Un taglio netto alle convenzioni anti-bibliche e pseudo-bibliche, all'ignoranza e alle speculazioni — Ein klarer Schnitt zu den anti-biblischen und pseudo-biblischen Konventionen, zur Unwissenheit und den Spekulationen — A clean cut to the anti-biblical and pseudo-biblical conventions, to the ignorance and the speculations — Une coupe nette aux conventions anti-bibliques et pseudo-bibliques, à l'ignorance et aux spéculations — Un corte neto a las convenciones anti-bíblicas y pseudo-bíblicas, a la ignorancia y a las especulaciones

La fede che pensa — Accettare la sfida nel nostro tempo

«Glaube gegen den Strom»: Für das biblische Unterscheidungsvermögen — «Faith countercurrent»: For the biblical discernment — «Foi contre-courant»: Pour le discernement biblique — «Fe contracorriente»: Por el discernimiento bíblico

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Il Levitico 1

 

Cultura e fede

 

 

 

 

Il Levitico — Libretto di studio:

   Dopo le istruzioni d’uso e l’introduzione generale, seguono le domande sul testo, che rimarcano le parti principali del Levitico:
■ I sacrifici (Lv 1-7)
■ Il sacerdozio (Lv 8-10)
■ Purificazione del popolo (Lv 11-15)
■ Giorno della riconciliazione (Lv 16)
■ Ordinamenti per il popolo (Lv 17-20)
■ Ordinamenti per il sacerdozio (Lv 21-22)
■ Ordinamenti per le feste (Lv 23-24)
■ Ordinamenti per il paese (Lv 25-26)
■ Appendice: voti e decime (Lv 27).

 

Il Levitico — Libretto di testo

   Si tratta di una traduzione letterale che ricalca da vicino l’ebraico e che è strutturata secondo le parti evidenti del libro. Può risultare molto utile per chi vuole studiare il Levitico in modo profondo.

 

► Vedi al riguardo le recensioni.

 

Il Levitico 2

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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AUGURI TRA INCERTEZZE E IDEOLOGIA

 

 di Nicola Martella

 

Entriamo in tema

     «Augùri!», disse l’uno. «Tienili per te, non li voglio», rispose l’altro, «Il verbo “augurare” proviene in origine dal paganesimo, dagli àuguri». Un vezzo alquanto strano è quello di voler risalire all’etimologia delle parole, quando si vuol mettere qualcuno in guardia dall’usare una certa locuzione. Una di questa è l’espressione «auguri!», che secondo loro non bisognerebbe usare per le antiche radici, che hanno. Se applicassimo tale criterio con coerenza, non potremmo usare una buona parte del nostro vocabolario.

 

Approfondiamo la questione

     Oggigiorno «fare gli auguri» a qualcuno significa semplicemente desiderare, sperare, auspicarsi che le persone, a cui li destiniamo, ricevano il bene, la felicità, cose positive, passino momenti lieti o cose simili.

     Alcuni cristiani mettono subito una riserva o addirittura un catenaccio, facendo riferimento a un atteggiamento pagano riguardo alla sorte, al destino o a uno degli dèi imprevedibili, capricciosi, incontrollabili, di cui bisogna propiziarsi il favore. Già questo discorso, fatto da cristiani biblici verso altri, fa meravigliare e impallidire, per non dire altro, visto che parliamo di credenti che desiderano il bene per parenti, amici e conoscenti appellandosi al Dio vivente, che è il Padre celeste e non una bruta forza labile e imprevedibile.

     Altri cristiani vanno addirittura oltre e ti spiattellano tutta una etimologia di «augurio» e «augurare». Ti fanno presente che l’ugùrium presso i romani intendeva la divinazione del futuro o presagio di cose future, ad esempio mediante l’osservazione del volo degli uccelli, delle interiora di animali o della caduta di fulmini. Fanno quindi notare che l’àugure (o àuspice) fosse presso i Latini sacerdote e indovino ufficiale.

     È uno strano modo di procedere. La prima cosa che mi è venuta in mente, è la seguente: siamo quindi continuamente in fallo, visto che molte parole, usate comunemente, possono avere natali pagani! Dovremmo fare l’analisi del linguaggio di tali cristiani con lo scrupolo etimologico a senso unico, per mostrare loro la banalità di tali argomenti, visto che una coerenza nell’uso delle parole solo veramente accertate ridurrebbe drasticamente il loro vocabolario usuale.

     Come se ciò non bastasse, tali credenti ti presentano tutto un elenco di versi biblici in cui compaiono gli àuguri o almeno gli indovini, ad esempio: Levitico 19,26, Numeri 23,23; Deuteronomio 18,10; Geremia 14,14; Ezechiele 12,24; 13,23; Michea 3,7; Atti 16,16.

     Che cosa c’entra tutto ciò col linguaggio e con l’uso odierno di termini come «augurio» e «augurare»? Proprio nulla. Sono discorsi che fanno solo ridere con sufficienza ogni vero linguista. Con tale logica, non dovremmo usare in italiano neppure il termine «Dio», poiché nel gruppo linguistico indoeuropeo *deiwos significa «luce [del cielo], luminoso, splendente» e tutto ciò presso i pagani era legato alla manifestazione di divinità pagane!? Non dovremmo usarlo perché l’aggettivo latino divus (da cui «Dio» e «divinità») era connesso ai termini greci dîos, zeus e diós? Tutto ciò ci porta solo ad assurdità. Nell’AT gli dèi pagani erano degli ’elîm (potenti) è degli ’elohîm (tremendi, per autorità); gli scrittori biblici non cercarono altri termini, ma caratterizzarono il Dio vivente e vero, distinguendolo dai falsi dèi. [Per l’approfondimento si veda in Nicola Martella, Manuale Teologico dell’Antico Testamento (Punto°A°Croce, Roma 2002), gli articoli: «Potente», pp. 277s; «Tremendo», pp. 365ss.]

 

Elementi di linguistica

     Chi ha dimestichezza con la linguistica, sa che per ogni termine esistono due diversi livelli:

     ■ L’etimologia: Essa ci indica l’origine di una parola nelle parti che la costituiscono (p.es. «antropologia» — dal greco anthropos «essere umano» e logos «parola» — qui nel senso di «scienza che studia l’uomo»).

     ■ L’uso: Qui bisogna distinguere l’uso antico e quello moderno; certe parole si sono così trasformate nell’uso da non avere nulla a che fare con il significato originale. Inoltre bisogna distinguere l’uso generale e l’uso tecnico; ciò era evidente già in molte parole dell’antichità. Ad esempio, «dottore» è tecnicamente chiunque abbia conseguito un dottorato in una disciplina; nel senso comune, però, andare da dottore, significa recarsi dal medico, a cui ci si rivolge con: «Dottore, mi fa male qui…». Inoltre, in ambito cristiano, usiamo la dizione biblica «dottore della Parola» nel senso di insegnante della Bibbia (chi lo è, non sempre ha una laurea).

 

Analisi di alcuni termini

     Una delle parole che si è trasformata nel tempo è proprio «augurio», come pure il verbo corrispondente «augurare». Faccio notare che anche nell’antichità esisteva un uso generale e uno tecnico (nel senso di pronosticare la «buona fortuna»). Con il tramonto dei templi pagani nell’occidente e della casta degli «àuguri», tale uso è andato in secondo piano e viene usato solo in ambito occulto. Al contrario, l’uso generale si è evoluto nel tempo, tanto da significare quanto segue:

     ■ Mi auguro: desidero (spero, mi aspetto, mi auspico) personalmente che sia così…

     ■ Il mio augurio è: il mio desidero (la mia speranza, la mia aspettativa, il mio auspicio) personale è che sia così…

     ■ Auguri di buona Pasqua!: È mio desiderio (speranza, aspettativa, auspicio) che tu abbia / che voi abbiate una buona Pasqua.

 

Inoltre, «buon augurio» è inteso come «buon segno»: Quando il re Achab disse di Ben-Hadad «È ancora vivo? egli è mio fratello», gli inviati di quest’ultimo presero la cosa per «buon augurio» (1 Re 20,32), ossia come cosa ben promettente.

     Davide affermò in un salmo: «I miei nemici mi augurano del male, dicendo: “Quando morrà? e quando perirà il suo nome?”» (Sal 41,5). Qui tali persone non andarono da un mago a far fare un rito di maledizione, ma desideravano semplicemente il suo male.

     Inoltre è scritto come predizione che Dio «darà ai suoi servi un altro nome, in modo che chi s’augurerà d’essere benedetto nel paese, lo farà per il Dio di verità» (Is 65,15s).

 

Per chi vuol usare solo ciò che ha passato l’ispezione dell’etimologia, dovrà similmente considerare altri termini simili, ad esempio: «auspicio - auspicare» e «fortuna - fortunato». Anch’essi conoscevano, nell’antichità, un uso tecnico (nel pronostico divinatorio) e uno generale.

     ■ Auspicio - auspicare: Nell’uso comune «auspicio» significa oggigiorno semplicemente «segno (buono, cattivo); augurio, speranza, desiderio». Esiste anche l’uso tecnico «presagio, pronostico, profezia, favore», ma non è in genere usato comunemente. Il verbo «auspicare» è diventato un semplice sinonimo di augurare, sperare, desiderare e simili. «Mi auspico che verrai domani» intende semplicemente «mi aspetto (spero) che…».

 

     ■ Fortuna - fortunato: Nell’uso comune «fortuna» significa oggigiorno semplicemente «coincidenza, combinazione», oltre a «caso, destino, sorte, fato». «Per fortuna che…!» significa semplicemente «meno male che…!». «Fortunato» è chi si ritiene «felice», è uno che gli è andata bene in una certa situazione o nella vita, o chi ritiene una situazione «propizia, fausta, vantaggiosa, favorevole, ricca, prospera».

     Dopo che Lea partorì un figlio, «disse: “Che fortuna!” E gli pose nome Gad» (Gn 30,11). Dell’empio fu detto che «non s’arricchirà, la sua fortuna non sarà stabile» (Gb 15,29). Si parla di «un fuoco che… avrebbe distrutto fin dalle radici ogni mia fortuna» (Gb 31,12). Paolo si rallegrò di essere stato visitato da Fortunato (1 Cor 16,17); non gli fece cambiare nome.

 

     ■ Propizio - propiziare: Ho letto che qualcuno afferma che nella Bibbia si parla che Dio sia propizio a qualcuno, non che gli si augurano le benedizioni divine. Nella traduzione Riveduta, «propizio» e variazioni ricorrono in sette versi. Ciò fu usato nelle formule augurali. Giuseppe disse a Beniamino, suo fratello minore: «Dio ti sia propizio, figlio mio!» (Gn 43,29; 2 Sm 24,23). Il sacerdote doveva benedire il popolo così: «L’Eterno faccia risplendere il suo volto su te e ti sia propizio!» (Nu 6,25). Tale termine fu usato anche nella descrizione: l’Eterno, pur mostrandosi severo verso i suoi avversari, «si mostra propizio alla sua terra, al suo popolo» (Dt 32,43). Elihu affermò che quando l’empio si ravvede, «implora Dio, e Dio gli è propizio…» (Gb 33,26). Anche nella preghiera o negli inni si afferma: «O Eterno, tu sei stato propizio alla tua terra, tu hai ricondotto Giacobbe dalla cattività» (Sal 85,1). Usando il senso comune, Paolo parlò del fatto che gli era «presentata finalmente, per la volontà di Dio, l’occasione propizia di venire a voi» (Rm 1,10).

     Come si può vedere, «propizio» intende qui solo «favorevole, benigno». Questa è la realtà di chi ha tradotto i termini ebraici e greci in italiani, senza farsi scrupolo dell’origine etimologica. Se andassimo al latino propitius, scopriremmo che proviene da pro «avanti» e pètere «andare» (cfr. competente). Andando al greco propetes, constateremmo che pètomai significa «volare». Gli antichi manuali di etimologia affermano che allora il senso originale sarebbe: «il cui volo è di felice augurio»; con ciò si alludeva al fatto che nell’antichità si consultava il volo degli uccelli, prima di fare qualcosa di significativo.

     Così sono da intendere anche i derivati: propiziar(si) «render(si) propizio», propiziatore «favoreggiatore, mediatore», propiziatorio «sacrificio che rende propizio», propiziazione «render(si) propizio». Nella Bibbia propiziazione è un sinonimo di espiazione.

 

Alcune osservazioni derivanti

     Chi usa questi e altri termini, non intende fare voto agli antichi àuguri, decretare magici auspici, appellarsi alla dèa fortuna o trarre pronostici dal volo degli uccelli. Non vuole neppure gettarla nell’etimologia, ma usa solo il senso comune odierno di queste parole.

     Come si vede, se si insegue l’etimologia e l’uso tecnico dei termini, invece di usare l’uso comune odierno, si entra in un labirinto senza uscita. In tal modo si diventa infelici e fonte d’infelicità per altri. Chi vuole spaccare il capello, creerà inutili e sterili polemiche con gli altri. È probabile che, guardando alla sua vita, si vedrà che cola moscerini e inghiotte cammelli. Chi vuol essere pedante, chi gli assicurerà che non sta usando vari termini che in origine significavano cose legate al paganesimo o avevano un significato amorale? Dovrà studiarsi a fondo tutto un dizionario etimologico, ripassandolo regolarmente, per non fallire nei termini che usa?

 

Certamente bisogna evitare un linguaggio che oggigiorno viene recepito come amorale; ci sono però parole che con l’uso frequente hanno perso il loro riferimento originario. Ricordo un credente che usava l’etimologia per evitare certe parole che gli ricordavano il membro maschile. Perciò, ad esempio, non parlava di «cazzuola», ma di «cucchiara», sebbene tale termine sia solo dialettale (it. cucchiaia); non di «cazzotto», ma di pugno. Posso immaginarmi come doveva avere la coscienza sporca, quando gli sfuggiva un tale termine e come doveva farla venire a chi casualmente sbagliava termine!

     Sbagliò allora Isaia a usare l’immagine del «panno mestruato» per descrivere la mancanza di giustizia umana? (Is 64,6). Dobbiamo condannare Paolo che osò parlare delle cose della tradizione giudaica come skybalon «escrementi, rifiuti»? (Fil 3,8; cfr. 1 Cor 4,13).

     Come si vede, si può esagerare ogni cosa, appellandosi all’etimologia, complicando la vita a sé e agli altri.

 

Aspetti conclusivi

     Noi non abbiamo a che fare con forze del destino, ma col Dio vivente. Gli apostoli non erano linguisti né si inventarono un linguaggio speciale per i credenti, ma usarono la lingua del popolo (cfr. il termine greco ekklesia «assemblea», che era usato per qualsiasi tipo di raduno, sia politico, sia religioso).

     Se noi «distruggiamo i ragionamenti e ogni altezza che si eleva contro alla conoscenza di Dio, e facciamo prigioniero ogni pensiero traendolo all’ubbidienza di Cristo» (2 Cor 10,5), perché non farlo per la linguistica?

     Se «noi sappiamo che l’idolo non è nulla nel mondo, e che non c’è alcun Dio fuori d’un solo» (1 Cor 8,4), perché dovrebbero essere «qualcosa» termini dagli antichi natali pagani e dovremmo pensare di contaminarci usando oggigiorno parole che hanno tutt’altro senso?

     Se «tutto è puro per quelli che sono puri» (Tt 1,15), perché rendere contaminate «tanto la mente che la coscienza» dei cristiani deboli con cose del genere, quasi che i cristiani che usano un tale linguaggio fossero da paragonare a coloro che Dio lo «rinnegano con le loro opere, essendo abominevoli, e ribelli e incapaci di qualsiasi opera buona» (v. 16)?

     È scritto: «Tutto quel che Dio ha creato è buono; e nulla è da riprovare, se usato con rendimento di grazie; perché è santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera» (1 Tm 4,4s). Si può applicare tutto ciò anche all’uso del linguaggio. Se termini del genere (augurare, auspicare, ecc.) sono accettati nella società odierna generalmente come «normali», non riprovevoli e addirittura in senso positivo, non dovremmo essere noi cristiani biblici a voler trovare ed evidenziare un presunto male in essi. Le nostre energie e il nostro ingegno dovremmo usarli per cose e battaglie ben più nobili.

 

Auguri tra incertezze e ideologia? Parliamone {Nicola Martella} (A)

 

► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Cul/A1-Auguri_incert_ideolog_Lv.htm

05-01-2010; Aggiornamento: 08-01-2010

 

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