Un taglio netto alle convenzioni anti-bibliche e pseudo-bibliche, all'ignoranza e alle speculazioni — Ein klarer Schnitt zu den anti-biblischen und pseudo-biblischen Konventionen, zur Unwissenheit und den Spekulationen — A clean cut to the anti-biblical and pseudo-biblical conventions, to the ignorance and the speculations — Une coupe nette aux conventions anti-bibliques et pseudo-bibliques, à l'ignorance et aux spéculations — Un corte neto a las convenciones anti-bíblicas y pseudo-bíblicas, a la ignorancia y a las especulaciones

La fede che pensa — Accettare la sfida nel nostro tempo

«Glaube gegen den Strom»: Für das biblische Unterscheidungsvermögen — «Faith countercurrent»: For the biblical discernment — «Foi contre-courant»: Pour le discernement biblique — «Fe contracorriente»: Por el discernimiento bíblico

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Dopo una introduzione alle problematiche della teologia dell’AT, segue il dizionario teologico dell’AT.

   Ecco le parti principali dell’introduzione alla teologia dell’AT:
■ Il compito e l’oggetto della Teologia dell’AT
■ Le posizioni teologiche più ricorrenti
■ I patti e gli altri approcci
■ Contro l’appiattimento storico e teologico dell’AT.

 

Al dizionario teologico dell’AT sono acclusi un registro delle voci e un registro ragionato delle stesse detto «percorsi teologici».

 

► Vedi al riguardo le recensioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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TRADUZIONI, LINGUE BIBLICHE

E MENTALITÀ EBRAICA? PARLIAMONE

 

 a cura di Nicola Martella

 

L’articolo di Argentino Quintavalle ha illuminato positivamente alcuni aspetti della questione riguardo a Traduzioni, lingue bibliche e mentalità ebraica. Alcune sue affermazioni solleveranno certamente alcune domande e obiezioni, ad esempio le seguenti. Se la mentalità e la lingua ebraiche fossero state così importanti alla comprensione, perché il NT fu scritto in greco? (non esiste nessuna evidenza interna allo stesso NT che sia mai esistito un originale ebraico o aramaico né tanto meno esiste prova documentaria al riguardo, ossia un solo manoscritto originale o una sua parte in ebraico o aramaico). Perché qualcuno scrive mai a un altro in una lingua (il greco) pur sapendo che quest’ultimo non potrà capire interamente il contenuto dello scritto senza possedere la mentalità (ebraica) di chi scrive? Non bisogna distinguere fra le inflessioni ebraiche nel greco e i contenuti che anche gli ellenisti potevano capire? In che lingua parlò Gesù ai Giudei ellenisti? (Gv 12,20ss). In che lingua si espresse nella Decapoli (Mt 4,25; Mc 5,1.20; 7,31 + Tiro), dove si parlava greco? Mi fermo qui. Altre domande verranno sicuramente ai lettori.

 

Per l’approfondimento cfr. in Nicola Martella, Manuale Teologico dell’AT (Punto°A°Croce, Roma 2002), l’articolo «Lingua – mentalità – approccio al mondo», pp. 216s; cfr. anche «Globalità», p. 180.

 

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I contributi sul tema

(I contributi rispecchiano le opinioni personali degli autori.

I contributi attivi hanno uno sfondo bianco)

 

1. Nicola Berretta

2. A. Quintavalle

3. Nicola Martella

4. A. Quintavalle

5. Nicola Martella

6. Nicola Berretta

7. A. Quintavalle

8. Tonino Mele

9.

10.

11.

12.

 

Clicca sul lemma desiderato per raggiungere la rubrica sottostante

 

 

1. {Nicola Berretta}

 

È sempre un piacere leggere articoli come «Traduzioni, lingue bibliche e mentalità ebraica» che aiutano ad approfondire esegeticamente il testo biblico. La loro lettura mi mette impietosamente di fronte alle mie lacune, ma allo stesso tempo mi stimola a scoprire quanto sia ricca e profonda la nostra Scrittura.

     Vorrei però esprimere alcune perplessità, o, se non altro, invitare Argentino a chiarirmi le cose su una questione. Se da una parte comprendo la necessità della conoscenza della lingua e della cultura ebraica per la corretta comprensione dell’Antico Testamento, la cosa mi convince meno quando si parla del Nuovo. Comprendo benissimo che gli autori dei libri del NT, pur scrivendo in lingua greca, erano comunque legati alle loro radici culturali ebraiche, tuttavia mi domando: perché scrissero in greco e non in ebraico? Evidentemente perché il loro intento era quello di farsi comprendere anche da chi Ebreo non era. Se dunque hanno deciso d’utilizzare certi termini greci, per tradurre concetti ebraici, evidentemente ritenevano quei termini adatti a trasmettere il loro messaggio anche a chi non era di cultura ebraica. Potrei anche aggiungere che, se è vero (come è vero!) che gli autori dei libri del NT sono stati ispirati dallo Spirito Santo, evidentemente i termini greci che hanno utilizzato erano quelli che più s’adattavano a trasmettere il messaggio voluto. Trovo pertanto quantomeno azzardato affermare, come fa Argentino, che «… Le cose non sono migliori nel Nuovo Testamento perché la lingua greca si trova a esprimere dei concetti ebraici, e non sempre ci riesce».

     Ciò che voglio dire è che, una cosa è parlare della versione dei LXX, che è a tutti gli effetti una traduzione del testo ispirato, e per la quale si può dunque opinare del corretto utilizzo dei termini (esattamente come facciamo per le traduzioni italiane), altra cosa è parlare di libri ispirati scritti direttamente in lingua greca, e quindi ispirati all’origine nei termini utilizzati. Tutto questo ha un senso, ovviamente, a meno che non si ritenga che l’originale sia stato scritto in ebraico e i manoscritti più antichi a nostra disposizione siano già traduzioni postume (come ad esempio alcuni suggeriscono per il Vangelo di Matteo), ma non mi sembra che Argentino abbia queste convinzioni.

     Insomma, per quanto comprenda che possa essere importante conoscere la lingua e la cultura ebraica anche per il NT, ho un po’ di difficoltà nell’accettare che «…Solo quando iniziamo a riscoprire l’ebraico che si cela dietro il greco del Nuovo Testamento (specialmente degli Evangeli) ci sarà possibile capire completamente le parole di Gesù», come affermato da Argentino. Ritengo quest’affermazione quantomeno opinabile e per certi versi addirittura rischiosa, in quanto suggerisce l’esistenza di verità che vanno oltre la parola scritta che lo Spirito Santo ha ispirato. Una pratica tristemente nota in tante sette gnosticheggianti, e che Argentino è certamente lungi dal voler appoggiare.

 

 

2. {Argentino Quintavalle}

 

Perché il NT è stato scritto in greco? Per trovare una risposta bisogna risalire alle origini. Certo, gli autori del NT sono stati ispirati dallo Spirito Santo, ma perché poi lo Spirito Santo ha permesso che circolassero quasi 5.000 manoscritti del NT, diversamente da come ha fatto per l’AT? Non mi è facile mettere per iscritto tutto quello che ho in mente per poter rispondere a Nicola Berretta e a Nicola Martella. Dovrei parlare di come sono state preservate le parole di Gesù. Ma anche per questo è essenziale conoscere la cultura ebraica.

   Vengo al punto e spero d’essere chiaro, poiché l’argomento è complesso. Come hanno fatto gli insegnamenti di Gesù a diventare Evangeli? Quanto affidabili sono questi nell’aver preservato le parole di Gesù? Perché molti detti di Gesù sono riportati in un ordine diverso negli Evangeli? Possiamo capire come gli Evangeli sono stati scritti, guardando l’inusuale metodo utilizzato dai rabbini del primo secolo nel preservare con precisione, e nel tempo, i loro detti.

   Innanzitutto non era concesso a un discepolo di trasmettere per iscritto le parole del suo maestro. Una caratteristica univoca del metodo di studio rabbinico-farisaico era l’uso della memorizzazione. In genere, quando gli studenti e gli insegnanti s’impegnavano nello studio, essi facevano ricorso ai rotoli delle Scritture. Gli Esseni, ad esempio, hanno preservato il loro sapere in forma scritta e hanno fatto uso di rotoli per il loro studio. I Farisei, invece, non portavano rotoli nelle classi di studio. Essi memorizzavano le Scritture e le tradizioni orali. Il materiale per la discussione, per i rabbini farisei e gli studenti, proveniva dalla loro miniera d’erudizione mentale. Gesù ha usato lo stesso metodo. Nel primo secolo d.C. la letteratura farisaica veniva trasmessa oralmente. Un insegnamento rabbinico era considerato «Torah Orale», e la sua trasmissione scritta era severamente vietata. Verso l’anno 200, per descrivere questa letteratura è stata utilizzata l’espressione «Torah Orale», ed era considerata interpretazione autorevole della Torah scritta. In quest’ambiente culturale, è probabile che i primi discepoli di Gesù non avrebbero osato mettere per iscritto il suo insegnamento, ma lo avrebbero trasmesso oralmente (infatti così è stato – gli insegnamenti di Gesù non sono stati messi per iscritto subito). Può sembrare strano ma quest’era il sistema migliore per preservarlo con precisione per le generazioni future.

 

L’accuratezza della trasmissione orale

   Abbiamo la tendenza a considerare il materiale trasmesso oralmente come meno fidato di quello trasmesso per iscritto. Questo è perché abbiamo familiarità solo con quei miti e leggende che vengono modificate a ogni nuovo racconto. La cosiddetta «Ipotesi Orale», accettata purtroppo da molti, si basava sulla supposizione che le storie degli Evangeli, vaghe memorie di storie originali semitiche, siano uno sviluppo orale interno alla chiesa primitiva di lingua greca. Veniva considerato come certo che queste storie erano abbellite dagli insegnanti e dai predicatori, e che diventavano sempre più grandi ogni volta che venivano raccontate, per poi essere messe per iscritto in greco decenni dopo la morte di Gesù.

   La trasmissione orale nell’ambiente rabbinico della società ebraica, non somigliava affatto a tutto questo. La trasmissione orale, per i rabbini e per i loro discepoli, s’avvicinata al 100% di precisione, la quale era di gran lunga maggiore di quella che si poteva ottenere attraverso la trasmissione scritta. Quando la letteratura è trasmessa in documenti copiati a mano, inevitabilmente vengono commessi degli errori, noti come «errori di scrittura». I rabbini erano consapevoli di questo pericolo. Essi sapevano che se la loro letteratura fosse stata trasmessa per iscritto, avrebbe perso il suo alto grado di precisione. Quindi essi proibivano la trasmissione scritta. Il divieto di mettere per iscritto il loro insegnamento orale si trova nel Talmud Babilonese (trattato Gittin 60b).

   Per esempio, consideriamo questa versione di Mt 6,10: «Venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà anche in terra com’è fatta nel cielo…». Siccome la maggior parte dei cristiani conoscono questa frase a memoria, il più piccolo errore viene subito notato. Allo stesso modo, quando un detto viene ripetuto oralmente in una comunità dove è conosciuto quasi da tutti i membri, essi ne assicurano la precisione. Ma se un detto è preservato e trasmesso solo nella scrittura, l’auto-correzione è assente. Qualsiasi errore sarebbe perpetuato senza volerlo.

   È duro per noi apprezzare l’affidabilità e la precisione di trasmissione orale dell’ambiente rabbinico del primo secolo. Al discepolo non era consentito di modificare neanche una parola della tradizione che aveva ricevuto dal suo maestro, quando lo citava ad altri [“Una persona deve sempre trasmettere una tradizione con le stesse parole nelle quali l’ha ricevuta dal suo maestro» (Mishnah Eduyot 1,3)]. Al discepolo veniva chiesto anche di citare le sue fonti. Molti detti rabbinici sono introdotti così, «Rabbi X a nome di Rabbi Y», in altre parole, «Rabbi X trasmette una tradizione che egli ha ricevuto da Rabbi Y». Per noi è anche duro riuscire ad apprezzare la quantità di materiale trasmesso oralmente che i discepoli d’un rabbino di quei tempi avevano affidato alla memoria. Essi conoscevano una quantità enorme di letteratura orale, tra cui le Scritture, nella stessa maniera in cui i Cristiani conoscono la «Preghiera del Padre nostro».

   Seguendo questa linea di pensiero, si può ragionevolmente credere che la prima raccolta scritta delle parole e dei fatti di Gesù sia stata fatta in greco, come traduzione d’una raccolta orale ebraica degli atti e degli insegnamenti di Gesù, memorizzati dai suoi primi discepoli e da loro trasmessi con un elevato grado di precisione. Forse un seguace bilingue della «Via» ha compilato questa raccolta dopo aver ascoltato giorno dopo giorno in ebraico le predicazioni e le lezioni dei Dodici, oppure poteva essere qualche discepolo che aveva seguito Gesù sin dall’inizio del suo ministero pubblico (Atti 1,21s). Man mano che i Dodici predicavano e insegnavano, egli ha sparso qua e là nelle sue presentazioni molti dei detti e delle opere di Gesù. Forse l’ascoltatore ha preso nota in ebraico e più tardi ha fatto la traduzione in greco, oppure ha tradotto direttamente in greco quello che aveva ascoltato.

   Questo ascoltatore anonimo e bilingue potrebbe essere stato Giovanni Marco. Papia, vescovo d’Ierapoli in Asia Minore durante la metà del secondo secolo, scrisse: «Marco, che era l’interprete di Pietro, ha messo accuratamente per iscritto quello che aveva memorizzato. Egli, tuttavia, non ha riferito i detti e le opere del Signore nel loro ordine esatto, poiché non è stato lui ad ascoltarlo direttamente e né l’ha accompagnato durante il suo ministero, ma è stato Pietro che ha avuto questo privilegio. Pietro ha adattato i suoi insegnamenti alle necessità dei suoi ascoltatori, senza preoccuparsi di collegare insieme i detti del Signore. Così, Marco non ha sbagliato a scrivere certe cose così come le ha ricordate. Egli si è preoccupato solo d’una cosa: non omettere niente di quello che aveva sentito e non scrivere niente di falso» [Eusebio, Storia Ecclesiastica III,39,15]. Papia ha anche scritto che «Matteo mise per iscritto le parole del Signore nella lingua ebraica, e altri le hanno tradotte, ognuno come meglio ha potuto» (Storia Ecclesiatica III,39,16). La tradizione di Papia su Matteo, conferma che ci fosse una fonte ebraica scritta degli Evangeli.

 

È difficile stabilire quanta fede possiamo riporre nelle tradizioni di Papia. Comunque, secondo Papia, Marco era il traduttore di Pietro e ha messo per iscritto l’insegnamento di Pietro così come lo ha ricordato. Il racconto di Marco non era cronologicamente ordinato perché l’insegnamento di Pietro non era una narrazione continua (il documento al quale Papia rimanda non è necessariamente identico con l’Evangelo canonico di Marco).

 

Differenze nell’ordine dei detti di Gesù

   I Dodici, insieme agli altri discepoli che avevano studiato con Gesù, conoscevano tutta la sua storia, sin nei minimi particolari; tuttavia, quando essi hanno insegnato o predicato non l’hanno presentata in maniera cronologica. Piuttosto, essi hanno incorporato i racconti delle opere di Gesù e i suoi insegnamenti all’interno delle proprie esposizioni. Ad esempio, un apostolo può avere incorporato in un suo sermone solo una di due parabole simili con cui Gesù aveva originariamente concluso un insegnamento, poiché solo una delle parabole s’adattava al tema del sermone. Sebbene le storie della biografia ebraica di Gesù siano state predicate e insegnate oralmente in maniera frammentaria, finché venivano trasmesse oralmente erano preservate con precisione.

   Matteo, Marco e Luca, sebbene essi contengano molte storie identiche, non sempre presentano le storie nello stesso ordine. Ad esempio, ci sono quarantasette storie che si trovano solo in Matteo e Luca, tuttavia i due autori non sempre concordano dove mettere queste storie. Gli autori erano consapevoli che il loro materiale non era sempre in ordine cronologico. Luca dichiara che la ragione del suo scritto era quella di dare a Teofilo un racconto ordinato. È significativo che siccome Teofilo era greco e quindi il suo ideale di cultura era l’ordine, aveva la necessità d’un «racconto ordinato» della vita di Gesù.

   Molto probabilmente, i primi documenti che contenevano gli insegnamenti di Gesù avevano una grande preoccupazione per la precisione delle citazioni, ma poco interesse a preservare i detti o le storie all’interno del loro contesto originale. Arrangiare la storia sacra senza un interesse per il suo ordine cronologico, sebbene vada contro la nostra sensibilità moderna, e a quella dei lettori non ebraici della Bibbia, era una cosa comune nell’antico giudaismo. Legare una storia o un detto a un verso della Scrittura era più importante che preservare il vero contesto storico. Per esempio, nei libri d’Isaia, Geremia e Ezechiele, gli eventi della vita di quei profeti non sono registrati in ordine cronologico.

   Il modo di fare d’un antico maestro e dei suoi discepoli può spiegare perché molte delle opere e dei detti di Gesù negli Evangeli sono stati separati dai loro contesti originali. Il primo scritto della «Vita di Gesù» può essere stato un documento greco composto da un discepolo bilingue, il cui racconto era basato sull’insegnamento orale trasmesso in ebraico da uno o più dei dodici apostoli. Spiegare l’origine delle differenze nell’ordine delle storie di Matteo, Marco e Luca è una delle sfide più grandi degli studiosi del Nuovo Testamento.

 

Esempi

   Per quanto riguarda la mia affermazione: «La lingua greca si trova a esprimere dei concetti ebraici e non sempre ci riesce» la confermo, e porto degli esempi da dove s’evince che il testo greco degli Evangeli riporta letteralmente un sotto-testo ebraico. Ma nello stesso tempo, laddove è andato perso l’originale significato ebraico della frase, alcuni brani sono di difficile comprensione, altri sono addirittura impossibili da capire se non si conosce la letteratura rabbinica:

     ■ Come spiegare il gioco di parole: Pietro-pietra (Petros-petra) di Mt 16,18? Gesù stava forse parlando in greco con Pietro?

     ■ Cosa significa veramente la parola «volpe» con cui Gesù chiama Erode in Luca 13,32?

     ■ Qual è il profondo significato di Luca 23,31: «Perché, se tali cose si fanno al legno verde, che cosa sarà fatto al legno secco»?

     ■ Cosa significa Mt 11,12: «E dai giorni di Giovanni Battista fino a ora, il regno dei cieli subisce violenza e i violenti lo rapiscono»? Questa è impossibile da capire per un «greco».

     ■ Un’altra frase impossibile da capire per un «greco» è: «Io sono venuto a gettare fuoco sulla terra e quanto desidero che fosse già acceso. Ora io ho un battesimo di cui devo essere battezzato, e come sono angustiato finché non sia compiuto» (Luca 12,49,50).

     ■ Qual è il vero significato di Mt 16,19: «Tutto ciò che avrai legato sulla terra, sarà legato nei cieli, e tutto ciò che avrai sciolto sulla terra sarà sciolto nei cieli».

     ■ Cosa significa Mt 5,20: «Se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei, voi non entrerete affatto nel regno dei cieli».

     ■ Cosa significa Mt 5,17s: «Non pensate che io sia venuto ad abrogare la legge o i profeti; io non sono venuto per abrogare, ma per portare a compimento [adempiere]. Perché in verità vi dico: Finché il cielo e la terra non passeranno, neppure uno iota o un solo apice della legge passerà. prima che tutto sia adempiuto».

     ■ Cosa significa veramente Mt 6,22s: «La lampada del corpo è l’occhio; se dunque l’occhio tuo è puro, tutto il tuo corpo sarà illuminato, ma se l’occhio tuo è viziato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso». [► Due tesi a confronto su Matteo 6,22-23 (1) {Nicola Martella}]

     ■ Cosa significa «salato con il fuoco» (Mc 9,49)?

 

   Potrei continuare, ma mi fermo qui. A leggere le interpretazioni che comunemente si danno a questi versi, molti Ebrei si metterebbero a ridere. Perché? Perché i «greci» si sforzano di dare un significato a delle parole che traducono letteralmente degli idiomi ebraici incomprensibili se non si conosce la cultura ebraica.

   Spero che ora ci sia qualche difficoltà in meno nell’accettare che «…Solo quando iniziamo a riscoprire l’ebraico che si cela dietro il greco del Nuovo Testamento (specialmente degli Evangeli) ci sarà possibile capire completamente le parole di Gesù». Se qualcuno pensa che sia ancora opinabile provi a interpretare i versi che ho citato sopra e poi ne riparliamo. I primi cristiani greci non potevano assolutamente capirli se non c’era qualche cristiano ebreo che glieli spiegava. Mi scuso se posso dare l’idea d’essere un po’ sfrontato, ma queste cose sono troppo serie per essere taciute. Per troppo tempo la chiesa ha dimenticato le sue radici, è ora che le riscopra.

 

 

3. {Nicola Martella}

 

In ciò che dice Argentino ci sono certamente tanti spunti di riflessione e tante cose vere e interessanti. Qui di seguito faccio alcune obiezioni e osservazioni sul suo contributo, seguendo il flusso del suo testo. Il contrasto serve per verificare le sue asserzioni e per alimentare la riflessione e la discussione.

     ■ Come facciamo a sapere che non fosse concesso, ai tempi di Gesù, a un discepolo di trasmettere per iscritto gli insegnamenti dei loro rabbini, se non abbiamo una fonte scritta d’allora che lo attesti? Non potrebbe essere una leggenda metropolitana accreditata nel Medioevo?

     ■ Ci sarà stata anche la memorizzazione dei contenuti del sapere, ma è discutibile che essa da sola sia stata in grado di preservare la tradizione.

     ■ Non erano solo gli Esseni ad aver scritto le loro tradizioni. Tra i due testamenti e oltre abbiamo una ricca fioritura di scritti di pressoché tutti i movimenti giudaici, compresi i Farisei e gli Zeloti. Gli scritti trovati presso Qumran provenivano dalla biblioteca di Gerusalemme e contenevano, oltre al Codice di Damasco e ad altri scritti essenici, varia letteratura apocrifa e pseudoepigrafa. I Targumim aramaici contengono note e commenti dei rabbini. La vasta letteratura nata dal 2° sec. a.C. al 2° sec. d.C. smentisce la leggenda della trasmissione prettamente orale del sapere. Il concetto «Torà orale» è stata un’abile manovra dei rabbini per accreditare i loro insegnamenti come «mosaici».

     ■ Anche l’asserzione che «i primi discepoli di Gesù non avrebbero osato mettere per iscritto il suo insegnamento» è un assunto che non trova riscontri (su che cosa dobbiamo basarci per appurare la verità?). Il citato Papia affermò qualcosa di diverso, sebbene egli parlasse delle «loghia» (discorsi) e non dell’Evangelo di Matteo. Quando Paolo citava il Signore Gesù come fonte d’autorità, ciò presumeva che egli avesse le sue parole per iscritto; altrimenti non c’era freno all’arbitrio di chi metteva in bocca a Gesù parole che egli non aveva mai pronunciato, come avvenne in seguito con gli evangeli pseudoepigrafi di stampo gnostico, che si appellavano alla tradizione orale. Paolo stesso fu un fervido scrittore e ingiunse alle chiese di diffondere i suoi scritti (Col 4,16; l’epistola agli Efesini era in origine una circolare). Il modo come Paolo teneva ai suoi libri e alle sue pergamene (2 Tm 4,13), mostra che quella della trasmissione orale — pur avendo un certo fondo di verità come fenomeno parallelo — è diventata una delle leggende metropolitane più accreditate. Tra gli eventi cristologici e la stesura scritta di essi non è passato così molto tempo come si potrebbe credere. Quando Luca scrisse, molti avevano «intrapreso ad ordinare una narrazione dei fatti» (Lc 1,1). Pietro stesso si conta tra i testimoni oculari (2 Pt 1,16). Quando Paolo scrisse ai Corinzi dei «cinquecento fratelli», che tutti in una volta videro il Risorto, affermò che la maggior parte di loro «rimane ancora in vita» (1 Cor 15,6). Egli si appellò a un ordine del Signore in questioni specifiche al matrimonio (1 Cor 7,10), mentre in altre non poté farlo (vv. 12.25); ciò presume una fonte scritta verificabile da tutti.

     ■ Non si capisce come una trasmissione orale possa essere migliore di una scritta. Gli errori della trasmissione orale sono statisticamente maggiori degli errori di trascrizione! Il Talmud non può essere un’autorità per i tempi di Gesù, visto che è un’opera medioevale. Quanto a miti, leggende, favole e gnosi speculativa presenti nel giudaismo (anche rabbinico), basta leggere gli avvertimenti di Paolo ai suoi collaboratori, quando affermò di schivarle! (1 Tm 4,7; 6,20; Tt 3,9).

     È incredibile tale eroicizzazione del rabbinismo dalla sue fonti medioevali! Non convince che il controllo della trasmissione orale sarebbe maggiore rispetto a quella per iscritto. Non essendoci fonte scritta contemporanea al primo secolo che attesti «l’affidabilità e la precisione di trasmissione orale dell’ambiente rabbinico del primo secolo», non si può per nulla affermare ciò. Tutto ciò su cui possiamo basare il sapere dell’antichità sono le fonti scritte contemporanee ai fatti, cioè a breve e ragionevole distanza da essi, il resto è mitologia eroica di una presunta trasmissione orale corretta e impeccabile. Quanto afferma il Talmud medioevale non fa testo, poiché nessuno può verificare che un «Rabbi X» abbia proprio detto quanto ha affermato in seguito un «Rabbi Y», sentendolo dire da un «Rabbi W». Non si può paragonare la preghiera del «Padre nostro» o un qualsiasi testo liturgico a molteplici interpretazioni di leggi, brani biblici e tradizioni casuistiche.

     ■ Come si può parlare di «raccolta orale ebraica», visto che una «raccolta» presume qualcosa di concreto? Se è una raccolta, non è orale, e viceversa. A ciò si aggiunga che si parla di «raccolta orale ebraica», perché si presume che nella Palestina si parlasse esclusivamente ebraico. Ma le cose non stavano così. Nella Decapoli e in molte città della Palestina si parlava greco; a Gerusalemme stessa affluivano costantemente Giudei ellenistici da tutto i paesi del Mediterraneo (At 2,9ss) e c’erano sinagoghe ellenistiche e una parte della stessa chiesa di Gerusalemme era di estradizione ellenistica (si guardi i nomi dei sette uomini scelti in At 6). Quando Pietro era a Ioppe e si recò a Cesarea per parlare con Cornelio, non si sente parlare di un interprete (At 10,1ss.24ss). In che lingua parlò Pietro in Antiochia (Gal 2,11) o scrivendo a quelli della dispersione del Ponto, della Galazia, della Cappadocia, dell’Asia e della Bitinia (1 Pt 1,1; cfr. At 18,2 Aquila e Priscilla del Ponto). Quando Paolo si recò a Gerusalemme, trovò solo Pietro e Giovanni dei discepoli del Signore (Gal 2,9). Quando vi ritornò in seguito trovò solo Giacomo, fratello di Gesù. Quindi essi si dispersero nel mondo, parlando qui nella lingua locale, come fece Pietro nei suoi giri missionari in zone grecofone e come fecero anche Barnaba e Paolo. Matteo e Giovanni erano discepoli di Gesù, ma scrissero in greco i loro Evangeli (non c’è neppure un frammento che attesti il contrario); Marco e Luca erano Giudei ellenisti e non ebbero certo difficoltà a scrivere direttamente in greco.

     ■ Papia non parlò dell’Evangelo di Matteo come scritto in ebraico ma, come detto sopra, dei «discorsi» che sono ben altra cosa. In ogni modo, Argentino stesso ha diffidato spesso dell’attendibilità di Eusebio. Argentino stesso ammette che l’Evangelo di Marco potrebbe essere ben altro rispetto al documento descritto da Papia.

     ■ Le congetture di come gli Evangeli possano essersi formati possono essere interessanti (si insiste sull’«insegnamento orale trasmesso in ebraico»), ma rimangono ipotesi che si possono ribaltare in un senso o nell’altro.

     ■ Rimane un mistero come si possa accertare un «sotto-testo ebraico» degli Evangeli, visto che non si possiede un solo frammento in ebraico. Non si comprende neppure come «altri [brani] sono addirittura impossibili da capire se non si conosce la letteratura rabbinica», visto che quest’ultima proviene dal medioevo e da una situazione quindi differente. È come voler studiare il Rinascimento italiano, rifacendosi ad autori dell’era industriale americana. La letteratura rabbinica può aiutare a capire, ma non è detto che lo faccia sempre e veramente. Giuseppe Flavio, Filone d’Alessandria e altri scrittori del primo secolo erano più vicini all’epoca di Gesù di quanto lo siano stati i rabbini del Medioevo. Non è escluso che certe inflessioni linguistiche, certi modi di dire e immagini retoriche siano comuni a Gesù e ai rabbini del Medioevo, essendo all’interno dello stesso mondo culturale — ma per altre cose sono agli antipodi.

     ■ Negli esempi fatti da Argentino alcune cose erano certamente presenti nella cultura generale del mondo d’allora e altre espressioni proverbiali si trovano anche in altre culture. Nasce però un dubbio, quando afferma categorico: «Questa è impossibile da capire per un “greco”». Bisognerebbe essere stati in quel mondo per saperlo. E poi possibile che gli Evangelisti abbiano scritto per non far capire? Non si legge spesso «che interpretato significa…», quando c’era difficoltà di comprensione? Forse le culture d’allora avevano più «osmosi» di quanto pensiamo. Forse essi capivano più di quanto noi sospettiamo o capiamo oggi. E ancora un altro dubbio: Se «i “greci” si sforzano di dare un significato a delle parole che traducono letteralmente degli idiomi ebraici incomprensibili se non si conosce la cultura ebraica», allora gli Evangelisti sono stati pessimi scrittori e mediatori culturali. Ma forse le cose non stanno proprio così. E ciò che vale per noi non deve valere per il mondo ellenistico d’allora, in cui la maggior parte degli Ebrei parlava greco!

     ■ Anche la conclusione di Argentino al riguardo («riscoprire l’ebraico che si cela dietro il greco… ci sarà possibile capire completamente le parole di Gesù») non convince del tutto, poiché trascura il mondo reale d’allora. Non abbiamo nessuna evidenza che allora le cose stavano così («I primi cristiani greci non potevano assolutamente capirli se non c’era qualche cristiano ebreo che glieli spiegava»); queste sono mere supposizioni su cui poi si basa tutto il resto della costruzione delle proprie tesi. È proprio vero che da alcuni indizi verosimili si possono costruire «elefanti». Sì, hai dato «l’idea d’essere un po’ sfrontato».

     ■ Il primo errore è proiettare il rabbinismo talmudico del Medioevo sul NT, come se secoli di storia non avessero portato a sviluppi e mutamenti culturali. Il secondo è trascurare il vero mondo cosmopolita dell’ellenismo del primo secolo, in cui la maggior parte dei Giudei viveva fuori della Palestina e parlava greco. Il terzo è pensare alla Palestina d’allora come all’Israele d’oggi (solo lingua e cultura ebraica) e al giudaismo del primo secolo come a quello del Medioevo. Il quarto è pensare che la distanza culturale d’oggi del mondo occidentale rispetto all’ebraismo fosse la stessa del primo secolo; perciò si afferma che un Greco non avrebbe mai potuto capire alcune cose scritte negli Evangeli nella sua lingua, sebbene esse dovevano essere trasmesse in tutto l’ellenismo d’allora. Quindi gli Evangelisti sono stati dei pessimi scrittori!? Pur volendo fare molte concessioni, tutto ciò appare strano, se non addirittura dubbio. Molte ombre vengono anche gettate sull’ispirazione da parte dello Spirito Santo, che non è stato in grado di trasmettere cose subito allora comprensibili. Pur ammettendo che gli eventi sono successi a degli Ebrei e contengano delle inflessioni ebraiche (molte sono però direttamente tradotte), è mai possibile affermare che i Greci di allora non hanno direttamente capito molte cose scritte negli Evangeli, tanto da abbisognare degli «ermeneuti» ebraici? Qualche serio dubbio rimane per quel mondo ellenista.

 

 

4. {Argentino Quintavalle}

 

Rispondo ai «contrasti» fraterni di Nicola.

 

     ■ 1. Come facciamo a sapere che non sia una leggenda metropolitana? Della serie, prima di credere voglio toccare? Come faccio a sapere che Giulio Cesare è esistito e che non sia una leggenda metropolitana? Devo fare un atto di fede negli storici. Io mi fido dei Giudei, in quanto testimoni scelti da Dio per la trasmissione degli Scritti Sacri (Vecchio e Nuovo Testamento). Il popolo d’Israele ha messo per iscritto nel Talmud che i discepoli non mettevano per iscritto gli insegnamenti dei loro maestri e guarda caso gli Evangeli sono stati scritti parecchi anni dopo gli eventi accaduti. L’onere della prova spetta a chi vuole sostenere il contrario, proprio come spetterebbe a chi volesse sostenere che Giulio Cesare è una leggenda metropolitana. Qualche leggenda gli ebrei l’avranno pure raccontata, ma ci sono molte più leggende a Atene e Roma che a Gerusalemme.

 

     ■ 2. Viene messo in dubbio che la memorizzazione non sia stata in grado di conservare la tradizione? Ho scritto nel mio articolo che questo è duro da digerire per un occidentale, eppure è proprio così; a meno che non si voglia giudicare dall’esterno una società e cultura diversa dalla nostra. Nel Talmud è anche scritto le tecniche di memorizzazione usate, ma non voglio annoiare con queste cose. Porto un solo esempio. Il quarto comandamento proibisce di lavorare in giorno di sabato, ma la Bibbia non specifica cosa doveva essere considerato «lavoro». Ebbene, prima che la tradizione fosse messa per iscritto, ciò che era proibito fare in giorno di sabato è stato conservato oralmente dai tempi di Mosè fino ad almeno il 200 d.C. Contrariamente agli ebrei, la chiesa «gentile/greca» non è riuscita a conservare un manoscritto unico del Nuovo Testamento.

 

     ■ 3. Non ho detto che erano solo gli Esseni ad aver scritto le loro tradizioni, ma che loro, a differenza dei Farisei usavano i rotoli scritti a scopo d’insegnamento. Chi conosce come è nata la Mishnah non direbbe mai che gli insegnamenti dei rabbini circolavano in forma scritta, dato che era severamente proibito dai Farisei. Che il concetto di «Torà orale» è stata un’abile mossa dei rabbini per accreditare i loro insegnamenti, spero che Nicola vada un giorno a dirlo a qualche rabbino con il quale confrontarsi (a Roma non mancano). Io credo che sia una grave offesa per la religione dei Giudei, ma Nicola può star tranquillo, non ha nulla da temere da loro. Se le stesse cose, però, le avesse dette contro qualche Mullah avrebbe dovuto incominciare a preoccuparsi per la propria vita.

 

     ■ 4. Papia affermò che Matteo mise per iscritto le parole di Gesù. Quello che dico io non trova riscontro? E dove trova invece riscontro che Paolo avesse per iscritto le parole di Gesù? È solo una congettura. Chi conosce la cultura ebraica sa che non c’era bisogna d’una forma scritta per avallare l’autorità d’un maestro. L’insistenza poi sulla leggenda metropolitana mi rimanda con la mente a storici pensieri anti-semiti, ma spero di sbagliarmi. Ma gli ebrei ci sono abituati, non è certo la prima volta che vengono accusati di leggende metropolitane. Gli Arabi ancora lo fanno nelle loro scuole.

 

     ■ 5. Come una tradizione orale possa essere migliore d’una scritta l’ho spiegato nell’articolo e non mi voglio ripetere. Quello che invece bisogna chiarire, dato che i cristiani non conoscono ma sono pronti a criticare, è l’opera «medioevale» del Talmud. Gli Ebrei dicono che il Talmud ha avuto le sue radici nella prigionia Babilonese (586 a.C.). Dio aveva punito i Giudei con l’esilio a causa del loro peccato, in particolare per il peccato d’idolatria. Questa prigionia ha avuto un effetto di purificazione sui Giudei. Essi hanno visto da una parte la bassezza dei culti pagani in Babilonia e di conseguenza hanno desiderato fortemente poter ritornare a rendere il culto a Dio in santità a Gerusalemme. Si sono resi conto che avevano sofferto perché avevano abbandonato la Legge di Dio (Torah – i cinque libri di Mosè) ed erano andati dietro ad altri dèi. Essi hanno deciso di non farlo mai più. Il messaggio d’Ezechiele e gli anziani di Giuda che si sono messi sotto l’insegnamento del profeta, hanno avuto un forte impatto sulla comunità giudaica (Ez 8,1; 14,1; 20,1).

     Alcuni credono che questo è stato l’inizio della sinagoga. In ogni modo, è diventato il centro religioso d’una nazione esiliata e senza casa. In questo centro religioso, molti si sono risvegliati per lo studio delle Scritture. Questa domanda ha creato la necessità affinché sempre più uomini qualificati diventassero insegnanti. Questi insegnanti sono stati chiamati «scribi». Il loro duplice compito era quello di copiare le Scritture, che erano poche, e quindi insegnarle e spiegarle. Questa era una cosa importantissima tenuto anche conto del fatto che l’ebraico correva il rischio di diventare una lingua morta. Il debito che dobbiamo loro è menzionato in Rm 3,2. L’apostolo dichiara: «…a loro furono affidati gli oracoli di Dio».

     Secondo Esd 7,6, Esdra stesso era «uno scriba versato nella legge di Mosè». Egli è stato di grande aiuto per ripristinare la Legge come guida della vita. Il Talmud dice: «Quando la Legge è stata dimenticata da Israele, Esdra è venuto da Babilonia e l’ha ristabilita». Nei capp. 8-10 di Nehemia leggiamo del grande ripristino che ha avuto luogo sotto la conduzione d’Esdra. Esdra, come scriba ha avuto un ministero particolare nella spiegazione e nell’insegnamento delle Scritture. «Essi leggevano nel libro della legge di Dio distintamente; e ne davano il senso, per far capire al popolo quel che s’andava leggendo» (Ne 8,8). Esdra ha fatto in modo che la gente capisse le Scritture spiegando il «senso» ivi contenuto. È da questa semplice dichiarazione di Nehemia che abbiamo le origini del Talmud.

     La comprensione della Legge di Dio, la Torah, era vitale per la loro esistenza come nazione. Il Giudeo aveva appreso dalla prigionia babilonese che doveva rimanere separato dal pagano, sia nella vita religiosa che in quella secolare. Ogni aspetto della sua vita doveva ricordargli di rimanere separato e santo. Iniziando con Esdra, e tutti coloro che l’hanno seguito, ogni parola dei saggi è stata memorizzata. Questo insegnamento orale è stato trasmesso ed è diventato la base del Talmud. La spiegazione del testo sacro è per i Giudei autorevole come le Scritture stesse.

     La parola Talmud significa «studio». È formato da due parti. La più vecchia è chiamata Mishnah, che è una compilazione di leggi orali, e la seconda parte, la Gemara, è la registrazione delle discussioni rabbiniche. L’interpretazione della Scrittura che si trova nel Talmud è fondamentalmente considerata come la Torah orale.

 

     ■ 6. È vero che Paolo avvisava di schivare le leggende ebraiche, ma la chiesa deve stare molta attenta a non fare di tutta l’erba un fascio. Sono più le cose da prendere dagli ebrei che quelle da scartare. Se Paolo vivesse oggi ne direbbe tante di più sulle leggende della chiesa, anche su Lutero, il quale scrisse un raccapricciante libro che inneggiava all’uccisione degli ebrei. Ma questo è un altro discorso.

     Nicola cerca prove scritte laddove non le può trovare. Se la trasmissione era orale è normale che non ci siano prove scritte. Laddove poi le prove ci sono (le dichiarazioni del Talmud), esse vengono rifiutate perché considerate inattendibili. Chi non vuol credere è ovvio che non crederà, ma non è compito mio quello di convincere, bensì dello Spirito Santo. 

 

     ■ 7. Eccomi alla «raccolta orale ebraica». Purtroppo mi sto facendo la convinzione che è pericoloso fare discussioni via internet, perché la sola trasmissione scritta delle parole dà origine a dei fraintendimenti e travisamenti; basta cambiare una virgola e si può dare un significato diverso al discorso. Il nostro nemico si serve anche di queste cose per non farci comprendere. Se invece di «raccolta» avessi usato un’altra parola non ci sarebbe stato problema. Comunque ci sono anche delle «raccolte orali» e questo non lo dico solo io ma fior di studiosi. Certo, chi nella propria mente pensa che una raccolta possa essere solo scritta, avrà difficoltà ad accettare una raccolta orale.

     La raccolta è ebraica perché al tempo di Gesù i rabbini insegnavano ai loro discepoli in ebraico. La nazione d’Israele era multilingue, si parlava marginalmente anche aramaico e greco. Anche oggi Israele è una nazione multilingue dove si parla ebraico, arabo e inglese (ed anche qualcos’altro) ma la lingua ufficiale, oggi come ieri è l’ebraico. Ho scritto vari articoli su questo sito, ai quali rimando, per cercare di dimostrare quest’idea. Evidentemente non sono stato abbastanza convincente. Ma non c’è alternativa, la lingua ufficiale della Giudea era l’ebraico. Nicola, nel 2007, dice che Matteo scrisse in greco il suo Evangelo; Papia nel 2° secolo dice che Matteo scrisse le parole del Signore in ebraico. La stessa cosa dice Ireneo, Origene, Eusebio, Epifanio e Girolamo. Se proprio devo scegliere so chi devo scegliere.

 

     ■ 8. Quando fa comodo si cita Eusebio come attendibile e quando non fa comodo come non attendibile? Io non ho mai diffidato d’Eusebio, ma ho solo detto che siccome la Bibbia dice che per sostenere qualcosa ci devono essere due o tre testimoni, uno solo (Eusebio) non basta. Ma per quanto riguarda l’Evangelo ebraico di Matteo, non c’è solo Eusebio, i testimoni sono ben di più e quindi, in mancanza di prove, ho il dovere d’accettare la loro testimonianza. Non ho capito bene se Nicola sostiene un’origine greca degli Evangeli. Ma a parte gli argomenti linguistici e culturali per l’origine semitica, c’è anche l’importante fatto che il greco povero degli Evangeli Sinottici si trova fondamentalmente solo in opere letterarie che sono traduzioni d’originali semitici, come la Septuaginta.

     Molte espressioni dei Vangeli, non sono propriamente in greco povero, ma addirittura senza significato in greco, laddove traducono degli idiomi ebraici. Perché il greco dei Vangeli è così povero? Molto semplicemente, perché gli Evangeli di Matteo, Marco, e Luca non sono veramente greci, ma parole ebraiche trasmesse in greco, o, possiamo dire, «traduzione» greca. Sto dicendo che gli Evangeli Sinottici non sono stati scritti originariamente in greco? A questo devo rispondere «sì» e «no». Gli Evangeli Sinottici così come li abbiamo oggi sono stati scritti originariamente in greco; tuttavia, il testo da cui essi discendono era stato originariamente tradotto da un archetipo ebraico.

 

     ■ 9. La letteratura rabbinica non proviene solo dal Medioevo. La Mishnah è stata messa per iscritto nel secondo secolo, e riporta tradizioni di detti rabbinici di secoli precedenti a Gesù. Il sotto-testo ebraico è dimostrato dalla traduzione greca che è un non-senso. I rabbini del tempo di Gesù non erano affatto agli antipodi, ma per ragioni di spazio quest’argomento non posso trattarlo qui (chi vuole approfondirlo può sempre scrivermi). Senza conoscere la loro cultura e letteratura è impossibile spiegare buona parte dei detti di Gesù. Ma siccome di discorsi ne abbiamo fatti tanti, è ora di fare i fatti. Invito chiunque legga queste mie parole a spiegare pubblicamente il significato di Mt 6,22s: «La lampada del corpo è l’occhio; se dunque l’occhio tuo è puro, tutto il tuo corpo sarà illuminato, ma se l’occhio tuo è viziato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso». [► Due tesi a confronto su Matteo 6,22-23 (1) {Nicola Martella}]

 

     ■ 10. Gli evangelisti non sono stati dei pessimi traduttori. Il fatto è che finché la chiesa era prevalentemente giudaica, c’era sempre qualcuno che sapeva spiegare il significato degli idiomi, ma nel momento in cui la chiesa dei gentili si è separata dalle proprie radici, col tempo ha ovviamente dimenticato il significato d’alcune cose della Scrittura. Per esempio, la chiesa primitiva non avrebbe mai commesso di chiamare Dio con il nome di Jehovah perché avrebbe saputo che quest’era un espediente ebraico per evitare di pronunciare il nome di Dio. Questo errore non è nato tra i Testimoni di Geova, come qualcuno può sembrare, ma all’interno della chiesa Cattolica e Protestante. Soltanto quando si è scoperto l’ebraismo che vi si celava dietro si è rimediato in parte all’errore. Dico in parte perché questo nome è stato abbandonato non per aver capito lo sbaglio, ma solo come reazione ai Testimoni di Geova. Nicola ha detto che le mie sono delle mere supposizioni, ebbene io ripeto l’invito a provare a spiegare, tanto per cominciare, il brano sopra citato, e poi vedremo se sono mere supposizioni. Dato che sono «sfrontato» lo voglio essere fino in fondo, ma per dare gloria a Dio e non alla sapienza umana.

 

     ■ 11. A mio avviso bisognerebbe eliminare i seguenti errori. Il primo errore è di non voler accettare che il Talmud riporta affermazioni rabbiniche dei tempi antecedenti a Cristo. Sarebbe come dire che non possiamo accettare l’attendibilità degli eventi della Genesi perché non sono stati scritti in tempo reale ma soltanto centinaia d’anni dopo. Il secondo errore è quello di non rendersi conto che se anche i Giudei ellenisti della diaspora parlavano greco, ciò non inficia minimamente quanto ho detto. Anche oggi la maggior parte dei Giudei vivono fuori d’Israele, ma nonostante ciò Israele sta lì, si parla ebraico, sono stati istituiti i Cohanim (sacerdoti leviti), sono pronti a ricostruire il tempio, e quel che è più importante, Dio ha fatto rinascere la nazione d’Israele sotto i nostri occhi. Noi da che parte stiamo? Il terzo errore è quello di non aver letto bene i miei articoli su che lingua parlava Gesù, dove spiego che l’ebraico era la lingua ufficiale ma non certo l’unica, dato che la nazione era cosmopolita. Occasionalmente si parlava anche greco, latino e aramaico. Il quarto errore è quello di chiudere gli occhi sulla realtà del giudaismo del primo secolo. Certo, chi rimane all’esterno non può vedere quello che c’è in casa. Il quinto errore è quello di pensare che la chiesa dei gentili possa capire gli scritti ebraici senza Israele, ovvero, la chiesa dei gentili non può sussistere senza Israele (Rm 11). E quindi riaffermo che i greci non avrebbero potuto capire gran parte delle Scritture se non c’era qualche ebreo che gliele spiegava.

 

 

5. {Nicola Martella}

 

Come sempre, quando si discute, bisogna essere grati per gli sforzi che fa il proprio interlocutore per spiegare il proprio punto di vista. Quest’ultimo è da rispettare, anche quando non lo si condivide. Argentino rappresenta uno dei rari casi di un cristiano pronto a confrontarsi e a esporsi per le proprie tesi. Di ciò si può essere grati a Dio.

 

Voglio premettere che considero il Talmud, la cui redazione finale cade nel Medioevo, come un’importante fonte per capire il giudaismo successivo al NT. Nella formazione delle tradizioni, specialmente se orali, ci sono elementi di continuità e discontinuità, dovuti alle alterne vicende storiche e alla nascita e al tramonto di movimenti di pensiero. Al tempo di Gesù c’erano, nel giudaismo certamente delle tradizioni orali (accanto a quelle scritte), ma è difficile dire che risalgono direttamente a Esdra; una lettura dei libri dei Maccabei mostra il travagliato percorso religioso e politico dei Chassidim («pii, devoti») e della frantumazione di questo movimento in vari rivoli ideologici. Quantunque il Talmud sia importante per analizzare il giudaismo nei primi secoli dopo Cristo, è pur sempre l’opera di una parte del giudaismo (quello farisaico-rabbinico) e come tale scrive dal suo punto di vista (non esiste un Talmud sadduceo o essenico); è pur sempre la lettura dei redattori finali medioevali sui secoli precedenti. È l’opera di un giudaismo che subì due grandi catastrofi: quella del 70 d.C. (distruzione del tempio e cacciata da Gerusalemme) e del 136 d.C. (sollevazione sotto il rabbino fariseo Akiba, che annunziò l’avvento del Messia nella persona di Bar-Kochba). Quindi bisogna avere un equilibrio nell’analisi delle sue informazioni. Non è neppure da trascurare che il Talmud rappresenta il punto di vista dottrinale dei vincitori (il movimento farisaico-rabbinico) sui vinti (specialmente il movimento sadduceo, ma anche degli altri).

     Nella trattazione dei punti, seguo la numerazione sovrastante.

 

     ■ 1. Come facciamo a sapere che Giulio Cesare sia esistito veramente e che non sia un personaggio leggendario? Ci sono concrete prove che vengono dalla letteratura e dall’archeologia. Ci sono le sue statue e le sue opere ci sono state tramandate. Dei Giudei il NT sa dire tutto il positivo possibile (p.es. «la salvezza viene dai Giudei» Gv 4,23; «per quanto concerne l’elezione, sono amati per via dei loro padri» Rm 11,28) e tutto il negativo possibile (p.es. «per quanto concerne l’Evangelo, essi sono nemici per via di voi» Rm 11,28; «favole giudaiche» e «comandamenti d’uomini che voltano le spalle alla verità» Tt 1,14; «dicono d’essere Giudei e non lo sono, ma sono una sinagoga di Satana» Ap 2,9; 3,9).

     Quindi ciò che i Giudei dicono nel Talmud, sebbene interessante, non è né certo (contiene anche cose bizzarre, anticristiane e favole) né normativo. Infatti, «fino al dì d’oggi, quando [i Giudei] fanno la lettura dell’antico patto, lo stesso velo rimane, senz’essere rimosso, perché è in Cristo ch’esso è abolito. 15Ma fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo rimane steso sul cuor loro; 16quando però si saranno convertiti al Signore, il velo sarà rimosso» (2 Cor 3,14ss). Quindi, dal punto di vista cristiano non ha credito ciò che essi dicono o scrivono, solo perché sono il popolo storico di Dio. Ciò che conta sono le «prove documentarie» del tempo del NT e non ciò che i rabbini hanno detto nel Medioevo per i tempi intorno al primo secolo.

 

     ■ 2. Non si può dire «eppure è proprio così» a proposito della cosiddetta memorizzazione conservatrice di tradizione. Se non c’è una fonte chiara e incontrovertibile del primo secolo che attesti per quel tempo tale pratica, tutto diventa soggettivo e arbitrario e si basa solo sul consenso. Gli esempi portati rientrano in questa categoria. Poi basta consultare le cose bizzarre della tradizione giudaica: di sabato non si può portare un peso, ma lo si può strusciare muro miro; di sabato non si può cavalcare un animale, ma si può andare sull’acqua: perciò basta mettere un otre su un asino e vai. Queste e altre cose bizzarre e furbesche sarebbero veramente state conservate oralmente dai tempi di Mosè fino al Medioevo, quando furono codificate per iscritto?

 

     ■ 3. Per dire che la «forma scritta […] era severamente proibita dai Farisei» è un dato che rimane non dimostrato con delle prove oggettive provenienti dal primo secolo. Giuseppe Flavio e Filone d’Alessandria hanno scritto. Quindi solo una prova scritta fa testo, il resto sono mere supposizioni e ricamature medioevali che non si può né accertare né smentire; hanno perciò valore probatorio uguale a zero. La «Torà orale» ricorda la stessa manovra della «tradizione orale» (apostolica, ecclesiale) della chiesa romana per accreditare dottrine medioevali.

 

     ■ 4. Quando si argomenta, si fa bene a non mettere in campo l’antisemitismo (insinuandolo al proprio interlocutore), perché ciò risulta infine un’argomentazione di bassa lega. Sta di fatto che Papia parlò dei «discorsi» di Gesù e non dell’Evangelo di Matteo. Paolo si rifece a parole chiare di Gesù, distinguendole dalle proprie; visto che in giro esistevano scritti falsamente attribuiti a Paolo e alla sua squadra (2 Ts 2,2), l’apostolo usava alcuni artifici per essere riconoscibile (2 Ts 3,17). Egli citò brani (letteralmente e/o a senso) che si trovano negli Evangeli (cfr. 1 Cor 11,23ss «ricevuto dal Signore»; Lc 2,19s).

 

     ■ 5. Io conosco il Talmud e il commentario di Strack-Billerbeck al NT (tratto da esso) fin dai miei studi di teologia. Una cosa sono prove documentarie, altra cosa è ciò che dicono gli Ebrei sull’origine del Talmud. In ogni modo, Gesù fu molto critico sulla tradizione degli scribi e Farisei («guai a voi…». Poiché il Messia Gesù, il Fondatore della nostra fede, fu così critico verso la tradizione (orale o scritta che fosse), ciò ci spinge a essere molto guardinghi verso ciò che i Giudei medioevali hanno scritto del loro passato e delle loro tradizioni correnti. «E avete annullata la parola di Dio a motivo della vostra tradizione» (Mt 15,6; Mc 7,13). Quanto al messaggio di Ezechiele e l’impatto che esso avrebbe avuto sulla comunità esilica, ci sono molti elementi che gettano ombre su tali Giudei; Dio condanna la loro falsa profezia, paragonandoli a indovini . Se si legge Ez 8 (che Argentino cita), ci si rende conto della situazione spirituale del popolo e dei capi d’allora. Lo stesso dicasi di Ez 14,2ss; in Ez 20,2ss Dio rifiutò di farsi consultare dagli anziani a causa delle loro iniquità. Quindi niente mitologia eroica dei Giudei durante l’esilio! Zerubabele dovette faticare parecchio per far tornare 50.000 Giudei in patria (solo un resto!). Solo 80 anni dopo si sente parlare dell’arrivo di Esdra e di Nehemia ed essi non trovarono certo «rose e fiori», ma un grande degrado spirituale e morale. Nonostante il ripristino sotto Esdra e Nehemia, quando quest’ultimo tornò col secondo mandato (e così probabilmente Esdra), trovò le cose come prima, anzi peggio (Ne 13,6). Malachia fotografò la situazione successiva parlando di un popolo (gente comune, sacerdoti e anziani) gretto d’animo, ipocrita e fedifrago. Questa non è certo la situazione eroica a cui fanno riferimento i rabbini talmudici.

     Anche in Rm 3,2 mostra ciò che Dio fece mediante i suoi profeti e mediante il suo resto fedele, nonostante la massa del popolo; alcuni versi prima (2,17ss) l’apostolo mostra che cosa pensasse del «Giudeo» generico che predicava bene e razzolava male.

     Quanto a Ne 8,8 le cose non stanno così che da qui si possa trarre l’origine del Talmud. Infatti, le cose stavano effettivamente così che il popolo parlava aramaico a quel tempo, provenendo da Babilonia, e aveva difficoltà a capire il testo ebraico. Esdra e gli altri, dopo aver letto una porzione di testo in ebraico, traducevano il senso in aramaico. Fu così che in seguito nacquero i Targumim, parafrasi aramaiche del testo ebraico.

     Le spiegazioni che si danno sull’origine del Talmud quale «Torà orale» sono accreditamenti posteriori per far derivare la tradizione o da Mosè o da Esdra. Ciò non è né dimostrato né è ingiuntivo. In ogni modo, Gesù non ha riconosciuta l’autorità di una presunta «Torà orale» («Voi avete udito che fu detto agli antichi… ma io vi dico…» Mt 5,21ss), anzi l’ha fortemente contestata e avversata e ha chiamato, tra l’altro, «ipocriti» e «guide cieche» i Farisei, suoi custodi e detentori (Mt 23,16.24).

 

     ■ 6. Le favole, le leggende e i miti sono da trattare come tali qualunque sia la fonte. «Mal comune mezzo gaudio» non è un buon sistema d’analisi. Il Talmud è una fonte medioevale ed è da ritenere, apprezzare e studiare come tale. Non capisco che cosa debba convincere lo Spirito Santo riguardo al Talmud; il suo compito è di condurci in tutta la verità insegnata da Gesù Messia (Gv 16,13), che il Talmud avversa in modo veemente. Molti studiosi cristiani e non hanno scritto tante opere sul Talmud, inquadrandolo per quello che è: un’opera di alcuni Giudei del Medioevo. Anche in seguito sono state scritte opere simili (cfr. Kizzur Schulkan Arur), in cui le diverse anime del giudaismo hanno cercato di conservare la loro propria tradizione.

 

     ■ 7. Sorvolo la «raccolta orale ebraica», che ritengo inesistente, poiché una raccolta si dice di libri, quadri, francobolli, aforismi, ecc., quindi di cose materiali. Non ho mai letto di nessun studioso che abbia mai parlato di «raccolta orale», tanto meno senza una fonte scritta.

     Non solo la Palestina era multilinguistica, ma grandi parti (Decapoli) e città (p.es. Cesarea) parlavano a maggioranza greco, altre aramaico (p.es. Samaria). Nel primo secolo, la Giudea era in effetti come territorio solo una piccola parte rispetto a una Palestina divisa in tanti territori e assoggettati continuamente sotto altri signori. La Giudea d’allora non è proprio paragonabile all’Israele d’oggi.

     Non ritorno su Papia, avendo evidenziato che le «loghia» non erano l’Evangelo. Non è una questione di chi scegliere di seguire (me, te o uno dei «padri» della chiesa), ma di accertare la verità delle cose e di non fare precipitevoli conclusioni.

 

     ■ 8. Eusebio è anche lui da verificare di volta in volta con altri scrittori contemporanei. Sta di fatto che né lui né quelli che egli citò parlarono di prova di un «Evangelo ebraico di Matteo», come Argentino precipitevolmente conclude, poiché ai suoi tempi (e a quelli dei suoi predecessori che egli cita) non c’erano manoscritti di tale Evangelo in ebraico. Accettiamo quindi la testimonianza degli scrittori dei primi secoli per quello che veramente hanno detto.

     Fin quando non si troverà un documento degli Evangeli in ebraico, risalente al 1°-2° secolo, riconoscibile come originale degli attuali Evangeli, da studioso non posso che attestare che essi sono stati scritti in greco per essere capiti in tale lingua. Evito di ripetere le argomentazioni.

     Il «greco povero degli Evangeli Sinottici» era dovuto allo scopo della comprensione per le vaste masse non a un ipotetico originale ebraico. Dove gli Evangelisti introdussero idiomi ebraici incomprensibili ai greci, li tradussero; il resto mi sembra rientrare nella sfera delle speculazioni ritenendo che essi abbiano tradotto idiomi ebraici «addirittura senza significato in greco». Lascio perdere i «salti mortali» fatti per dimostrare ciò. Senza prove documentarie, si resta nella sfera delle ipotesi a cui più ci si appassiona.

 

     ■ 9. Il «sotto-testo ebraico» che sarebbe un non-senso nella traduzione greca è un altro di tali «salti mortali»; molte di tali congetture rimangono in gran parte discutibili e si possono spiegare anche con la cultura ellenistica (allora ad alta osmosi), in cui vivevano la maggior parte dei Giudei. Altre significati (veri o ipotetici) di parole ebraiche si trovano anche in greco.

     Si afferma: «Senza conoscere la loro cultura e letteratura è impossibile spiegare buona parte dei detti di Gesù»; questa è una grave tara mentale e una grande responsabilità, poiché si sottintende che il lettore degli Evangeli non li possa veramente capire, che gli autori sono stati incapaci di comunicare e che lo Spirito Santo abbia fallito nell’ispirare tali testi. Una regola dell’ermeneutica biblica afferma: «La Bibbia spiega la Bibbia». Qui si reclama un altro magistero, non quello di una chiesa, ma quella della cultura e letteratura ebraiche!

     Ritengo che quando Matteo scrisse Mt 6,22s in greco, i Greci potessero intendere ciò che leggevano, di là se il lettore medio oggi lo intenda o meno nella sua completezza. [► Due tesi a confronto su Matteo 6,22-23 (1)] Se così non fosse stato, Matteo avrebbe allora fallito il suo obiettivo di comunicazione (sebbene qui si trattava di un dettaglio, non della realtà piena del messaggio dell’Evangelo). Uno studio degli autori contemporanei agli Evangeli (p.es. apocrifi, psudoepigrafi, Giuseppe Flavio, Filone d’Alessandria) possono aiutare a capire a noi oggi alcuni dettagli; è probabile che nella maggior parte dei casi uno studio comparato della sacra Scrittura stessa sarà sufficiente.

 

     ■ 10. Sorvolo l’argomento, poiché non è abbastanza solido (il nome Jahwè non ricorre neppure una volta nel NT). Neppure i Giudei dei primi secoli cristiani sapevano la corretta pronuncia del nome di Dio, poiché da secoli (fin dalla prigionia babilonese) dicevano Adonaj (i relativamente pochi Giudei in Giudea) e Kyrios (la stragrande maggioranza dei Giudei).

 

     ■ 11. Dovrei sorvolare questo punto, trattandosi di una riformulazione delle mie tesi precedenti nel loro contrario. Poi il discorso sarebbe lungo sia per ciò che si afferma (p.es. confrontare il Talmud con la Genesi come se fossero ambedue ispirati!?), sia per le false attribuzioni storiche (p.es. «dato che la nazione era cosmopolita»: quale nazione? La «macedonia» o il «patchwork» della Palestina del primo secolo non si può certamente chiamare «nazione» in senso moderno), sia per le supposizioni vecchie più di 30-40 anni e mai dimostrate («sono pronti a ricostruire il tempio»), a cui do perlopiù risposta in «Escatologia 2», sia perché si cerca una decisione ideologica («Noi da che parte stiamo?») invece dell’accertamento della verità.

     Nessuno pensa che la «chiesa dei gentili possa capire gli scritti ebraici senza Israele»; per questo leggiamo e studiamo l’AT; altra cosa è supporre in tutto un «sub-testo ebraico» che solo un Ebreo saprebbe spiegare. Sulle affermazioni del Talmud su rabbini precedenti a Gesù, si deve affermare che quest’opera medioevale attribuisce ciò a tali rabbini; prendendone atto, non si può però prendere per oro colato che tali rabbini abbiano detto veramente ciò, ma che il Talmud tanti secoli dopo abbia attribuito loro quanto affermato. Ciò non significa che in ogni caso non sia vero, ma che vi è un dato storico che separa la fonte primaria (il rabbino X) dalla prima fonte scritta (il Talmud). Il vasto fenomeno delle attribuzioni pseudoepigrafiche (libri di contemporanei scritti come fossero usciti dalla penna di un famoso personaggio biblico del passato), che fu alla base di innumerevoli scritti tra il 2° sec. a.C. e il 2° sec. d.C. (libro dei 12 patriarchi; libro di Enoch, apocalisse di Isaia, Baruch, ecc.), deve spingere alla cautela su ciò che diversi secoli dopo qualcuno ha scritto riguardo a ciò che un allora lontano rabbino avrebbe detto.

     Si legge in conclusione: «E quindi riaffermo che i greci non avrebbero potuto capire gran parte delle Scritture se non c’era qualche ebreo che gliele spiegava»; rimane una mera supposizione che non si può né confermare né smentire. Così però non si fa nessun passo avanti nell’accertare la verità. Nelle chiese gentili non erano gli Ebrei (perché tali) a predicare, insegnare e istruire riguardo a ciò che i «poveri Greci» non potevano capire di un presunto «sotto-testo ebraico», ma questo era compito dei conduttori che possedevano certe improrogabili qualità morali (1 Tm 3; Tt 1). Tra le prerogative non c’era uno studio dell’ebraico né un esame, che attestasse una loro «ebraicità», svolto presso una locale sinagoga. Anzi, nelle epistole pastorali (e non solo) la maggior parte delle eresie era vista arrivare proprio dal fronte giudaico e dalla loro «gnosi».

 

A questo punto, per evitare che ci muoviamo a cerchio e che non trattiamo l’argomento, ma ciò che dice l’altro, facciamo bene a mettere un punto a questa discussione. Essa è stata interessante e impegnativa, ma si può ora ritenere esaurita. I due fronti sono chiari, tante cose sono in comune e alcuni punti rimangono distanti. Possiamo anche essere grati a Dio per avere degli interlocutori disposti a discutere e a continuare a farlo, con stima e rispetto, anche dopo aver accertato la distanza di alcune tesi. A questo punto, tutt'al più sarebbe interessante una parola conclusiva dell'altro interlocutore, da cui tutto è partito: Nicola Berretta.

 

 

6. {Nicola Berretta}

 

Avevo appena messo gli ultimi contributi in rete, invocando l'intervento di Nicola Berretta. Subito dopo mi è arrivato il suo attuale contributo. Egli non conosceva ancora gli ultimi due interventi, quando mi ha mandato il suo scritto. Condivido i suoi timori e concordo pienamente con le sue osservazioni. Penso che gli ultimi due contributi rafforzino maggiormente i suoi timori e le sue osservazioni. {Nicola Martella}

 

Ammetto di sentirmi un po’ in difficoltà nel dialogare su argomenti per i quali non ho un’adeguata preparazione. Tanto meno vorrei dare l’impressione d’avere intenzioni polemiche, prima di tutto perché non sono per natura una persona polemica, e poi perché ho piena consapevolezza della mia impreparazione sul tema in questione. Il motivo però che mi spinge a intervenire nuovamente è il rischio che scorgo nelle parole di Argentino di sminuire l’autorità del testo biblico in nostro possesso. Sia chiaro, è del tutto lecito dubitare dell’ispirazione divina della Scrittura, e molti studiosi s’avvicinano a essa negandone ogni contenuto soprannaturale, ma le premesse di fede da cui parte Argentino voglio sperare che siano diverse.

     Io non discuto il fatto che per comprendere le parole di Gesù scritte negli Evangeli sia fondamentale una conoscenza del retroterra culturale ebraico da cui prendono origine quelle affermazioni. Gli esempi riportati da Argentino, riguardanti brani di non facile comprensione se letti al di fuori del contesto culturale ebraico, rientrano certamente tra quei passi della Scrittura per i quali io stesso forse prendo «lucciole per lanterne» e sarebbe perciò davvero bello e utile per me se Argentino trovasse il modo d’estendere questi suoi interventi aprendomi la mente a una maggiore comprensione di quei testi.

     Quello che però non riesco a digerire è il fatto che Argentino affermi che il testo greco del Nuovo Testamento (soprattutto degli Evangeli) sia intrinsecamente inadeguato. È questo il concetto che mi fa un po’ saltare dalla sedia e mi spinge a obiettare. Anche nel suo penultimo intervento, mi sembra che Argentino metta in dubbio che il testo degli Evangeli abbia correttamente preservato le parole di Gesù, tanto che noi oggi avremmo la necessità d’individuare retrospettivamente dal testo greco le parole autentiche che Gesù ha pronunciato, per cogliere da quelle, e non dal testo in sé, il reale messaggio che Gesù avrebbe voluto trasmetterci.

     Voglio tornare alla domanda che avevo posto in precedenza: perché il NT è stato scritto in greco? Argentino, pur argomentando in modo molto interessante il passaggio dalla tradizione orale a quella scritta, non dà, a mio parere, alcuna risposta a questa domanda. Perché gli Evangeli sono stati scritti in greco? Cosa ha impedito a coloro che hanno messo per iscritto le parole di Gesù di farlo usando l’ebraico? In fondo, quasi tutta la Bibbia è scritta in ebraico, che differenza avrebbe fatto l’avere quattro libri in più?

     Quello che io so è che il Signore, riferendosi proprio al come i discepoli avrebbero potuto conservare le parole del loro Maestro, disse loro: «…il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto» (Gv 14,26). Io ho piena fiducia nel fatto che i discepoli abbiano trasmesso correttamente le parole di Gesù, ma questa fiducia non risiede nell’abilità che a quell’epoca essi avevano nel trasmettere oralmente ciò che avevano imparato a memoria, quanto piuttosto nel fatto che lo Spirito Santo ha fatto sì che le parole di Gesù fossero conservate in modo non adulterato. Ciò che mi consola e mi rassicura sono parole come «ogni cosa» e «tutto», per le quali io posso fidarmi dell’accuratezza di ciò che gli apostoli hanno trasmesso. Lo stesso evangelista Giovanni, pur affermando che Gesù fece opere da lui non riportate, dichiara la piena sufficienza di ciò che è scritto affinché possiamo conoscere e credere nel Messia Gesù e avere vita eterna in Lui (Gv 20,30s).

     Ciò che mi domando, allora, è questo: è mai possibile che i discepoli siano stati così sprovveduti dal voler trasmettere parole così importanti, quali quelle del loro Signore e Maestro, usando una lingua inadeguata? È mai possibile poi che addirittura lo Spirito Santo, cioè Dio stesso, abbia trasmesso gli insegnamenti di Gesù nella lingua sbagliata?

     Io ritengo che i primi discepoli abbiano deciso di trasmettere per iscritto le parole di Gesù in greco, e non in ebraico, perché hanno compreso la necessità di trasmettere quegli insegnamenti anche oltre i confini della lingua e della cultura ebraica. Cosa avrebbe impedito loro di scrivere in ebraico? Nulla. Se non la consapevolezza della necessità di far giungere il messaggio dell’Evangelo «fino all’estremità della terra» (Atti 1,8). Se avessero avuto il minimo dubbio che, scrivendo in greco, il messaggio non sarebbe stato compreso nella sua pienezza, non sarebbero stati certo così incoscienti, sprovveduti e superficiali dal trasmettere un messaggio così importante in una lingua intrinsecamente inadeguata. No, io resto convinto che il testo greco sia stato pienamente adeguato allo scopo che essi si prefiggevano, a meno di non considerare gli evangelisti degli incoscienti e lo Spirito Santo uno sprovveduto.

 

 

7. {Argentino Quintavalle}

 

Dopo l’intervento di Nicola Berretta, di cui condivido i timori e con le cui osservazioni concordo pienamente, ho comunicato ad Argentino il mio scrupolo e timore è che chi lo legge, potrebbe pensare che egli non creda alla piena ispirazione e all’inerranza della Scrittura. Sebbene volevo chiudere l’argomento, gli ho chiesto di prendere brevemente posizione solo su questo aspetto. {Nicola Martella}

 

«Beato colui che non condanna sé stesso in quello che approva» (Rm 14,22).

     Preciso due cose:

     ■ 1) «La Bibbia spiega la Bibbia» è una frase a effetto, ma va presa con le molle. La Bibbia non è stata trovata per terra, ma è stata data a un popolo e quindi è un libro di testimonianza e quindi va di pari passo con il testimone. Ma anche se la frase fosse vera, la si può applicare solo con i testi originali e non con le traduzioni.

     ■ 2) I lettori stiano tranquilli, non è l’ispirazione del testo biblico che viene messa in discussione, ma è l’interpretazione, parte della quale è persa se non c’è il testimone. Dice bene Nicola che quando gli Evangeli furono scritti venivano compresi senza problemi, ma quest’era possibile perché c’erano i testimoni. Col tempo però è subentrata la presunzione di non averne più bisogno.

 

Concordo che una volta chiarite le tesi a confronto non serve ancora discutere, però qualche fatto lo voglio presentare e nello stesso tempo accontento la richiesta di Nicola Berretta riguardo alle lucciole e lanterne che teme di prendere, analizzando i versetti da me proposti. Stia tranquillo, comunque, che non è l’unico a prendere le lucciole. [...]

 

Poiché Argentino ha aperto subito un altro filone di discussione, quello riguardo a Mt 6,22s, mentre qui volevamo chiudere il presente tema, esso è stato stralciato e presentato all'interno di un articolo come tesi, a cui do risposta. Invitiamo quindi il lettore a leggere qui: ► Matteo 6,22-23 fra supposizioni e realtà. {Nicola Martella}

 

 

8. {Tonino Mele}

 

Ho chiesto a Tonino Mele di scrivere sul tema una parola conclusiva (caso mai non arrivasse ancora una di Nicola Berretta). Mi sembra che ci sia ben riuscito. Tralasciamo qui di seguito la questione aramaico / ebraico quale entroterra linguistico degli autori del NT, su cui c’è disparità di opinioni. Qui si ritiene concluso per ora questo tema così interessante, lungo e impegnativo. {Nicola Martella}

 

Cari Argentino e Nicola, è molto interessante e istruttivo vedervi dibattere su un tema così complesso. Anch’io, come Nicola Berretta mi sento «inadeguato» ad affrontare tale tema, almeno a tirarlo su come voi avete fatto e se ora prendo la parola, è semplicemente per fare una riflessione, sulla scorta dei vostri ragionamenti e di qualche altro elemento emerso da una mia breve ricerca sull’argomento.

     Anzitutto vorrei spezzare una lancia a proposito della «sfrontatezza» d’Argentino. Io credo che, per certi versi essa vada vista come un osare, un fare affermazioni controcorrente, un fare ipotesi che siano di stimolo alla ricerca, anche se all’inizio non hanno l’avvallo di nessuno e magari, invece di scoprire le Indie, si scopre l’America. In effetti, è anche grazie a tale «sfrontatezza» che c’è stato questo bel confronto e abbiamo preso maggior coscienza di come la lingua e la forma mentis originarie aiutino a capire meglio certi passaggi della Scrittura. È vero che in generale, le tesi d’Argentino sono oggi disattese dalla maggioranza degli studiosi, però è interessante vedere quanti studiosi sono dalla sua parte, ad esempio sull’esistenza d’un originale Evangelo aramaico di Matteo. Quella che segue è una lista fatta da Salvatore Capo ed è tratta dal sito mednat.org: «P. Vannutelli, 1933; P. Martinetti, 1964; P. Gaechter, 1964; J. A. T. Robinson, 1976; R. H. Gundry, 1983; J. Carmignac, 1985; S. Ben Chorin 1985; R. A. Pritz, 1988; R. T. France, 1989; A. J. Saldarini, 1994; M.-E. Boismard, 1994; H.-J. Schulz, 1996; P. Lapide, 1996; J. M. Garcìa, 2005.». Questa lista la dice lunga su che tipo di «sfrontatezza» stiamo parlando.

     Ciò premesso, bisogna tuttavia dire che, allo stato attuale delle cose, per decidere correttamente su tutta la questione, bisogna tracciare una chiara linea di demarcazione tra ciò che è provato e ciò che è ipotetico. Ed è qui che quel grado di «sfrontatezza» di cui è fatta la miglior ipotesi, non deve trasformarsi in cocciutaggine, che dà per certe «prove» puramente indiziarie. L’ipotesi è utile alla verità finché resta un punto d’avvio che stimola la ricerca che porta alla verità. Quando viene sacralizzata quale punto d’arrivo e viene scambiata per la verità, non solo abbiamo smarrito la verità ma forse, anche la via per arrivarci. È in base a questa linea di demarcazione che oggi, la maggioranza degli studiosi non prende molto in considerazione l’ipotesi d’un testo originale aramaico degli Evangeli. Già nel 1950 F.F. Bruce scriveva: «Alcuni studiosi hanno ipotizzato che i nostri Evangeli siano stati effettivamente scritti in aramaico e poi tradotti in greco. Tuttavia, le prove sono contro una tale ipotesi… In opere che riportano le espressioni di gente che parlava l’aramaico, e alcune scritte da autori la cui lingua materna era l’aramaico, ci aspetteremmo tracce d’aramaismi… Questo è tutto quanto possiamo dire in base alle espressioni usate da Gesù e da altri che parlavano aramaico. Ma non possiamo accettare in modo acritico teorie che presentano i nostri Evangeli come traduzioni d’originali aramaici» [F.F.Bruce, Rotoli e Pergamene (Piemme, Casale Monferrato 1994), pp. 69.54]. Dopo mezzo secolo le cose, sostanzialmente non sono cambiate: l’ipotesi è rimasta una serie d’indizi senza la prova fondamentale.

     Da un punto di vista teologico bisogna poi rilevare che questa teoria può assumere dei contorni molto rischiosi: e qui condivido anch’io in pieno i timori di Nicola Berretta. Il «Sola Scrittura» rischia davvero di non essere più «sola». Quali sono i testi originali: quelli scritti o quelli tradotti? Quali sono gli «originali» vincolanti per noi: quelli aramaici [o ebraici, n.d.r.] o quelli greci? Quelli più vicini allo scrivente aramaico [o ebraico, n.d.r.] o al ricevente greco? Se veramente esiste una tale spaccatura tra l’uno e l’altro, la domanda è molto pertinente. Ma la cosa che più mi fa sobbalzare è il grado di soggettivismo e d’arbitrarietà a cui può condurre questa sorta di «decodificazione aramaica [o ebraica, n.d.r.] del testo greco». Cito di seguito da una recensione d’Antonio Socci al libro di Josè Miguel Garcia, La vita di Gesù nel testo aramaico dei Vangeli (Rizzoli, 2005), pubblicata su Panorama online. Riporto alcune delle conclusioni a cui è giunto Josè Miguel Garcia «leggendo» questo presunto «testo aramaico dei vangeli».

     ■ «Si sono stampate montagne di libri, ipotizzando altri figli di Maria o di Giuseppe o l’esistenza di “cugini”. Tutto sbagliato. Il testo aramaico dei Vangeli mostra che “fratelli” sono chiamati tutti gli apostoli e in genere i discepoli di Gesù. E il passaggio in cui si dice che Gesù è sommerso dalla folla, da ore, e “i suoi congiunti” andarono a prenderlo perché lo ritenevano “fuori di sé”, in realtà va letto così: i suoi amici gli portarono del cibo perché era stremato dalla fatica».

     ■ «…alle nozze di Cana: egli non rivolge a sua madre parole dure (come parrebbe dalla traduzione italiana) per la sua richiesta di soccorrere quei poveretti, ma le dice una frase da cui traspare un’immensa venerazione: “non per me, bensì per te, donna, è giunta opportuna la mia ora”».

     ■ «Un altro passo contestato, soprattutto dai protestanti, è l’investitura di Pietro a Cesarea. Sotto il greco c’è un testo aramaico davvero clamoroso. L’attuale traduzione italiana recita: “e impose loro severamente di non dire questo di lui a nessuno” (Mc 8,30). Ma l’originale recita: “E (Gesù) impose loro severamente di vedere sempre in lui [in Pietro, ndr] il Figlio dell’uomo”».

     ■ «…impressionante anche il momento in cui Gesù lava i piedi ai suoi amici, investendoli del potere sacerdotale: egli manifesta loro “la sua contentezza, poiché, grazie a loro, potrà morire nuovamente, bere di nuovo il calice che bevette sul calvario”».

     ■ «A proposito della sindone. I testi tradotti dicono che, dalla croce, “presero il corpo di Gesù e lo avvolsero in bende” (Gv 19,40), ma l’originale aramaico recita: “presero il corpo di Gesù e lo avvolsero in una doppia tela di lino”. Che è la perfetta descrizione, rinvenuta oggi, anno 2005, della Sindone di Torino».

 

Che dire? Che anche la chiesa cattolica ha trovato la sua «Scrittura» con la quale legittimare le sue dottrine? Visto che il «Sola Scrittura» finora conosciuto era troppo ingombrante per essa, ora si voglia rifare con un «Sola Scrittura» tutto aramaico [o ebraico, N.d.r.]?

     A parte gli scherzi, credo che, e concludo, pur salvaguardando la forma mentis aramaica [o ebraica, N.d.r.] che sta dietro a diverse espressioni e parole greche del Nuovo Testamento (e qui credo che Argentino abbia ancora da insegnarci), sono quelle parole greche che, fino a prova contraria, rimangono il «Sola Scrittura» sulla base del quale verificare ogni altra affermazione su Dio, la fede e la condotta. Del resto già si distingue tra greco classico e greco «del Nuovo Testamento», il quale è fortemente legato alla Koiné e al retroterra ebraico e aramaico dei suoi autori. Postulare testi di transizione, oltre che non avere prove documentarie rischia di creare più problemi di quanti ne risolva.

 

 

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► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_BB/T1-Traduzioni_ebraicita_MT_AT.htm

14-06-2007; Aggiornamento: 30-06-2010

 

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