Qui di seguito prendiamo posizione riguardo al seguente articolo «
Atene o Gerusalemme? 1: La tesi gerusalemita» {Argentino Quintavalle}.
Entriamo in tema
Atene o Gerusalemme? La domanda,
posta così dal mio interlocutore, sembra che non lasci scampo e che
induca a una scelta per esclusione. E l’autore già suggerisce la
risposta. E si ha l'impressione come se egli suggerisca al lettore che
tale risposta corrisponda anche all’intera verità reale delle cose. Da
tale scelta si fa derivare poi tutto il resto.
Che in tali cose non ci sia solo il bianco e il nero e che bisogna
differenziare, per me è evidente. A volte, ossia per certi aspetti,
bisognerà certamente affermare: «O l’una o l’altra cosa» (p.es. «la
salvezza viene dai Giudei»; Gv 4,22). Altre volte, ambedue le cose
avranno la loro ragione (cfr. Mt 5,45) o il loro torto (1 Cor 1,23). Poi
ci sono precedenze storiche positive e negative (Rm 1,16; 2,9s), zone
comuni (At 17,28s; Rm 2,12; 3,29; 9,24) e anche fatti antitetici (Gal
2,15). Che cosa si vuole poi incarnare con «Atene» e «Gerusalemme»?
Intorno a questi concetti, a seconda delle persone, vengono incarnate
certamente proiezioni soggettive e «cristallizzazioni» aprioristiche e
programmatiche. Che cosa direbbero però in Cina, in India, in Africa o
in un luogo distante da ambedue questi antichi centri, quando gli si
pone tale scelta?
Atene o Gerusalemme?
Una tale domanda non è stata mai formulata nella Bibbia. L’unica volta
che nel NT fu posta una simile domanda tra due luoghi di culto-cultura,
fu fra il monte Garizim e il monte del tempio (Gv 4,20). Tra i
Samaritani e i Giudei c’erano stati per secoli rivalità (cfr. v. 9b).
Sebbene Gesù ricordasse alla Samaritana che «la salvezza viene dai
Giudei» (v. 22), in quanto da Giuda sarebbe venuto il Messia
promesso (cfr. v. 25), aggiunse in modo inequivocabile: «Donna,
credimi; l’ora viene che né su questo monte né a Gerusalemme adorerete
il Padre» (v. 21). L’altra alternativa è tra due monti (Sinai e
Sion), ma di ciò parleremo in seguito; ma qui il quadro è negativo per
Gerusalemme (giudaismo storico).
Gerusalemme
Nel NT Gerusalemme non fa una grande figura. Era il luogo della
nomenclatura religiosa che si opponeva nel riconoscere Gesù quale
Messia-Re, che tramò contro di lui e che, infine, lo portò a morte.
Quando Gesù venne come re, non fu accolto come tale, se non da una
minoranza che lo seguiva. Pochi giorni dopo, in questa città si gridò a
Pilato: «Crocifiggilo, crocifiggilo!» (Lc 23,21).
Gerusalemme fu il luogo in cui (e da cui) partì contro la chiesa
nascente la più grande persecuzione, promossa proprio dal Sinedrio
giudaico. La chiesa perseguitata e dispersa non associò certo solo buoni
sentimenti a tale città. Molti credenti furono arrestati, torturati e
uccisi per mandato del Sinedrio gerusalemita. L’apostolo Giovanni, un
Giudeo, ricalcando l’opinione dei credenti del suo tempo, dichiarò
qualcosa che non faceva di Gerusalemme proprio un luogo spiritualmente
desiderabile: «…la gran città, che spiritualmente si chiama Sodoma ed
Egitto, dove anche il Signor loro è stato crocifisso» (Ap 11,8). Per
loro non era certo un modello, a cui guardare con orgoglio e da offrire
in alternativa ad altri.
Il Giudeo cristiano Giovanni fu il più duro e crudo verso la sua patria.
Infatti affermò che il Logos creatore, incarnatosi, «è venuto in casa
sua [= Giudea], e i suoi [= Giudei] non l’hanno ricevuto» (Gv 1,11);
perciò contrappose al diritto della razza il diritto della fede in Gesù
Messia (vv. 12s).
Gli Evangeli sono una costante polemica di Gesù verso il giudaismo dei
suoi tempi. Gesù disse con sarcasmo al rabbino Nicodemo: «Tu sei il
dottore d’Israele e non sai queste cose?» (v. 10; cfr. nel v. 11 il
«noi» in contrasto al «voi»). I capi religiosi che lo venivano ad
avversare, provenivano nella stragrande maggioranza da Gerusalemme (Mt
15,1). Nelle sue parabole la nomenclatura religiosa di Gerusalemme
faceva sempre una magra figura (Lc 10,31s; 18,10ss). I suoi paragoni di
giudizio avevano spesso Gerusalemme come obiettivo (Lc 13,1-9).
Egli contrappose costantemente al «fu detto» (dai padri o
rabbini) il «ma io vi dico» (Mt 5). Egli si scagliò costantemente
contro la nomenclatura religiosa di Gerusalemme (scribi, Farisei,
Sadducei), coprendoli degli epiteti più pesanti (Mt 3,7 razza di vipere;
15,14 ciechi, guide di ciechi; 23,17 stolti e ciechi; 15,7; 23,23ss
ipocriti; ecc.) e del suo minaccioso: «Guaia
voi!» (Mt 23,13-16.23-29). Per
Gesù essi trasgredivano «il comandamento di Dio a motivo della vostra
tradizione» (Mt 15,3), sì annullavano
la parola di Dio (v. 6). Addirittura disse ai Sadducei, custodi della
Torà (cfr. Mal 2,7), di errare, non conoscendo le Scritture! (Mt 22,29).
Gesù ebbe anche con Gerusalemme un rapporto conflittuale, avendolo
rifiutato come Messia. Egli parlò ripetutamente di Gerusalemme come
luogo della sua sofferenza e del suo supplizio (Mt 16,21; 20,18s). Dopo
essere entrato trionfalmente nella città (ma senza essere accolto come
Messia-Re dalla nomenclatura religiosa; Mt 21,15), espresse aspramente e
fattivamente il suo dissenso per la gestione del tempio (v. 12). Per lui
Gerusalemme è stato da sempre il luogo in cui i cittadini hanno
continuamente ucciso i profeti e lapidato gli inviati di Dio (Mt 23,37).
Anche lui voleva raccogliere i Gerusalemiti per dare loro riparo, ma
dovette constatare: «Voi non avete voluto!». Egli sarebbe stato
loro tolto, finché non lo avrebbero riconosciuto come Messia (vv. 38s),
ossia fino alla fine dei tempi.
Anche per i futuro egli parlò di Gerusalemme come di una città
assediata, distrutta e desolata (Lc 21,20.24). Le mamme avrebbero presto
pianto i loro figli (Lc 23,28).
L’ellenismo
Quando nel 4° secolo a.C. Alessandro Magno conquistò il suo vasto regno,
la maggior parte dei Giudei vivevano già da secoli nella diaspora. In
tutto il Mediterraneo i Greci, seguendo l’esempio degli antichi Fenici,
avevano aperto già da secoli colonie commerciali; in esse si parlava
greco. Tali città si trovavano addirittura in Palestina. Al tempo di
Gesù, la stragrande maggioranza dei Giudei si trovava nella diaspora e
parlava greco (cfr. Gv 7,35). Molte città della Palestina erano città
ellenistiche. Anche in Giudea si era poliglotti; Gesù stesso non ebbe
difficoltà a parlare greco con i suoi interlocutori (Gv 12,20s).
L’ellenismo aveva già da secoli raggiunto anche Gerusalemme. I
Seleucidi, che nel 2° secolo a.C. si erano opposti con Giuda Maccabeo
alla elenizzazione proveniente dalla Siria, successivamente si
ellenizzarono essi stessi nei costumi; la maggior parte dei loro nomi è
greca. I Sadducei, il partito dei sacerdoti, erano molto vicini
all’ellenismo, quindi ad «Atene».
Nella diaspora i Giudei non sempre vedevano una contraddizione fra la
fedeltà alla Torà e lo studio dei filosofi greci. C’erano colonie
giudaiche del tutto ellenistiche. Filone d’Alessandria, ad esempio,
cercò addirittura una sintesi fra Mosè e Platone. Egli rimane un esempio
di un giudaismo illuminato. Per loro — a ragione o a torto — non c’era
una contraddizione fra Gerusalemme e Atene.
In Gerusalemme a discutere acerbamente contro Stefano, che poi fu
ucciso, c’erano «alcuni della sinagoga detta dei Liberti, e dei
Cirenei, e degli Alessandrini, e di quelli di Cilicia e d’Asia» (At
6,9). Erano quindi tutti Giudei di lingua greca e cultura ellenistica e
avevano in Gerusalemme proprie sinagoghe, distinte da quelle ebraiche.
Qui anche Paolo «discuteva con gli Ellenisti, ma questi cercavano
d’ucciderlo» (At 9,29).
A Pentecoste, a Gerusalemme c’erano Giudei e avventizi sia dell’Oriente
(normalmente di lingua aramea) sia dell’Occidente (generalmente di
lingua greca; At 2,9ss). Tanti di loro erano residenti in loco e, come
detto, avevano proprie sinagoghe. Anche nella chiesa di Gerusalemme
c’era un’ala ellenistica (cultura e lingua greca) e una ebraica (cultura
e lingua ebraica) e ciò creava problemi di comunicazione e di gestione
delle cose (At 6,1). Si noti che i nomi dei sette eletti sono tutti
greci (At 6,5). È interessante notare che gli scrittori del NT usarono
nella stragrande maggioranza delle citazioni dell’AT la Septuaginta. Nel 3°
secolo a.C. si vide come necessario che i Giudei ellenistici avessero il loro
Libro sacro in greco, perché lo capissero. Addirittura Matteo, che nella sua
dimostrazione parlò della «vergine [che] sarà incinta e partorirà» (Mt
1,23), citò da essa (l’originale ebraico parla di «giovinetta»). Pietro scrisse
ai Giudei cristiani della diaspora in greco (1 Pt 1,1 solo dei Giudei si poteva
dire che erano «forestieri nella diaspora»; 2 Pt 3,1). Addirittura
un’epistola dottrinale destinata agli Ebrei fu redatta in greco! L’autore,
citando il Salmo 8 secondo la Settanta, scrisse «poco inferiore agli angeli»
(Eb 2,7.9), mentre l’ebraico ha «poco inferiore a Elohim», rispettando
così una tradizione giudaica postesilica che vedeva Dio troppo trascendente per
fare paragoni con l’uomo; cfr. similmente come Stefano parlò della «legge
promulgata dagli angeli» (At 7,3), così anche Paolo (Gal 3,19).
L’Evangelo Il suo messaggio era abbastanza semplice, ma potente.
L’Evangelo costituiva di per sé la vera e reale dottrina dei cristiani. Essa si
doveva incarnare in tutte le culture. In tal modo, ogni centro culturale e di
riferimento doveva venire a cadere. La persecuzione dei missionari cristiani da
parte proprio della nomenclatura giudaica accentuò questo processo e, se fece
guardare a Gerusalemme, ciò fu con biasimo. Il punto di riferimento era ora Gesù
Cristo, la sua persona e la sua opera, quindi l’Evangelo. L’attore principale
era lo Spirito Santo e non la «lettera» (la legge, la casistica giudaica, la
tradizione). Alla «vecchiezza di lettera» fu contrapposta la «novità
di Spirito» (Rm 7,6). Lo Spirito Santo rendeva capaci Paolo e i missionari
come lui d’essere «ministri d’un nuovo patto, non di lettera, ma di spirito;
perché la lettera uccide, ma lo spirito vivifica» (2 Cor 3,6).
Gerusalemme o Atene? Dopo aver fatto questa lunga carrellata storica e
teologica, mi sento di dire: né Gerusalemme né Atene! È bene tenersi dapprima a
debita distanza dall’ideologia incarnata da ambedue. Preferisco la «libertà
nello Spirito» del nuovo patto. Con essa posso trovare buoni elementi nell’una e
nell’altra (cfr. Paolo in Atene, At 17; cfr. Fil 4,8) e parimenti prendere le
distanze dai loro «vermi» e «serpi» presenti in ambedue. Non c’è bisogno di
elencare questi ultime. Poi quando verrà il Messia, tutto sarà chiaro… Ma fin lì
si fa bene a diffidare da tutti gli «-ismi», quindi anche dall’ideologia
giudaista e da quella ellenista, per poi cogliere in loro anche gli elementi
positivi che si accordano con la dottrina e l’etica del nuovo patto («etica
della libertà e della responsabilità»).
Quale Gerusalemme? Potremmo chiudere già qui il tema, ma vogliamo qui
approfondire alcuni aspetti particolari. Si suggerisce che, siccome Israele c’è
stata prima, i credenti delle nazioni siano stati semplicemente aggiunti a
Israele. Mentre la «teologia della sostituzione» identifica erroneamente la
chiesa con «l’Israele spirituale» (abolendo per sempre quello storico), questa
che potremmo chiamare la «teologia dell’incorporamento» identifica Israele
(quello storico) con la chiesa, a cui sarebbero stati semplicemente aggiunti i
cristiani gentili. Qui i confini fra «l’Israele storico» e «l’Israele di Dio» (i
giudei cristiani) è tenuto molto fluido. I cristiani gentili sono quindi solo
degli «annessi» a Israele, di cui avrebbero acquisito la cittadinanza. Proverò
perciò a chiedere un passaporto israeliano! In effetti però, le cose sono differenti. I cristiani
giudei, essendo in Cristo, costituiscono «l’Israele di Dio» (contrapposto a
quello storico). Al «resto fedele» di tutti i tempi, che è il vero Israele,
appartengono la cittadinanza, i patti e tutti gli altri privilegi (proprio in
contrapposizione all’Israele storico incredulo, di cui i «santi» erano sempre un
«residuo»). Questo «Israele di Dio» insieme ai Gentili entrati nel patto
costituiscono «l’assemblea messianica». Si noti come i «figli della carne»
(l’Israele storico: «Essi hanno urtato nella pietra d’intoppo», ossia
Gesù quale Messia; Rm 9,32s) furono contrapposti ai «figli della promessa» (il
resto fedele), chiamati pure «figli di Dio» e «progenie» (v. 8; cfr. vv. 6s). Il contrasto è evidente anche nella collocazione della
patria e del modello di riferimento della «assemblea messianica». Essa non è la
Gerusalemme terrena (rimasta incredula verso Gesù Messia e persecutrice della
chiesa), ma la «Gerusalemme di sopra» o «Gerusalemme celeste» (Eb 12,22).
Riguardo a tale cittadinanza e ai privilegi connessi, non c’è più Giudeo o
Gentile, essendo essi «uno in Cristo». Paolo paragonò il patto del monte Sinai (l’antico
patto) alla schiava Agar (Gal 4,24) e fece corrispondere allegoricamente
quest’ultima anche «alla Gerusalemme del tempo presente, la quale è schiava
con i suoi figli» (v. 25). Egli paragonò invece il nuovo patto alla libera
(Sara) e al monte Sion e fece corrispondere allegoricamente quest’ultima anche
alla «Gerusalemme di sopra [che] è libera ed è nostra madre» (v. 26). I
cristiani gentili furono paragonati a Isacco (v. 28). I Giudei rimasti
disubbidienti all’Evangelo furono paragonati a Ismaele («nato secondo la
carne») e caratterizzati come persecutori di chi è «nato secondo lo
Spirito» (v. 29). Tali Giudei sono cacciati, al pari di Ismaele, con la loro
schiava madre (Agar - Gerusalemme) per evitare che ereditino col «figlio
della libera» (i seguaci di Gesù Messia; v. 30). Paolo concluse: «Perciò,
fratelli, noi non siamo figli della schiava, ma della libera», ossia non
cittadini della Gerusalemme terrena, ma della Gerusalemme celeste. I componenti del «resto fedele» d’Israele di tutti i
tempi sono chiamati i «santi». Il nuovo patto, avendo dato accesso mediante lo
Spirito Santo a Giudei e Gentili in Cristo a tale cittadinanza celeste, ha reso
anche i Gentili «concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio»,
al pari dei Giudei cristiani (Ef 2,11-22). Qui non si tratta della «cittadinanza
d’Israele», storicamente parlando (v. 12), ma della cittadinanza celeste di quel
«solo uomo nuovo» (v. 15) e della casa spirituale del Signore (vv. 20ss).
Infatti, come Paolo spiegò altrove, «la nostra cittadinanza è nei cieli»
(Fil 3,20). Anche nell’Apocalisse il contrasto creato da Giovanni
al riguardo è chiaro. Egli evitò di parlare di Gerusalemme (in Ap 14,1 parlò di
«monte Sion», ma non è chiaro se è celeste [cfr. v. 3] o terrestre); dove lo
fece, contrappose ciò che avrebbe dovuto essere («città santa») a ciò che era
(simile a Sodoma e all’Egitto; Ap 11,8). L’unica «Gerusalemme» anelata è la «nuova
Gerusalemme che scende dal cielo» (Ap 3,12), la «santa città» e la sposa (Ap
21,2.9s). È interessante notare che sempre Giovanni, quando parlò
di «chiesa», prese a modello quelle dell’Asia Minore, che erano a maggioranza
gentile (Ap 2s), mai quelle giudaiche. Quando Gesù parlò del giudaismo
nell’Apocalisse, parlò delle «calunnie lanciate da quelli che dicono d’essere
Giudei e non lo sono» (Ap 2,9 Smirne) e aggiunse di questi «Giudei
rimasti disubbidienti» all’Evangelo (At 14,2) che erano una «sinagoga di
Satana» (cfr. già Gv 8,44). Ciò fu ripetuto similmente anche per la
situazione di Filadelfia, affermando che tali falsi Giudei mentivano (Ap 3,9).
Tali Giudei furono associati da Gesù a Balaam e ai Nicolaiti (ambedue i termini
significano «dominatore di popolo») In effetti, la «gnosi» (miscuglio fra
paganesimo, dottrina biblica e «conoscenza» esoterica) derivò proprio dal
giudaismo e poi penetrò nel cristianesimo. Tale gnosticismo è chiamato
«dottrina di Balaam» (Ap 2,14) e «dottrina dei Nicolaiti» (v. 15); si vedano
anche Iezabel (falsa profetessa; Ap 2,20) e le arti occulto-esoteriche associate
(«le profondità di Satana»; Ap 2,24). Il filone esoterico del giudaismo
ispirò l’alchimia, la cabala, lo zoarismo e simili pratiche mistico-esoteriche e
speculative; tali pratiche sono seguite a tutt’oggi da una buona parte del
giudaismo. Gesù prese le distanze dal giudaismo rabbinico (o
farisaico) e da quello spiritualista (mistico-esoterico). Né l’uno né l’altro
possono essere un punto di riferimento preferenziale della gente del nuovo
patto. La «nuova Gerusalemme» è modello e aspirazione
della gente del nuovo patto. Essa relativizza tutti i modelli di riferimento
terreni: sia Gerusalemme, sia Atene. Come cittadini della città del futuro
possiamo dapprima relativizzare tutte le città del presente (e quanto a esse
connesso), per poi attingere da esse tutto ciò che si accorda con l’Evangelo e
con l’etica del nuovo patto (Fil 4,8).
Gli Israeliti dell’AT antenati dei cristiani gentili? Era Paolo orgoglioso d’essere
un Ebreo? (2 Cor 11,22). Paolo volle esprimere — sotto la pressione di false
accuse — un contrasto verso i suoi oppositori (falsi apostoli o super-apostoli
in Corinto; 2 Cor 11,5.13; 12,11), ma mostrò subito che i segni del suo
apostolato erano quelli guadagnati sul campo, predicando l’Evangelo (2 Cor
11,6s.23ss; 12,12). Non era Paolo orgoglioso d’essere «Ebreo d’Ebrei… fariseo»?
(Fil 3,5). Non si può evitare di vedere — per non fare ideologia — che egli
subito aggiunse: «Ma le cose che m’erano guadagni, io le ho reputate danno a
motivo di Cristo… di fronte alla eccellenza della conoscenza do Cristo Gesù, mio
Signore, per il quale rinunciai a tutte codeste cose e le reputo tanta
spazzatura alfine di guadagnare Cristo» (Fil 4,7). Nell’esegesi è il
contesto che regna! Giustamente affermiamo verso chiunque che quando si
enuncia qualcosa pur di avere ragione e si trascura il contesto — che può spesso
asserire il contrario delle cose enunciate — ciò potrebbe significare non essere
interessato a una verità oggettiva, ma che si agisce così o per negligente
superficialità o perché si intende praticare un'ideologia partigiana. Il lettore
non si potrebbe avere l'impressione che ciò valga anche qui?
Non dobbiamo guardare né ad Atene né a Gerusalemme, ma a «Cristo
crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per i Gentili, pazzia» (1
Cor 1,23), mentre per noi «chiamati, tanto Giudei quanto Greci»,
Cristo è «potenza di Dio e sapienza di Dio» (v. 24).
È vero che Paolo affermò che i «Gentili sono eredi
con noi, membra con noi d’un medesimo corpo e
con noi
partecipi della promessa fatta in Cristo Gesù mediante l’Evangelo»
(Ef 3,6). Ma questo «noi» non è l’Israele storico, ma «l’Israele di
Dio», ossia i cristiani giudei. Quindi non è vero che «la storia
d’Israele è ora la loro storia». L’aggancio comune è essere «in Cristo»
(termine copioso nella lettera agli Efesini), non essere «in Israele».
Quindi non è vero che «gli Israeliti erano gli antenati dei Corinzi»;
l’espressione «i nostri padri» in (1 Cor 10,1) è troppo ambigua per
costruirci sopra una tale dottrina; ricorre poi solo qui. (Nell’epistola
egli sapeva anche distinguere tra il «nostro» aggregante e il «vostro»
differenziante; cfr. 1 Cor 10,13.) Paolo poteva significare qui
semplicemente i padri dei Giudei (cristiani); anche qui l’aggancio era
Cristo e il linguaggio era allegorico (v. 4). Si noti nel contesto il
«noi» (cristiani) che prende le distanze da «loro» (gli Israeliti
dell’AT), definiti idolatri e fornicatori (vv. 6-9). Voleva Paolo
affibbiare ai Gentili cristiani siffatti strani ed empi «padri»? È poco
probabile.
Nella chiesa primordiale Giudei e Gentili non «avevano una stirpe
spirituale comune con gli Ebrei dell’antichità», ma tutt’al più col
resto fedele di tutti i tempi; anzi, in Cristo iniziò «l’uomo nuovo», in
cui «dei due popoli ne ha fatto un solo» (Ef 2,14s), ossia quelli
dei due differenti schieramenti (Giudei e Gentili), che trovarono in
Gesù quale Messia e nel suo sangue espiatorio l’identificazione comune
(v. 13). Ciò permette ad ambedue le compagini «l’accesso al Padre in
un medesimo Spirito» (v. 18), essendo i cristiani gentili diventati
«concittadini dei santi [= Giudei cristiani] e membri della famiglia
di Dio» (v. 19) e parte del «tempio santo nel Signore», che «servire
di dimora a Dio per lo Spirito» (vv. 21s).
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Cul/A1-Atene_Gerusalemme2_MT_AT.htm
10-03-2007; Aggiornamento: 30-06-2010
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