dovrà similmente considerare altri termini simili, ad esempio: «auspicio
- auspicare» e «fortuna - fortunato». Anch’essi conoscevano,
nell’antichità, un uso tecnico (nel pronostico divinatorio) e uno
generale.
■
Auspicio - auspicare: Nell’uso comune «auspicio» significa
oggigiorno semplicemente «segno (buono, cattivo); augurio, speranza,
desiderio». Esiste anche l’uso tecnico «presagio, pronostico, profezia,
favore», ma non è in genere usato comunemente. Il verbo «auspicare»
è diventato un semplice sinonimo di augurare, sperare, desiderare e
simili. «Mi auspico che verrai domani» intende semplicemente «mi aspetto
(spero) che…».
■
Fortuna - fortunato: Nell’uso comune «fortuna» significa oggigiorno
semplicemente «coincidenza, combinazione», oltre a «caso, destino,
sorte, fato». «Per fortuna che…!» significa semplicemente «meno male
che…!». «Fortunato» è chi si ritiene «felice», è uno che gli è andata
bene in una certa situazione o nella vita, o chi ritiene una situazione
«propizia, fausta, vantaggiosa, favorevole, ricca, prospera».
Dopo che Lea partorì un figlio, «disse: “Che fortuna!” E gli pose
nome Gad» (Gn 30,11). Dell’empio fu detto che «non s’arricchirà,
la sua fortuna non sarà stabile» (Gb 15,29). Si parla di «un
fuoco che… avrebbe distrutto fin dalle radici ogni mia fortuna» (Gb
31,12). Paolo si rallegrò di essere stato visitato da Fortunato (1 Cor
16,17); non gli fece cambiare nome.
■
Propizio - propiziare: Ho letto che qualcuno afferma che nella
Bibbia si parla che Dio sia propizio a qualcuno, non che gli si
augurano le benedizioni divine. Nella traduzione Riveduta,
«propizio» e variazioni ricorrono in sette versi. Ciò fu usato nelle
formule augurali. Giuseppe disse a Beniamino, suo fratello minore: «Dio
ti sia propizio, figlio mio!» (Gn 43,29; 2 Sm 24,23). Il sacerdote
doveva benedire il popolo così: «L’Eterno faccia risplendere il suo
volto su te e ti sia propizio!» (Nu 6,25). Tale termine fu usato
anche nella descrizione: l’Eterno, pur mostrandosi severo verso i
suoi avversari, «si mostra propizio alla sua terra, al suo popolo»
(Dt 32,43). Elihu affermò che quando l’empio si ravvede, «implora
Dio, e Dio gli è propizio…» (Gb 33,26). Anche nella preghiera
o negli inni si afferma: «O Eterno, tu sei stato propizio alla tua
terra, tu hai ricondotto Giacobbe dalla cattività» (Sal 85,1).
Usando il senso comune, Paolo parlò del fatto che gli era «presentata
finalmente, per la volontà di Dio, l’occasione propizia di venire a voi»
(Rm 1,10).
Come si può vedere, «propizio» intende qui solo «favorevole, benigno».
Questa è la realtà di chi ha tradotto i termini ebraici e greci in
italiani, senza farsi scrupolo dell’origine etimologica. Se andassimo al
latino propitius, scopriremmo che proviene da pro «avanti»
e pètere «andare» (cfr. competente). Andando al greco
propetes, constateremmo che pètomai significa «volare». Gli
antichi manuali di etimologia affermano che allora il senso originale
sarebbe: «il cui volo è di felice augurio»; con ciò si alludeva al fatto
che nell’antichità si consultava il volo degli uccelli, prima di fare
qualcosa di significativo.
Così sono da intendere anche i derivati: propiziar(si) «render(si)
propizio», propiziatore «favoreggiatore, mediatore», propiziatorio
«sacrificio che rende propizio», propiziazione «render(si) propizio».
Nella Bibbia propiziazione è un sinonimo di espiazione.
Alcune osservazioni derivanti
Chi usa questi e altri termini, non intende fare voto agli antichi
àuguri, decretare magici auspici, appellarsi alla dèa fortuna o trarre
pronostici dal volo degli uccelli. Non vuole neppure gettarla
nell’etimologia, ma usa solo il senso comune odierno di queste parole.
Come si vede, se si insegue l’etimologia e l’uso tecnico dei termini,
invece di usare l’uso comune odierno, si entra in un labirinto senza
uscita. In tal modo si diventa infelici e fonte d’infelicità per altri.
Chi vuole spaccare il capello, creerà inutili e sterili polemiche con
gli altri. È probabile che, guardando alla sua vita, si vedrà che cola
moscerini e inghiotte cammelli. Chi vuol essere pedante, chi gli
assicurerà che non sta usando vari termini che in origine significavano
cose legate al paganesimo o avevano un significato amorale? Dovrà
studiarsi a fondo tutto un dizionario etimologico, ripassandolo
regolarmente, per non fallire nei termini che usa?
Certamente bisogna evitare un linguaggio che oggigiorno viene recepito
come amorale; ci sono però parole che con l’uso frequente hanno perso il
loro riferimento originario. Ricordo un credente che usava l’etimologia
per evitare certe parole che gli ricordavano il membro maschile. Perciò,
ad esempio, non parlava di «cazzuola», ma di «cucchiara», sebbene tale
termine sia solo dialettale (it. cucchiaia); non di «cazzotto», ma di
pugno. Posso immaginarmi come doveva avere la coscienza sporca, quando
gli sfuggiva un tale termine e come doveva farla venire a chi
casualmente sbagliava termine!
Sbagliò allora Isaia a usare l’immagine del «panno mestruato» per
descrivere la mancanza di giustizia umana? (Is 64,6). Dobbiamo
condannare Paolo che osò parlare delle cose della tradizione giudaica
come skybalon
«escrementi, rifiuti»? (Fil 3,8; cfr. 1 Cor 4,13).
Come si vede, si può esagerare ogni cosa, appellandosi all’etimologia,
complicando la vita a sé e agli altri.
Aspetti conclusivi
Noi non abbiamo a che fare con forze del destino, ma col Dio vivente.
Gli apostoli non erano linguisti né si inventarono un linguaggio
speciale per i credenti, ma usarono la lingua del popolo (cfr. il
termine greco ekklesia
«assemblea», che era usato per qualsiasi tipo di raduno, sia politico,
sia religioso).
Se noi «distruggiamo i ragionamenti e ogni altezza che si eleva
contro alla conoscenza di Dio, e facciamo prigioniero ogni pensiero
traendolo all’ubbidienza di Cristo» (2 Cor 10,5), perché non farlo
per la linguistica?
Se «noi sappiamo che l’idolo non è nulla nel mondo, e che non c’è
alcun Dio fuori d’un solo» (1 Cor 8,4), perché dovrebbero essere
«qualcosa» termini dagli antichi natali pagani e dovremmo pensare di
contaminarci usando oggigiorno parole che hanno tutt’altro senso?
Se «tutto è puro per quelli che sono puri» (Tt 1,15), perché
rendere contaminate «tanto la mente che la coscienza» dei
cristiani deboli con cose del genere, quasi che i cristiani che usano un
tale linguaggio fossero da paragonare a coloro che Dio lo «rinnegano
con le loro opere, essendo abominevoli, e ribelli e incapaci di
qualsiasi opera buona» (v. 16)?
È scritto: «Tutto quel che Dio ha creato è buono; e nulla è da
riprovare, se usato con rendimento di grazie; perché è santificato dalla
parola di Dio e dalla preghiera» (1 Tm 4,4s). Si può applicare tutto
ciò anche all’uso del linguaggio. Se termini del genere (augurare,
auspicare, ecc.) sono accettati nella società odierna generalmente come
«normali», non riprovevoli e addirittura in senso positivo, non dovremmo
essere noi cristiani biblici a voler trovare ed evidenziare un presunto
male in essi. Le nostre energie e il nostro ingegno dovremmo usarli per
cose e battaglie ben più nobili.
►
Auguri tra incertezze e ideologia? Parliamone
{Nicola Martella} (A)
► URL:
http://puntoacroce.altervista.org/_Cul/A1-Auguri_incert_ideolog_Lv.htm
05-01-2010; Aggiornamento: 08-01-2010 |