Per l’approfondimento cfr. in Nicola
Martella,
Manuale Teologico dell’AT (Punto°A°Croce, Roma 2002), l’articolo «Lingua – mentalità – approccio al
mondo», pp. 216s; cfr. anche «Globalità», p. 180. |
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1.
{Nicola Berretta} ▲
È sempre un piacere leggere articoli come
«Traduzioni, lingue bibliche e mentalità ebraica» che aiutano ad approfondire
esegeticamente il testo biblico. La loro lettura mi mette impietosamente di
fronte alle mie lacune, ma allo stesso tempo mi stimola a scoprire quanto sia
ricca e profonda la nostra Scrittura.
Vorrei però esprimere
alcune perplessità, o, se non altro, invitare Argentino a chiarirmi le cose su
una questione. Se da una parte comprendo la necessità della conoscenza della
lingua e della cultura ebraica per la corretta comprensione dell’Antico
Testamento, la cosa mi convince meno quando si parla del Nuovo. Comprendo
benissimo che gli autori dei libri del NT, pur scrivendo in lingua greca, erano
comunque legati alle loro radici culturali ebraiche, tuttavia mi domando: perché
scrissero in greco e non in ebraico? Evidentemente perché il loro intento era
quello di farsi comprendere anche da chi Ebreo non era. Se dunque hanno deciso
d’utilizzare certi termini greci, per tradurre concetti ebraici, evidentemente
ritenevano quei termini adatti a trasmettere il loro messaggio anche a chi non
era di cultura ebraica. Potrei anche aggiungere che, se è vero (come è vero!)
che gli autori dei libri del NT sono stati ispirati dallo Spirito Santo,
evidentemente i termini greci che hanno utilizzato erano quelli che più
s’adattavano a trasmettere il messaggio voluto. Trovo pertanto quantomeno
azzardato affermare, come fa Argentino, che «… Le cose non sono migliori nel
Nuovo Testamento perché la lingua greca si trova a esprimere dei concetti
ebraici, e non sempre ci riesce».
Ciò che voglio dire è
che, una cosa è parlare della versione dei LXX, che è a tutti gli effetti una
traduzione del testo ispirato, e per la quale si può dunque opinare del corretto
utilizzo dei termini (esattamente come facciamo per le traduzioni italiane),
altra cosa è parlare di libri ispirati scritti direttamente in lingua greca, e
quindi ispirati all’origine nei termini utilizzati. Tutto questo ha un senso,
ovviamente, a meno che non si ritenga che l’originale sia stato scritto in
ebraico e i manoscritti più antichi a nostra disposizione siano già traduzioni
postume (come ad esempio alcuni suggeriscono per il Vangelo di Matteo), ma non
mi sembra che Argentino abbia queste convinzioni.
Insomma, per quanto
comprenda che possa essere importante conoscere la lingua e la cultura ebraica
anche per il NT, ho un po’ di difficoltà nell’accettare che «…Solo quando
iniziamo a riscoprire l’ebraico che si cela dietro il greco del Nuovo Testamento
(specialmente degli Evangeli) ci sarà possibile capire completamente le parole
di Gesù», come affermato da Argentino. Ritengo quest’affermazione quantomeno
opinabile e per certi versi addirittura rischiosa, in quanto suggerisce
l’esistenza di verità che vanno oltre la parola scritta che lo Spirito Santo ha
ispirato. Una pratica tristemente nota in tante sette gnosticheggianti, e che
Argentino è certamente lungi dal voler appoggiare.
2.
{Argentino Quintavalle} ▲
Perché il NT è stato
scritto in greco? Per trovare una risposta bisogna risalire alle origini. Certo,
gli autori del NT sono stati ispirati dallo Spirito Santo, ma perché poi lo
Spirito Santo ha permesso che circolassero quasi 5.000 manoscritti del NT,
diversamente da come ha fatto per l’AT? Non mi è facile mettere per iscritto
tutto quello che ho in mente per poter rispondere a Nicola Berretta e a Nicola
Martella. Dovrei parlare di come sono state preservate le parole di Gesù. Ma
anche per questo è essenziale conoscere la cultura ebraica.
Vengo al
punto e spero d’essere chiaro, poiché l’argomento è complesso. Come hanno fatto
gli insegnamenti di Gesù a diventare Evangeli? Quanto affidabili sono questi
nell’aver preservato le parole di Gesù? Perché molti detti di Gesù sono
riportati in un ordine diverso negli Evangeli? Possiamo capire come gli Evangeli
sono stati scritti, guardando l’inusuale metodo utilizzato dai rabbini del primo
secolo nel preservare con precisione, e nel tempo, i loro detti.
Innanzitutto
non era concesso a un discepolo di trasmettere per iscritto le parole del suo
maestro. Una caratteristica univoca del metodo di studio rabbinico-farisaico era
l’uso della memorizzazione. In genere, quando gli studenti e gli insegnanti
s’impegnavano nello studio, essi facevano ricorso ai rotoli delle Scritture. Gli
Esseni, ad esempio, hanno preservato il loro sapere in forma scritta e hanno
fatto uso di rotoli per il loro studio. I Farisei, invece, non portavano rotoli
nelle classi di studio. Essi memorizzavano le Scritture e le tradizioni orali.
Il materiale per la discussione, per i rabbini farisei e gli studenti, proveniva
dalla loro miniera d’erudizione mentale. Gesù ha usato lo stesso metodo. Nel
primo secolo d.C. la letteratura farisaica veniva trasmessa oralmente. Un
insegnamento rabbinico era considerato «Torah Orale», e la sua trasmissione
scritta era severamente vietata. Verso l’anno 200, per descrivere questa
letteratura è stata utilizzata l’espressione «Torah Orale», ed era considerata
interpretazione autorevole della Torah scritta. In quest’ambiente culturale, è
probabile che i primi discepoli di Gesù non avrebbero osato mettere per iscritto
il suo insegnamento, ma lo avrebbero trasmesso oralmente (infatti così è stato –
gli insegnamenti di Gesù non sono stati messi per iscritto subito). Può sembrare
strano ma quest’era il sistema migliore per preservarlo con precisione per le
generazioni future.
L’accuratezza della
trasmissione orale
Abbiamo la
tendenza a considerare il materiale trasmesso oralmente come meno fidato di
quello trasmesso per iscritto. Questo è perché abbiamo familiarità solo con quei
miti e leggende che vengono modificate a ogni nuovo racconto. La cosiddetta
«Ipotesi Orale», accettata purtroppo da molti, si basava sulla supposizione che
le storie degli Evangeli, vaghe memorie di storie originali semitiche, siano uno
sviluppo orale interno alla chiesa primitiva di lingua greca. Veniva considerato
come certo che queste storie erano abbellite dagli insegnanti e dai predicatori,
e che diventavano sempre più grandi ogni volta che venivano raccontate, per poi
essere messe per iscritto in greco decenni dopo la morte di Gesù.
La
trasmissione orale nell’ambiente rabbinico della società ebraica, non somigliava
affatto a tutto questo. La trasmissione orale, per i rabbini e per i loro
discepoli, s’avvicinata al 100% di precisione, la quale era di gran lunga
maggiore di quella che si poteva ottenere attraverso la trasmissione scritta.
Quando la letteratura è trasmessa in documenti copiati a mano, inevitabilmente
vengono commessi degli errori, noti come «errori di scrittura». I rabbini erano
consapevoli di questo pericolo. Essi sapevano che se la loro letteratura fosse
stata trasmessa per iscritto, avrebbe perso il suo alto grado di precisione.
Quindi essi proibivano la trasmissione scritta. Il divieto di mettere per
iscritto il loro insegnamento orale si trova nel Talmud Babilonese (trattato
Gittin 60b).
Per esempio,
consideriamo questa versione di Mt 6,10: «Venga il tuo regno; sia fatta la
tua volontà anche in terra com’è fatta nel cielo…». Siccome la maggior parte
dei cristiani conoscono questa frase a memoria, il più piccolo errore viene
subito notato. Allo stesso modo, quando un detto viene ripetuto oralmente in una
comunità dove è conosciuto quasi da tutti i membri, essi ne assicurano la
precisione. Ma se un detto è preservato e trasmesso solo nella scrittura,
l’auto-correzione è assente. Qualsiasi errore sarebbe perpetuato senza volerlo.
È duro per
noi apprezzare l’affidabilità e la precisione di trasmissione orale
dell’ambiente rabbinico del primo secolo. Al discepolo non era consentito di
modificare neanche una parola della tradizione che aveva ricevuto dal suo
maestro, quando lo citava ad altri [“Una persona deve sempre trasmettere una
tradizione con le stesse parole nelle quali l’ha ricevuta dal suo maestro»
(Mishnah Eduyot 1,3)]. Al discepolo veniva chiesto anche di citare le sue fonti.
Molti detti rabbinici sono introdotti così, «Rabbi X a nome di Rabbi Y», in
altre parole, «Rabbi X trasmette una tradizione che egli ha ricevuto da Rabbi
Y». Per noi è anche duro riuscire ad apprezzare la quantità di materiale
trasmesso oralmente che i discepoli d’un rabbino di quei tempi avevano affidato
alla memoria. Essi conoscevano una quantità enorme di letteratura orale, tra cui
le Scritture, nella stessa maniera in cui i Cristiani conoscono la «Preghiera
del Padre nostro».
Seguendo questa linea di pensiero, si può
ragionevolmente credere che la prima raccolta scritta delle parole e dei fatti
di Gesù sia stata fatta in greco, come traduzione d’una raccolta orale ebraica
degli atti e degli insegnamenti di Gesù, memorizzati dai suoi primi discepoli e
da loro trasmessi con un elevato grado di precisione. Forse un seguace bilingue
della «Via» ha compilato questa raccolta dopo aver ascoltato giorno dopo giorno
in ebraico le predicazioni e le lezioni dei Dodici, oppure poteva essere qualche
discepolo che aveva seguito Gesù sin dall’inizio del suo ministero pubblico
(Atti 1,21s). Man mano che i Dodici predicavano e insegnavano, egli ha sparso
qua e là nelle sue presentazioni molti dei detti e delle opere di Gesù. Forse
l’ascoltatore ha preso nota in ebraico e più tardi ha fatto la traduzione in
greco, oppure ha tradotto direttamente in greco quello che aveva ascoltato.
Questo
ascoltatore anonimo e bilingue potrebbe essere stato Giovanni Marco. Papia,
vescovo d’Ierapoli in Asia Minore durante la metà del secondo secolo, scrisse:
«Marco, che era l’interprete di Pietro, ha messo accuratamente per iscritto
quello che aveva memorizzato. Egli, tuttavia, non ha riferito i detti e le opere
del Signore nel loro ordine esatto, poiché non è stato lui ad ascoltarlo
direttamente e né l’ha accompagnato durante il suo ministero, ma è stato Pietro
che ha avuto questo privilegio. Pietro ha adattato i suoi insegnamenti alle
necessità dei suoi ascoltatori, senza preoccuparsi di collegare insieme i detti
del Signore. Così, Marco non ha sbagliato a scrivere certe cose così come le ha
ricordate. Egli si è preoccupato solo d’una cosa: non omettere niente di quello
che aveva sentito e non scrivere niente di falso» [Eusebio, Storia
Ecclesiastica III,39,15]. Papia ha anche scritto che «Matteo mise per
iscritto le parole del Signore nella lingua ebraica, e altri le hanno tradotte,
ognuno come meglio ha potuto» (Storia Ecclesiatica III,39,16). La
tradizione di Papia su Matteo, conferma che ci fosse una fonte ebraica scritta
degli Evangeli.
È difficile stabilire
quanta fede possiamo riporre nelle tradizioni di Papia. Comunque, secondo Papia,
Marco era il traduttore di Pietro e ha messo per iscritto l’insegnamento di
Pietro così come lo ha ricordato. Il racconto di Marco non era cronologicamente
ordinato perché l’insegnamento di Pietro non era una narrazione continua (il
documento al quale Papia rimanda non è necessariamente identico con l’Evangelo
canonico di Marco).
Differenze nell’ordine
dei detti di Gesù
I Dodici,
insieme agli altri discepoli che avevano studiato con Gesù, conoscevano tutta la
sua storia, sin nei minimi particolari; tuttavia, quando essi hanno insegnato o
predicato non l’hanno presentata in maniera cronologica. Piuttosto, essi hanno
incorporato i racconti delle opere di Gesù e i suoi insegnamenti all’interno
delle proprie esposizioni. Ad esempio, un apostolo può avere incorporato in un
suo sermone solo una di due parabole simili con cui Gesù aveva originariamente
concluso un insegnamento, poiché solo una delle parabole s’adattava al tema del
sermone. Sebbene le storie della biografia ebraica di Gesù siano state predicate
e insegnate oralmente in maniera frammentaria, finché venivano trasmesse
oralmente erano preservate con precisione.
Matteo, Marco
e Luca, sebbene essi contengano molte storie identiche, non sempre presentano le
storie nello stesso ordine. Ad esempio, ci sono quarantasette storie che si
trovano solo in Matteo e Luca, tuttavia i due autori non sempre concordano dove
mettere queste storie. Gli autori erano consapevoli che il loro materiale non
era sempre in ordine cronologico. Luca dichiara che la ragione del suo scritto
era quella di dare a Teofilo un racconto ordinato. È significativo che siccome
Teofilo era greco e quindi il suo ideale di cultura era l’ordine, aveva la
necessità d’un «racconto ordinato» della vita di Gesù.
Molto
probabilmente, i primi documenti che contenevano gli insegnamenti di Gesù
avevano una grande preoccupazione per la precisione delle citazioni, ma poco
interesse a preservare i detti o le storie all’interno del loro contesto
originale. Arrangiare la storia sacra senza un interesse per il suo ordine
cronologico, sebbene vada contro la nostra sensibilità moderna, e a quella dei
lettori non ebraici della Bibbia, era una cosa comune nell’antico giudaismo.
Legare una storia o un detto a un verso della Scrittura era più importante che
preservare il vero contesto storico. Per esempio, nei libri d’Isaia, Geremia e
Ezechiele, gli eventi della vita di quei profeti non sono registrati in ordine
cronologico.
Il modo di
fare d’un antico maestro e dei suoi discepoli può spiegare perché molte delle
opere e dei detti di Gesù negli Evangeli sono stati separati dai loro contesti
originali. Il primo scritto della «Vita di Gesù» può essere stato un documento
greco composto da un discepolo bilingue, il cui racconto era basato
sull’insegnamento orale trasmesso in ebraico da uno o più dei dodici apostoli.
Spiegare l’origine delle differenze nell’ordine delle storie di Matteo, Marco e
Luca è una delle sfide più grandi degli studiosi del Nuovo Testamento.
Esempi
Per quanto
riguarda la mia affermazione: «La lingua greca si trova a esprimere dei concetti
ebraici e non sempre ci riesce» la confermo, e porto degli esempi da dove
s’evince che il testo greco degli Evangeli riporta letteralmente un sotto-testo
ebraico. Ma nello stesso tempo, laddove è andato perso l’originale significato
ebraico della frase, alcuni brani sono di difficile comprensione, altri sono
addirittura impossibili da capire se non si conosce la letteratura rabbinica:
■
Come spiegare il gioco di parole: Pietro-pietra (Petros-petra) di Mt 16,18? Gesù
stava forse parlando in greco con Pietro?
■
Cosa significa veramente la parola «volpe» con cui Gesù chiama Erode in Luca
13,32?
■
Qual è il profondo significato di Luca 23,31: «Perché, se tali cose si fanno
al legno verde, che cosa sarà fatto al legno secco»?
■
Cosa significa Mt 11,12: «E dai giorni di Giovanni Battista fino a ora, il
regno dei cieli subisce violenza e i violenti lo rapiscono»? Questa è
impossibile da capire per un «greco».
■
Un’altra frase impossibile da capire per un «greco» è: «Io sono venuto a
gettare fuoco sulla terra e quanto desidero che fosse già acceso. Ora io ho un
battesimo di cui devo essere battezzato, e come sono angustiato finché non sia
compiuto» (Luca 12,49,50).
■
Qual è il vero significato di Mt 16,19: «Tutto ciò che avrai legato sulla
terra, sarà legato nei cieli, e tutto ciò che avrai sciolto sulla terra sarà
sciolto nei cieli».
■
Cosa significa Mt 5,20: «Se la vostra giustizia non supera quella degli
scribi e dei farisei, voi non entrerete affatto nel regno dei cieli».
■
Cosa significa Mt 5,17s: «Non pensate che io sia venuto ad abrogare la legge
o i profeti; io non sono venuto per abrogare, ma per portare a compimento
[adempiere]. Perché in verità vi dico: Finché il cielo e la terra non
passeranno, neppure uno iota o un solo apice della legge passerà. prima che
tutto sia adempiuto».
■
Cosa significa veramente Mt 6,22s: «La lampada del corpo è l’occhio; se
dunque l’occhio tuo è puro, tutto il tuo corpo sarà illuminato, ma se l’occhio
tuo è viziato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso». [►
Due tesi a confronto su Matteo 6,22-23 (1) {Nicola Martella}]
■
Cosa significa «salato con il fuoco» (Mc 9,49)?
Potrei
continuare, ma mi fermo qui. A leggere le interpretazioni che comunemente si
danno a questi versi, molti Ebrei si metterebbero a ridere. Perché? Perché i
«greci» si sforzano di dare un significato a delle parole
che traducono letteralmente degli idiomi ebraici incomprensibili se non si
conosce la cultura ebraica.
Spero che ora
ci sia qualche difficoltà in meno nell’accettare che «…Solo quando iniziamo a
riscoprire l’ebraico che si cela dietro il greco del Nuovo Testamento
(specialmente degli Evangeli) ci sarà possibile capire completamente le parole
di Gesù». Se qualcuno pensa che sia ancora opinabile provi a interpretare i
versi che ho citato sopra e poi ne riparliamo. I primi cristiani greci non
potevano assolutamente capirli se non c’era qualche cristiano ebreo che glieli
spiegava. Mi scuso se posso dare l’idea d’essere un po’ sfrontato, ma queste
cose sono troppo serie per essere taciute. Per troppo tempo la chiesa ha
dimenticato le sue radici, è ora che le riscopra.
3. {Nicola Martella} ▲
In ciò che dice Argentino
ci sono certamente tanti spunti di riflessione e tante cose vere e interessanti.
Qui di seguito faccio alcune obiezioni e osservazioni sul suo contributo,
seguendo il flusso del suo testo. Il contrasto serve per verificare le sue
asserzioni e per alimentare la riflessione e la discussione.
■
Come facciamo a sapere che non fosse concesso, ai tempi di Gesù, a un discepolo
di trasmettere per iscritto gli insegnamenti dei loro rabbini, se non abbiamo
una fonte scritta d’allora che lo attesti? Non potrebbe essere una leggenda
metropolitana accreditata nel Medioevo?
■
Ci sarà stata anche la memorizzazione dei contenuti del sapere, ma è discutibile
che essa da sola sia stata in grado di preservare la tradizione.
■
Non erano solo gli Esseni ad aver scritto le loro tradizioni. Tra i due
testamenti e oltre abbiamo una ricca fioritura di scritti di pressoché tutti i
movimenti giudaici, compresi i Farisei e gli Zeloti. Gli scritti trovati presso
Qumran provenivano dalla biblioteca di Gerusalemme e contenevano, oltre al
Codice di Damasco e ad altri scritti essenici, varia letteratura apocrifa e
pseudoepigrafa. I Targumim aramaici contengono note e commenti dei rabbini. La
vasta letteratura nata dal 2° sec. a.C. al 2° sec. d.C. smentisce la leggenda
della trasmissione prettamente orale del sapere. Il concetto «Torà orale» è
stata un’abile manovra dei rabbini per accreditare i loro insegnamenti come
«mosaici».
■
Anche l’asserzione che «i primi discepoli di Gesù non avrebbero osato mettere
per iscritto il suo insegnamento» è un assunto che non trova riscontri (su che
cosa dobbiamo basarci per appurare la verità?). Il citato Papia affermò qualcosa
di diverso, sebbene egli parlasse delle «loghia» (discorsi) e non dell’Evangelo
di Matteo. Quando Paolo citava il Signore Gesù come fonte d’autorità, ciò
presumeva che egli avesse le sue parole per iscritto; altrimenti non c’era freno
all’arbitrio di chi metteva in bocca a Gesù parole che egli non aveva mai
pronunciato, come avvenne in seguito con gli evangeli pseudoepigrafi di stampo
gnostico, che si appellavano alla tradizione orale. Paolo stesso fu un fervido
scrittore e ingiunse alle chiese di diffondere i suoi scritti (Col 4,16;
l’epistola agli Efesini era in origine una circolare). Il modo come Paolo teneva
ai suoi libri e alle sue pergamene (2 Tm 4,13), mostra che quella della
trasmissione orale — pur avendo un certo fondo di verità come fenomeno parallelo
— è diventata una delle leggende metropolitane più accreditate. Tra gli eventi
cristologici e la stesura scritta di essi non è passato così molto tempo come si
potrebbe credere. Quando Luca scrisse, molti avevano «intrapreso ad ordinare una
narrazione dei fatti» (Lc 1,1). Pietro stesso si conta tra i testimoni oculari
(2 Pt 1,16). Quando Paolo scrisse ai Corinzi dei «cinquecento fratelli», che
tutti in una volta videro il Risorto, affermò che la maggior parte di loro
«rimane ancora in vita» (1 Cor 15,6). Egli si appellò a un ordine del Signore in
questioni specifiche al matrimonio (1 Cor 7,10), mentre in altre non poté farlo
(vv. 12.25); ciò presume una fonte scritta verificabile da tutti.
■
Non si capisce come una trasmissione orale possa essere migliore di una scritta.
Gli errori della trasmissione orale sono statisticamente maggiori degli errori
di trascrizione! Il Talmud non può essere un’autorità per i tempi di Gesù, visto
che è un’opera medioevale. Quanto a miti, leggende, favole e gnosi speculativa
presenti nel giudaismo (anche rabbinico), basta leggere gli avvertimenti di
Paolo ai suoi collaboratori, quando affermò di schivarle! (1 Tm 4,7; 6,20; Tt
3,9).
È
incredibile tale eroicizzazione del rabbinismo dalla sue fonti medioevali! Non
convince che il controllo della trasmissione orale sarebbe maggiore rispetto a
quella per iscritto. Non essendoci fonte scritta contemporanea al primo secolo
che attesti «l’affidabilità e la precisione di trasmissione orale dell’ambiente
rabbinico del primo secolo», non si può per nulla affermare ciò. Tutto ciò su
cui possiamo basare il sapere dell’antichità sono le fonti scritte contemporanee
ai fatti, cioè a breve e ragionevole distanza da essi, il resto è mitologia
eroica di una presunta trasmissione orale corretta e impeccabile. Quanto afferma
il Talmud medioevale non fa testo, poiché nessuno può verificare che un «Rabbi
X» abbia proprio detto quanto ha affermato in seguito un «Rabbi Y», sentendolo
dire da un «Rabbi W». Non si può paragonare la preghiera del «Padre nostro» o un
qualsiasi testo liturgico a molteplici interpretazioni di leggi, brani biblici e
tradizioni casuistiche.
■
Come si può parlare di «raccolta orale ebraica», visto che una «raccolta»
presume qualcosa di concreto? Se è una raccolta, non è orale, e viceversa. A ciò
si aggiunga che si parla di «raccolta orale ebraica», perché si presume
che nella Palestina si parlasse esclusivamente ebraico. Ma le cose non stavano
così. Nella Decapoli e in molte città della Palestina si parlava greco; a
Gerusalemme stessa affluivano costantemente Giudei ellenistici da tutto i paesi
del Mediterraneo (At 2,9ss) e c’erano sinagoghe ellenistiche e una parte della
stessa chiesa di Gerusalemme era di estradizione ellenistica (si guardi i nomi
dei sette uomini scelti in At 6). Quando Pietro era a Ioppe e si recò a Cesarea
per parlare con Cornelio, non si sente parlare di un interprete (At
10,1ss.24ss). In che lingua parlò Pietro in Antiochia (Gal 2,11) o scrivendo a
quelli della dispersione del Ponto, della Galazia, della Cappadocia, dell’Asia e
della Bitinia (1 Pt 1,1; cfr. At 18,2 Aquila e Priscilla del Ponto). Quando
Paolo si recò a Gerusalemme, trovò solo Pietro e Giovanni dei discepoli del
Signore (Gal 2,9). Quando vi ritornò in seguito trovò solo Giacomo, fratello di
Gesù. Quindi essi si dispersero nel mondo, parlando qui nella lingua locale,
come fece Pietro nei suoi giri missionari in zone grecofone e come fecero anche
Barnaba e Paolo. Matteo e Giovanni erano discepoli di Gesù, ma scrissero in
greco i loro Evangeli (non c’è neppure un frammento che attesti il contrario);
Marco e Luca erano Giudei ellenisti e non ebbero certo difficoltà a scrivere
direttamente in greco.
■
Papia non parlò dell’Evangelo di Matteo come scritto in ebraico ma, come detto
sopra, dei «discorsi» che sono ben altra cosa. In ogni modo, Argentino stesso ha
diffidato spesso dell’attendibilità di Eusebio. Argentino stesso ammette che
l’Evangelo di Marco potrebbe essere ben altro rispetto al documento descritto da
Papia.
■
Le congetture di come gli Evangeli possano essersi formati possono essere
interessanti (si insiste sull’«insegnamento orale trasmesso in ebraico»), ma
rimangono ipotesi che si possono ribaltare in un senso o nell’altro.
■
Rimane un mistero come si possa accertare un «sotto-testo ebraico» degli
Evangeli, visto che non si possiede un solo frammento in ebraico. Non si
comprende neppure come «altri [brani] sono addirittura impossibili da capire se
non si conosce la letteratura rabbinica», visto che quest’ultima proviene dal
medioevo e da una situazione quindi differente. È come voler studiare il
Rinascimento italiano, rifacendosi ad autori dell’era industriale americana. La
letteratura rabbinica può aiutare a capire, ma non è detto che lo faccia sempre
e veramente. Giuseppe Flavio, Filone d’Alessandria e altri scrittori del primo
secolo erano più vicini all’epoca di Gesù di quanto lo siano stati i rabbini del
Medioevo. Non è escluso che certe inflessioni linguistiche, certi modi di dire e
immagini retoriche siano comuni a Gesù e ai rabbini del Medioevo, essendo
all’interno dello stesso mondo culturale — ma per altre cose sono agli antipodi.
■
Negli esempi fatti da Argentino alcune cose erano certamente presenti nella
cultura generale del mondo d’allora e altre espressioni proverbiali si trovano
anche in altre culture. Nasce però un dubbio, quando afferma categorico: «Questa
è impossibile da capire per un “greco”». Bisognerebbe essere stati in quel mondo
per saperlo. E poi possibile che gli Evangelisti abbiano scritto per non far
capire? Non si legge spesso «che interpretato significa…», quando c’era
difficoltà di comprensione? Forse le culture d’allora avevano più «osmosi» di
quanto pensiamo. Forse essi capivano più di quanto noi sospettiamo o capiamo
oggi. E ancora un altro dubbio: Se «i
“greci” si sforzano di dare un significato a delle parole che traducono
letteralmente degli idiomi ebraici incomprensibili se non si conosce la cultura
ebraica», allora gli Evangelisti sono stati pessimi scrittori e mediatori
culturali. Ma forse le cose non stanno proprio così. E ciò che vale per noi non
deve valere per il mondo ellenistico d’allora, in cui la maggior parte degli
Ebrei parlava greco!
■
Anche la conclusione di Argentino al riguardo («riscoprire l’ebraico che si cela
dietro il greco… ci sarà possibile capire completamente le parole di Gesù») non
convince del tutto, poiché trascura il mondo reale d’allora. Non abbiamo nessuna
evidenza che allora le cose stavano così («I primi cristiani greci non potevano
assolutamente capirli se non c’era qualche cristiano ebreo che glieli
spiegava»); queste sono mere supposizioni su cui poi si basa tutto il resto
della costruzione delle proprie tesi. È proprio vero che da alcuni indizi
verosimili si possono costruire «elefanti». Sì, hai dato «l’idea d’essere un po’
sfrontato».
■
Il primo errore è proiettare il rabbinismo talmudico del Medioevo sul NT, come
se secoli di storia non avessero portato a sviluppi e mutamenti culturali. Il
secondo è trascurare il vero mondo cosmopolita dell’ellenismo del primo secolo,
in cui la maggior parte dei Giudei viveva fuori della Palestina e parlava greco.
Il terzo è pensare alla Palestina d’allora come all’Israele d’oggi (solo lingua
e cultura ebraica) e al giudaismo del primo secolo come a quello del Medioevo.
Il quarto è pensare che la distanza culturale d’oggi del mondo occidentale
rispetto all’ebraismo fosse la stessa del primo secolo; perciò si afferma che un
Greco non avrebbe mai potuto capire alcune cose scritte negli Evangeli nella sua
lingua, sebbene esse dovevano essere trasmesse in tutto l’ellenismo d’allora.
Quindi gli Evangelisti sono stati dei pessimi scrittori!? Pur volendo fare molte
concessioni, tutto ciò appare strano, se non addirittura dubbio. Molte ombre
vengono anche gettate sull’ispirazione da parte dello Spirito Santo, che non è
stato in grado di trasmettere cose subito allora comprensibili. Pur ammettendo
che gli eventi sono successi a degli Ebrei e contengano delle inflessioni
ebraiche (molte sono però direttamente tradotte), è mai possibile affermare che
i Greci di allora non hanno direttamente capito molte cose scritte negli
Evangeli, tanto da abbisognare degli «ermeneuti» ebraici? Qualche serio dubbio
rimane per quel mondo ellenista.
4. {Argentino Quintavalle} ▲
Rispondo ai «contrasti» fraterni di Nicola.
■ 1. Come facciamo a sapere che non sia una leggenda
metropolitana? Della serie, prima di credere voglio toccare? Come faccio a
sapere che Giulio Cesare è esistito e che non sia una leggenda metropolitana?
Devo fare un atto di fede negli storici. Io mi fido dei Giudei, in quanto
testimoni scelti da Dio per la trasmissione degli Scritti Sacri (Vecchio e Nuovo
Testamento). Il popolo d’Israele ha messo per iscritto nel Talmud che i
discepoli non mettevano per iscritto gli insegnamenti dei loro maestri e guarda
caso gli Evangeli sono stati scritti parecchi anni dopo gli eventi accaduti.
L’onere della prova spetta a chi vuole sostenere il contrario, proprio come
spetterebbe a chi volesse sostenere che Giulio Cesare è una leggenda
metropolitana. Qualche leggenda gli ebrei l’avranno pure raccontata, ma ci sono
molte più leggende a Atene e Roma che a Gerusalemme.
■ 2. Viene messo in dubbio che la memorizzazione non
sia stata in grado di conservare la tradizione? Ho scritto nel mio articolo che
questo è duro da digerire per un occidentale, eppure è proprio così; a meno che
non si voglia giudicare dall’esterno una società e cultura diversa dalla nostra.
Nel Talmud è anche scritto le tecniche di memorizzazione usate, ma non voglio
annoiare con queste cose. Porto un solo esempio. Il quarto comandamento
proibisce di lavorare in giorno di sabato, ma la Bibbia non specifica cosa
doveva essere considerato «lavoro». Ebbene, prima che la tradizione fosse messa
per iscritto, ciò che era proibito fare in giorno di sabato è stato conservato
oralmente dai tempi di Mosè fino ad almeno il 200 d.C. Contrariamente agli
ebrei, la chiesa «gentile/greca» non è riuscita a conservare un manoscritto
unico del Nuovo Testamento.
■ 3. Non ho detto che erano solo gli Esseni ad aver
scritto le loro tradizioni, ma che loro, a differenza dei Farisei usavano i
rotoli scritti a scopo d’insegnamento. Chi conosce come è nata la Mishnah non
direbbe mai che gli insegnamenti dei rabbini circolavano in forma scritta, dato
che era severamente proibito dai Farisei. Che il concetto di «Torà orale» è
stata un’abile mossa dei rabbini per accreditare i loro insegnamenti, spero che
Nicola vada un giorno a dirlo a qualche rabbino con il quale confrontarsi (a
Roma non mancano). Io credo che sia una grave offesa per la religione dei
Giudei, ma Nicola può star tranquillo, non ha nulla da temere da loro. Se le
stesse cose, però, le avesse dette contro qualche Mullah avrebbe dovuto
incominciare a preoccuparsi per la propria vita.
■ 4. Papia affermò che Matteo mise per iscritto le
parole di Gesù. Quello che dico io non trova riscontro? E dove trova invece
riscontro che Paolo avesse per iscritto le parole di Gesù? È solo una
congettura. Chi conosce la cultura ebraica sa che non c’era bisogna d’una forma
scritta per avallare l’autorità d’un maestro. L’insistenza poi sulla leggenda
metropolitana mi rimanda con la mente a storici pensieri anti-semiti, ma spero
di sbagliarmi. Ma gli ebrei ci sono abituati, non è certo la prima volta che
vengono accusati di leggende metropolitane. Gli Arabi ancora lo fanno nelle loro
scuole.
■ 5. Come una tradizione orale possa essere migliore
d’una scritta l’ho spiegato nell’articolo e non mi voglio ripetere. Quello che
invece bisogna chiarire, dato che i cristiani non conoscono ma sono pronti a
criticare, è l’opera «medioevale» del Talmud. Gli Ebrei dicono che il Talmud ha
avuto le sue radici nella prigionia Babilonese (586 a.C.). Dio aveva punito i
Giudei con l’esilio a causa del loro peccato, in particolare per il peccato
d’idolatria. Questa prigionia ha avuto un effetto di purificazione sui Giudei.
Essi hanno visto da una parte la bassezza dei culti pagani in Babilonia e di
conseguenza hanno desiderato fortemente poter ritornare a rendere il culto a Dio
in santità a Gerusalemme. Si sono resi conto che avevano sofferto perché avevano
abbandonato la Legge di Dio (Torah – i cinque libri di Mosè) ed erano andati
dietro ad altri dèi. Essi hanno deciso di non farlo mai più. Il messaggio
d’Ezechiele e gli anziani di Giuda che si sono messi sotto l’insegnamento del
profeta, hanno avuto un forte impatto sulla comunità giudaica (Ez 8,1; 14,1;
20,1).
Alcuni credono che questo è stato l’inizio della
sinagoga. In ogni modo, è diventato il centro religioso d’una nazione esiliata e
senza casa. In questo centro religioso, molti si sono risvegliati per lo studio
delle Scritture. Questa domanda ha creato la necessità affinché sempre più
uomini qualificati diventassero insegnanti. Questi insegnanti sono stati
chiamati «scribi». Il loro duplice compito era quello di copiare le Scritture,
che erano poche, e quindi insegnarle e spiegarle. Questa era una cosa
importantissima tenuto anche conto del fatto che l’ebraico correva il rischio di
diventare una lingua morta. Il debito che dobbiamo loro è menzionato in Rm 3,2.
L’apostolo dichiara: «…a loro furono affidati gli oracoli di Dio».
Secondo Esd 7,6, Esdra stesso era «uno scriba
versato nella legge di Mosè». Egli è stato di grande aiuto per ripristinare
la Legge come guida della vita. Il Talmud dice: «Quando la Legge è stata
dimenticata da Israele, Esdra è venuto da Babilonia e l’ha ristabilita». Nei
capp. 8-10 di Nehemia leggiamo del grande ripristino che ha avuto luogo sotto la
conduzione d’Esdra. Esdra, come scriba ha avuto un ministero particolare nella
spiegazione e nell’insegnamento delle Scritture. «Essi leggevano nel libro
della legge di Dio distintamente; e ne davano il senso, per far capire al popolo
quel che s’andava leggendo» (Ne 8,8). Esdra ha fatto in modo che la gente
capisse le Scritture spiegando il «senso» ivi contenuto. È da questa semplice
dichiarazione di Nehemia che abbiamo le origini del Talmud.
La comprensione della Legge di Dio, la Torah, era
vitale per la loro esistenza come nazione. Il Giudeo aveva appreso dalla
prigionia babilonese che doveva rimanere separato dal pagano, sia nella vita
religiosa che in quella secolare. Ogni aspetto della sua vita doveva ricordargli
di rimanere separato e santo. Iniziando con Esdra, e tutti coloro che l’hanno
seguito, ogni parola dei saggi è stata memorizzata. Questo insegnamento orale è
stato trasmesso ed è diventato la base del Talmud. La spiegazione del testo
sacro è per i Giudei autorevole come le Scritture stesse.
La parola Talmud significa «studio». È formato da due
parti. La più vecchia è chiamata Mishnah, che è una compilazione di leggi orali,
e la seconda parte, la Gemara, è la registrazione delle discussioni rabbiniche.
L’interpretazione della Scrittura che si trova nel Talmud è fondamentalmente
considerata come la Torah orale.
■ 6. È vero che Paolo avvisava di schivare le leggende
ebraiche, ma la chiesa deve stare molta attenta a non fare di tutta l’erba un
fascio. Sono più le cose da prendere dagli ebrei che quelle da scartare. Se
Paolo vivesse oggi ne direbbe tante di più sulle leggende della chiesa, anche su
Lutero, il quale scrisse un raccapricciante libro che inneggiava all’uccisione
degli ebrei. Ma questo è un altro discorso.
Nicola cerca prove scritte laddove non le può trovare.
Se la trasmissione era orale è normale che non ci siano prove scritte. Laddove
poi le prove ci sono (le dichiarazioni del Talmud), esse vengono rifiutate
perché considerate inattendibili. Chi non vuol credere è ovvio che non crederà,
ma non è compito mio quello di convincere, bensì dello Spirito Santo.
■ 7. Eccomi alla «raccolta orale ebraica». Purtroppo mi
sto facendo la convinzione che è pericoloso fare discussioni via internet,
perché la sola trasmissione scritta delle parole dà origine a dei
fraintendimenti e travisamenti; basta cambiare una virgola e si può dare un
significato diverso al discorso. Il nostro nemico si serve anche di queste cose
per non farci comprendere. Se invece di «raccolta» avessi usato un’altra parola
non ci sarebbe stato problema. Comunque ci sono anche delle «raccolte orali» e
questo non lo dico solo io ma fior di studiosi. Certo, chi nella propria mente
pensa che una raccolta possa essere solo scritta, avrà difficoltà ad accettare
una raccolta orale.
La raccolta è ebraica perché al tempo di Gesù i rabbini
insegnavano ai loro discepoli in ebraico. La nazione d’Israele era multilingue,
si parlava marginalmente anche aramaico e greco. Anche oggi Israele è una
nazione multilingue dove si parla ebraico, arabo e inglese (ed anche
qualcos’altro) ma la lingua ufficiale, oggi come ieri è l’ebraico. Ho scritto
vari articoli su questo sito, ai quali rimando, per cercare di dimostrare
quest’idea. Evidentemente non sono stato abbastanza convincente. Ma non c’è
alternativa, la lingua ufficiale della Giudea era l’ebraico. Nicola, nel 2007,
dice che Matteo scrisse in greco il suo Evangelo; Papia nel 2° secolo dice che
Matteo scrisse le parole del Signore in ebraico. La stessa cosa dice Ireneo,
Origene, Eusebio, Epifanio e Girolamo. Se proprio devo scegliere so chi devo
scegliere.
■ 8. Quando fa comodo si cita Eusebio come attendibile
e quando non fa comodo come non attendibile? Io non ho mai diffidato d’Eusebio,
ma ho solo detto che siccome la Bibbia dice che per sostenere qualcosa ci devono
essere due o tre testimoni, uno solo (Eusebio) non basta. Ma per quanto riguarda
l’Evangelo ebraico di Matteo, non c’è solo Eusebio, i testimoni sono ben di più
e quindi, in mancanza di prove, ho il dovere d’accettare la loro testimonianza.
Non ho capito bene se Nicola sostiene un’origine greca degli Evangeli. Ma a
parte gli argomenti linguistici e culturali per l’origine semitica, c’è anche
l’importante fatto che il greco povero degli Evangeli Sinottici si trova
fondamentalmente solo in opere letterarie che sono traduzioni d’originali
semitici, come la Septuaginta.
Molte espressioni dei Vangeli, non sono propriamente in
greco povero, ma addirittura senza significato in greco, laddove traducono degli
idiomi ebraici. Perché il greco dei Vangeli è così povero? Molto semplicemente,
perché gli Evangeli di Matteo, Marco, e Luca non sono veramente greci, ma parole
ebraiche trasmesse in greco, o, possiamo dire, «traduzione» greca. Sto dicendo
che gli Evangeli Sinottici non sono stati scritti originariamente in greco? A
questo devo rispondere «sì» e «no». Gli Evangeli Sinottici così come li abbiamo
oggi sono stati scritti originariamente in greco; tuttavia, il testo da cui essi
discendono era stato originariamente tradotto da un archetipo ebraico.
■ 9. La letteratura rabbinica non proviene solo dal
Medioevo. La Mishnah è stata messa per iscritto nel secondo secolo, e riporta
tradizioni di detti rabbinici di secoli precedenti a Gesù. Il sotto-testo
ebraico è dimostrato dalla traduzione greca che è un non-senso. I rabbini del
tempo di Gesù non erano affatto agli antipodi, ma per ragioni di spazio
quest’argomento non posso trattarlo qui (chi vuole approfondirlo può sempre
scrivermi). Senza conoscere la loro cultura e letteratura è impossibile spiegare
buona parte dei detti di Gesù. Ma siccome di discorsi ne abbiamo fatti tanti, è
ora di fare i fatti. Invito chiunque legga queste mie parole a spiegare
pubblicamente il significato di Mt 6,22s: «La lampada del corpo è l’occhio;
se dunque l’occhio tuo è puro, tutto il tuo corpo sarà illuminato, ma se
l’occhio tuo è viziato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso». [►
Due tesi a confronto su Matteo 6,22-23 (1) {Nicola Martella}]
■ 10. Gli evangelisti non sono stati dei pessimi
traduttori. Il fatto è che finché la chiesa era prevalentemente giudaica, c’era
sempre qualcuno che sapeva spiegare il significato degli idiomi, ma nel momento
in cui la chiesa dei gentili si è separata dalle proprie radici, col tempo ha
ovviamente dimenticato il significato d’alcune cose della Scrittura. Per
esempio, la chiesa primitiva non avrebbe mai commesso di chiamare Dio con il
nome di Jehovah perché avrebbe saputo che quest’era un espediente ebraico per
evitare di pronunciare il nome di Dio. Questo errore non è nato tra i Testimoni
di Geova, come qualcuno può sembrare, ma all’interno della chiesa Cattolica e
Protestante. Soltanto quando si è scoperto l’ebraismo che vi si celava dietro si
è rimediato in parte all’errore. Dico in parte perché questo nome è stato
abbandonato non per aver capito lo sbaglio, ma solo come reazione ai Testimoni
di Geova. Nicola ha detto che le mie sono delle mere supposizioni, ebbene io
ripeto l’invito a provare a spiegare, tanto per cominciare, il brano sopra
citato, e poi vedremo se sono mere supposizioni. Dato che sono «sfrontato» lo
voglio essere fino in fondo, ma per dare gloria a Dio e non alla sapienza umana.
■ 11. A mio avviso bisognerebbe eliminare i seguenti
errori. Il primo errore è di non voler accettare che il Talmud riporta
affermazioni rabbiniche dei tempi antecedenti a Cristo. Sarebbe come dire che
non possiamo accettare l’attendibilità degli eventi della Genesi perché non sono
stati scritti in tempo reale ma soltanto centinaia d’anni dopo. Il secondo
errore è quello di non rendersi conto che se anche i Giudei ellenisti della
diaspora parlavano greco, ciò non inficia minimamente quanto ho detto. Anche
oggi la maggior parte dei Giudei vivono fuori d’Israele, ma nonostante ciò
Israele sta lì, si parla ebraico, sono stati istituiti i Cohanim (sacerdoti
leviti), sono pronti a ricostruire il tempio, e quel che è più importante, Dio
ha fatto rinascere la nazione d’Israele sotto i nostri occhi. Noi da che parte
stiamo? Il terzo errore è quello di non aver letto bene i miei articoli su che
lingua parlava Gesù, dove spiego che l’ebraico era la lingua ufficiale ma non
certo l’unica, dato che la nazione era cosmopolita. Occasionalmente si parlava
anche greco, latino e aramaico. Il quarto errore è quello di chiudere gli occhi
sulla realtà del giudaismo del primo secolo. Certo, chi rimane all’esterno non
può vedere quello che c’è in casa. Il quinto errore è quello di pensare che la
chiesa dei gentili possa capire gli scritti ebraici senza Israele, ovvero, la
chiesa dei gentili non può sussistere senza Israele (Rm 11). E quindi riaffermo
che i greci non avrebbero potuto capire gran parte delle Scritture se non c’era
qualche ebreo che gliele spiegava.
5. {Nicola Martella} ▲
Come sempre, quando si discute,
bisogna essere grati per gli sforzi che fa il proprio interlocutore per spiegare
il proprio punto di vista. Quest’ultimo è da rispettare, anche quando non lo si
condivide. Argentino rappresenta uno dei rari casi di un cristiano pronto a
confrontarsi e a esporsi per le proprie tesi. Di ciò si può essere grati a Dio.
|
Voglio premettere che considero il Talmud, la cui redazione finale cade nel
Medioevo, come un’importante fonte per capire il giudaismo successivo al NT.
Nella formazione delle tradizioni, specialmente se orali, ci sono elementi di
continuità e discontinuità, dovuti alle alterne vicende storiche e alla nascita
e al tramonto di movimenti di pensiero. Al tempo di Gesù c’erano, nel giudaismo
certamente delle tradizioni orali (accanto a quelle scritte), ma è difficile
dire che risalgono direttamente a Esdra; una lettura dei libri dei Maccabei
mostra il travagliato percorso religioso e politico dei Chassidim («pii,
devoti») e della frantumazione di questo movimento in vari rivoli ideologici.
Quantunque il Talmud sia importante per analizzare il giudaismo nei primi secoli
dopo Cristo, è pur sempre l’opera di una parte del giudaismo (quello
farisaico-rabbinico) e come tale scrive dal suo punto di vista (non
esiste un Talmud sadduceo o essenico); è pur sempre la lettura dei redattori
finali medioevali sui secoli precedenti. È l’opera di un giudaismo che subì due
grandi catastrofi: quella del 70 d.C. (distruzione del tempio e cacciata da
Gerusalemme) e del 136 d.C. (sollevazione sotto il rabbino fariseo Akiba, che
annunziò l’avvento del Messia nella persona di Bar-Kochba). Quindi bisogna avere
un equilibrio nell’analisi delle sue informazioni. Non è neppure da trascurare
che il Talmud rappresenta il punto di vista dottrinale dei vincitori (il
movimento farisaico-rabbinico) sui vinti (specialmente il movimento sadduceo, ma
anche degli altri).
Nella trattazione dei punti, seguo la numerazione
sovrastante.
■ 1. Come facciamo a sapere che Giulio Cesare sia
esistito veramente e che non sia un personaggio leggendario? Ci sono concrete
prove che vengono dalla letteratura e dall’archeologia. Ci sono le sue statue e
le sue opere ci sono state tramandate. Dei Giudei il NT sa dire tutto il
positivo possibile (p.es. «la salvezza viene dai Giudei» Gv 4,23; «per
quanto concerne l’elezione, sono amati per via dei loro padri» Rm 11,28) e
tutto il negativo possibile (p.es. «per quanto concerne l’Evangelo, essi sono
nemici per via di voi» Rm 11,28; «favole giudaiche» e «comandamenti d’uomini
che voltano le spalle alla verità» Tt 1,14; «dicono d’essere Giudei e non lo
sono, ma sono una sinagoga di Satana» Ap 2,9; 3,9).
Quindi ciò che i Giudei dicono nel Talmud, sebbene
interessante, non è né certo (contiene anche cose bizzarre, anticristiane e
favole) né normativo. Infatti, «fino al dì d’oggi, quando [i Giudei] fanno la
lettura dell’antico patto, lo stesso velo rimane, senz’essere rimosso, perché è
in Cristo ch’esso è abolito. 15Ma fino ad oggi, quando si legge Mosè,
un velo rimane steso sul cuor loro; 16quando però si saranno
convertiti al Signore, il velo sarà rimosso» (2 Cor 3,14ss). Quindi, dal
punto di vista cristiano non ha credito ciò che essi dicono o scrivono, solo
perché sono il popolo storico di Dio. Ciò che conta sono le «prove documentarie»
del tempo del NT e non ciò che i rabbini hanno detto nel Medioevo per i tempi
intorno al primo secolo.
■ 2. Non si può dire «eppure è proprio così» a
proposito della cosiddetta memorizzazione conservatrice di tradizione. Se non
c’è una fonte chiara e incontrovertibile del primo secolo che attesti per quel
tempo tale pratica, tutto diventa soggettivo e arbitrario e si basa solo sul
consenso. Gli esempi portati rientrano in questa categoria. Poi basta consultare
le cose bizzarre della tradizione giudaica: di sabato non si può portare un
peso, ma lo si può strusciare muro miro; di sabato non si può cavalcare un
animale, ma si può andare sull’acqua: perciò basta mettere un otre su un asino e
vai. Queste e altre cose bizzarre e furbesche sarebbero veramente state
conservate oralmente dai tempi di Mosè fino al Medioevo, quando furono
codificate per iscritto?
■ 3. Per dire che la «forma scritta […] era severamente
proibita dai Farisei» è un dato che rimane non dimostrato con delle prove
oggettive provenienti dal primo secolo. Giuseppe Flavio e Filone d’Alessandria
hanno scritto. Quindi solo una prova scritta fa testo, il resto sono mere
supposizioni e ricamature medioevali che non si può né accertare né smentire;
hanno perciò valore probatorio uguale a zero. La «Torà orale» ricorda la stessa
manovra della «tradizione orale» (apostolica, ecclesiale) della chiesa romana
per accreditare dottrine medioevali.
■ 4. Quando si argomenta, si fa bene a non mettere in
campo l’antisemitismo (insinuandolo al proprio interlocutore), perché ciò
risulta infine un’argomentazione di bassa lega. Sta di fatto che Papia parlò dei
«discorsi» di Gesù e non dell’Evangelo di Matteo. Paolo si rifece a parole
chiare di Gesù, distinguendole dalle proprie; visto che in giro esistevano
scritti falsamente attribuiti a Paolo e alla sua squadra (2 Ts 2,2), l’apostolo
usava alcuni artifici per essere riconoscibile (2 Ts 3,17). Egli citò brani
(letteralmente e/o a senso) che si trovano negli Evangeli (cfr. 1 Cor 11,23ss
«ricevuto dal Signore»; Lc 2,19s).
■ 5. Io conosco il Talmud e il commentario di
Strack-Billerbeck al NT (tratto da esso) fin dai miei studi di teologia. Una
cosa sono prove documentarie, altra cosa è ciò che dicono gli Ebrei sull’origine
del Talmud. In ogni modo, Gesù fu molto critico sulla tradizione degli scribi e
Farisei («guai a voi…». Poiché il Messia Gesù, il Fondatore della nostra
fede, fu così critico verso la tradizione (orale o scritta che fosse), ciò ci
spinge a essere molto guardinghi verso ciò che i Giudei medioevali hanno scritto
del loro passato e delle loro tradizioni correnti. «E avete annullata la
parola di Dio a motivo della vostra tradizione» (Mt 15,6; Mc 7,13). Quanto
al messaggio di Ezechiele e l’impatto che esso avrebbe avuto sulla comunità
esilica, ci sono molti elementi che gettano ombre su tali Giudei; Dio condanna
la loro falsa profezia, paragonandoli a indovini . Se si legge Ez 8 (che
Argentino cita), ci si rende conto della situazione spirituale del popolo e dei
capi d’allora. Lo stesso dicasi di Ez 14,2ss; in Ez 20,2ss Dio rifiutò di farsi
consultare dagli anziani a causa delle loro iniquità. Quindi niente mitologia
eroica dei Giudei durante l’esilio! Zerubabele dovette faticare parecchio per
far tornare 50.000 Giudei in patria (solo un resto!). Solo 80 anni dopo si sente
parlare dell’arrivo di Esdra e di Nehemia ed essi non trovarono certo «rose e
fiori», ma un grande degrado spirituale e morale. Nonostante il ripristino sotto
Esdra e Nehemia, quando quest’ultimo tornò col secondo mandato (e così
probabilmente Esdra), trovò le cose come prima, anzi peggio (Ne 13,6). Malachia
fotografò la situazione successiva parlando di un popolo (gente comune,
sacerdoti e anziani) gretto d’animo, ipocrita e fedifrago. Questa non è certo la
situazione eroica a cui fanno riferimento i rabbini talmudici.
Anche in Rm 3,2 mostra ciò che Dio fece mediante i suoi
profeti e mediante il suo resto fedele, nonostante la massa del popolo; alcuni
versi prima (2,17ss) l’apostolo mostra che cosa pensasse del «Giudeo» generico
che predicava bene e razzolava male.
Quanto a Ne 8,8 le cose non stanno così che da qui si
possa trarre l’origine del Talmud. Infatti, le cose stavano effettivamente così
che il popolo parlava aramaico a quel tempo, provenendo da Babilonia, e aveva
difficoltà a capire il testo ebraico. Esdra e gli altri, dopo aver letto una
porzione di testo in ebraico, traducevano il senso in aramaico. Fu così che in
seguito nacquero i Targumim, parafrasi aramaiche del testo ebraico.
Le spiegazioni che si danno sull’origine del Talmud
quale «Torà orale» sono accreditamenti posteriori per far derivare la tradizione
o da Mosè o da Esdra. Ciò non è né dimostrato né è ingiuntivo. In ogni modo,
Gesù non ha riconosciuta l’autorità di una presunta «Torà orale» («Voi avete
udito che fu detto agli antichi… ma io vi dico…» Mt 5,21ss), anzi l’ha
fortemente contestata e avversata e ha chiamato, tra l’altro, «ipocriti» e
«guide cieche» i Farisei, suoi custodi e detentori (Mt 23,16.24).
■ 6. Le favole, le leggende e i miti sono da trattare
come tali qualunque sia la fonte. «Mal comune mezzo gaudio» non è un buon
sistema d’analisi. Il Talmud è una fonte medioevale ed è da ritenere, apprezzare
e studiare come tale. Non capisco che cosa debba convincere lo Spirito Santo
riguardo al Talmud; il suo compito è di condurci in tutta la verità insegnata da
Gesù Messia (Gv 16,13), che il Talmud avversa in modo veemente. Molti studiosi
cristiani e non hanno scritto tante opere sul Talmud, inquadrandolo per quello
che è: un’opera di alcuni Giudei del Medioevo. Anche in seguito sono state
scritte opere simili (cfr. Kizzur Schulkan Arur), in cui le diverse anime del
giudaismo hanno cercato di conservare la loro propria tradizione.
■ 7. Sorvolo la «raccolta orale ebraica», che
ritengo inesistente, poiché una raccolta si dice di libri, quadri, francobolli,
aforismi, ecc., quindi di cose materiali. Non ho mai letto di nessun studioso
che abbia mai parlato di «raccolta orale», tanto meno senza una fonte scritta.
Non solo la Palestina era multilinguistica, ma grandi
parti (Decapoli) e città (p.es. Cesarea) parlavano a maggioranza greco, altre
aramaico (p.es. Samaria). Nel primo secolo, la Giudea era in effetti come
territorio solo una piccola parte rispetto a una Palestina divisa in tanti
territori e assoggettati continuamente sotto altri signori. La Giudea d’allora
non è proprio paragonabile all’Israele d’oggi.
Non ritorno su Papia, avendo evidenziato che le
«loghia» non erano l’Evangelo. Non è una questione di chi scegliere di seguire
(me, te o uno dei «padri» della chiesa), ma di accertare la verità delle cose e
di non fare precipitevoli conclusioni.
■ 8. Eusebio è anche lui da verificare di volta in
volta con altri scrittori contemporanei. Sta di fatto che né lui né quelli che
egli citò parlarono di prova di un «Evangelo ebraico di Matteo», come Argentino
precipitevolmente conclude, poiché ai suoi tempi (e a quelli dei suoi
predecessori che egli cita) non c’erano manoscritti di tale Evangelo in ebraico.
Accettiamo quindi la testimonianza degli scrittori dei primi secoli per
quello che veramente hanno detto.
Fin quando non si troverà un documento degli Evangeli
in ebraico, risalente al 1°-2° secolo, riconoscibile come originale degli
attuali Evangeli, da studioso non posso che attestare che essi sono stati
scritti in greco per essere capiti in tale lingua. Evito di ripetere le
argomentazioni.
Il «greco povero degli Evangeli Sinottici» era dovuto
allo scopo della comprensione per le vaste masse non a un ipotetico originale
ebraico. Dove gli Evangelisti introdussero idiomi ebraici incomprensibili ai
greci, li tradussero; il resto mi sembra rientrare nella sfera delle
speculazioni ritenendo che essi abbiano tradotto idiomi ebraici «addirittura
senza significato in greco». Lascio perdere i «salti mortali» fatti per
dimostrare ciò. Senza prove documentarie, si resta nella sfera delle ipotesi a
cui più ci si appassiona.
■ 9. Il «sotto-testo ebraico» che sarebbe un non-senso
nella traduzione greca è un altro di tali «salti mortali»; molte di tali
congetture rimangono in gran parte discutibili e si possono spiegare anche con
la cultura ellenistica (allora ad alta osmosi), in cui vivevano la maggior parte
dei Giudei. Altre significati (veri o ipotetici) di parole ebraiche si trovano
anche in greco.
Si afferma: «Senza conoscere la loro cultura e
letteratura è impossibile spiegare buona parte dei detti di Gesù»; questa è una
grave tara mentale e una grande responsabilità, poiché si sottintende che il
lettore degli Evangeli non li possa veramente capire, che gli autori sono stati
incapaci di comunicare e che lo Spirito Santo abbia fallito nell’ispirare tali
testi. Una regola dell’ermeneutica biblica afferma: «La Bibbia spiega la
Bibbia». Qui si reclama un altro magistero, non quello di una chiesa, ma quella
della cultura e letteratura ebraiche!
Ritengo che quando Matteo scrisse Mt 6,22s in greco, i
Greci potessero intendere ciò che leggevano, di là se il lettore medio oggi lo
intenda o meno nella sua completezza. [►
Due tesi a confronto su Matteo 6,22-23 (1)] Se così non fosse stato, Matteo avrebbe allora fallito il suo obiettivo di
comunicazione (sebbene qui si trattava di un dettaglio, non della realtà piena
del messaggio dell’Evangelo). Uno studio degli autori contemporanei agli
Evangeli (p.es. apocrifi, psudoepigrafi, Giuseppe Flavio, Filone d’Alessandria)
possono aiutare a capire a noi oggi alcuni dettagli; è probabile che
nella maggior parte dei casi uno studio comparato della sacra Scrittura stessa
sarà sufficiente.
■ 10. Sorvolo l’argomento, poiché non è abbastanza
solido (il nome Jahwè non ricorre neppure una volta nel NT). Neppure i Giudei
dei primi secoli cristiani sapevano la corretta pronuncia del nome di Dio,
poiché da secoli (fin dalla prigionia babilonese) dicevano Adonaj (i
relativamente pochi Giudei in Giudea) e Kyrios (la stragrande maggioranza
dei Giudei).
■ 11. Dovrei sorvolare questo punto, trattandosi di una
riformulazione delle mie tesi precedenti nel loro contrario. Poi il discorso
sarebbe lungo sia per ciò che si afferma (p.es. confrontare il Talmud con la
Genesi come se fossero ambedue ispirati!?), sia per le false attribuzioni
storiche (p.es. «dato che la nazione era cosmopolita»: quale nazione? La
«macedonia» o il «patchwork» della Palestina del primo secolo non si può
certamente chiamare «nazione» in senso moderno), sia per le supposizioni vecchie
più di 30-40 anni e mai dimostrate («sono pronti a ricostruire il tempio»), a
cui do perlopiù risposta in «Escatologia 2», sia perché si cerca una decisione
ideologica («Noi da che parte stiamo?») invece dell’accertamento della verità.
Nessuno pensa che la «chiesa dei gentili possa capire
gli scritti ebraici senza Israele»; per questo leggiamo e studiamo l’AT; altra
cosa è supporre in tutto un «sub-testo ebraico» che solo un Ebreo saprebbe
spiegare. Sulle affermazioni del Talmud su rabbini precedenti a Gesù, si deve
affermare che quest’opera medioevale attribuisce ciò a tali rabbini; prendendone
atto, non si può però prendere per oro colato che tali rabbini abbiano detto
veramente ciò, ma che il Talmud tanti secoli dopo abbia attribuito loro quanto
affermato. Ciò non significa che in ogni caso non sia vero, ma che vi è un dato
storico che separa la fonte primaria (il rabbino X) dalla prima fonte scritta
(il Talmud). Il vasto fenomeno delle attribuzioni pseudoepigrafiche (libri di
contemporanei scritti come fossero usciti dalla penna di un famoso personaggio
biblico del passato), che fu alla base di innumerevoli scritti tra il 2° sec.
a.C. e il 2° sec. d.C. (libro dei 12 patriarchi; libro di Enoch, apocalisse di
Isaia, Baruch, ecc.), deve spingere alla cautela su ciò che diversi secoli dopo
qualcuno ha scritto riguardo a ciò che un allora lontano rabbino avrebbe detto.
Si legge in conclusione: «E quindi riaffermo che i
greci non avrebbero potuto capire gran parte delle Scritture se non c’era
qualche ebreo che gliele spiegava»; rimane una mera supposizione che non si può
né confermare né smentire. Così però non si fa nessun passo avanti
nell’accertare la verità. Nelle chiese gentili non erano gli Ebrei (perché tali)
a predicare, insegnare e istruire riguardo a ciò che i «poveri Greci» non
potevano capire di un presunto «sotto-testo ebraico», ma questo era compito dei
conduttori che possedevano certe improrogabili qualità morali (1 Tm 3; Tt 1).
Tra le prerogative non c’era uno studio dell’ebraico né un esame, che attestasse
una loro «ebraicità», svolto presso una locale sinagoga. Anzi, nelle epistole
pastorali (e non solo) la maggior parte delle eresie era vista arrivare proprio
dal fronte giudaico e dalla loro «gnosi».
A questo punto, per evitare che ci
muoviamo a cerchio e che non trattiamo l’argomento, ma ciò che dice l’altro,
facciamo bene a mettere un punto a questa discussione. Essa è stata interessante
e impegnativa, ma si può ora ritenere esaurita. I due fronti sono chiari, tante
cose sono in comune e alcuni punti rimangono distanti. Possiamo anche essere
grati a Dio per avere degli interlocutori disposti a discutere e a continuare a
farlo, con stima e rispetto, anche dopo aver accertato la distanza di alcune
tesi. A questo punto, tutt'al più sarebbe interessante una parola conclusiva
dell'altro interlocutore, da cui tutto è partito: Nicola Berretta.
|
6. {Nicola Berretta} ▲
Avevo appena messo gli ultimi
contributi in rete, invocando l'intervento di Nicola Berretta. Subito dopo mi è
arrivato il suo attuale contributo. Egli non conosceva ancora gli ultimi due
interventi, quando mi ha mandato il suo scritto. Condivido i suoi timori e
concordo pienamente con le sue osservazioni. Penso che gli ultimi due contributi
rafforzino maggiormente i suoi timori e le sue osservazioni. {Nicola Martella} |
Ammetto di sentirmi un po’ in difficoltà nel dialogare su argomenti per i quali
non ho un’adeguata preparazione. Tanto meno vorrei dare l’impressione d’avere
intenzioni polemiche, prima di tutto perché non sono per natura una persona
polemica, e poi perché ho piena consapevolezza della mia impreparazione sul tema
in questione. Il motivo però che mi spinge a intervenire nuovamente è il rischio
che scorgo nelle parole di Argentino di sminuire l’autorità del testo biblico in
nostro possesso. Sia chiaro, è del tutto lecito dubitare dell’ispirazione divina
della Scrittura, e molti studiosi s’avvicinano a essa negandone ogni contenuto
soprannaturale, ma le premesse di fede da cui parte Argentino voglio sperare che
siano diverse.
Io non discuto il fatto che per comprendere le parole
di Gesù scritte negli Evangeli sia fondamentale una conoscenza del retroterra
culturale ebraico da cui prendono origine quelle affermazioni. Gli esempi
riportati da Argentino, riguardanti brani di non facile comprensione se letti al
di fuori del contesto culturale ebraico, rientrano certamente tra quei passi
della Scrittura per i quali io stesso forse prendo «lucciole per lanterne» e
sarebbe perciò davvero bello e utile per me se Argentino trovasse il modo
d’estendere questi suoi interventi aprendomi la mente a una maggiore
comprensione di quei testi.
Quello che però non riesco a digerire è il fatto che
Argentino affermi che il testo greco del Nuovo Testamento (soprattutto degli
Evangeli) sia
intrinsecamente inadeguato. È questo il concetto che mi fa un po’ saltare
dalla sedia e mi spinge a obiettare. Anche nel suo penultimo intervento, mi
sembra che Argentino metta in dubbio che il testo degli Evangeli abbia
correttamente preservato le parole di Gesù, tanto che noi oggi avremmo la
necessità d’individuare retrospettivamente dal testo greco le parole
autentiche che Gesù ha pronunciato, per cogliere da quelle, e non dal testo
in sé, il reale messaggio che Gesù avrebbe voluto trasmetterci.
Voglio tornare alla domanda che avevo posto in
precedenza: perché il NT è stato scritto in greco? Argentino, pur argomentando
in modo molto interessante il passaggio dalla tradizione orale a quella scritta,
non dà, a mio parere, alcuna risposta a questa domanda. Perché gli Evangeli sono
stati scritti in greco? Cosa ha impedito a coloro che hanno messo per iscritto
le parole di Gesù di farlo usando l’ebraico? In fondo, quasi tutta la Bibbia è
scritta in ebraico, che differenza avrebbe fatto l’avere quattro libri in più?
Quello che io so è che il Signore, riferendosi proprio
al come i discepoli avrebbero potuto conservare le parole del loro Maestro,
disse loro: «…il Consolatore, lo Spirito Santo, che
il Padre manderà nel mio nome, v’insegnerà
ogni cosa e vi ricorderà
tutto quello che vi ho detto»
(Gv 14,26). Io ho piena fiducia nel fatto che i discepoli abbiano trasmesso
correttamente le parole di Gesù, ma questa fiducia non risiede nell’abilità che
a quell’epoca essi avevano nel trasmettere oralmente ciò che avevano imparato a
memoria, quanto piuttosto nel fatto che lo Spirito Santo ha fatto sì che le
parole di Gesù fossero conservate in modo non adulterato. Ciò che mi consola e
mi rassicura sono parole come «ogni cosa» e «tutto», per le quali
io posso fidarmi dell’accuratezza di ciò che gli apostoli hanno trasmesso. Lo
stesso evangelista Giovanni, pur affermando che Gesù fece opere da lui non
riportate, dichiara la piena sufficienza di ciò che è scritto affinché possiamo
conoscere e credere nel Messia Gesù e avere vita eterna in Lui (Gv 20,30s).
Ciò che mi domando, allora, è
questo: è mai possibile che i discepoli siano stati così sprovveduti dal voler
trasmettere parole così importanti, quali quelle del loro Signore e Maestro,
usando una lingua inadeguata? È mai possibile poi che addirittura lo Spirito
Santo, cioè Dio stesso, abbia trasmesso gli insegnamenti di Gesù nella lingua
sbagliata?
Io ritengo che i primi
discepoli abbiano deciso di trasmettere per iscritto le parole di Gesù in greco,
e non in ebraico, perché hanno compreso la necessità di trasmettere quegli
insegnamenti anche oltre i confini della lingua e della cultura ebraica. Cosa
avrebbe impedito loro di scrivere in ebraico? Nulla. Se non la consapevolezza
della necessità di far giungere il messaggio dell’Evangelo «fino
all’estremità della terra» (Atti 1,8). Se avessero avuto il minimo dubbio
che, scrivendo in greco, il messaggio non sarebbe stato compreso nella sua
pienezza, non sarebbero stati certo così incoscienti, sprovveduti e superficiali
dal trasmettere un messaggio così importante in una lingua intrinsecamente
inadeguata. No, io resto convinto che il testo greco sia stato pienamente
adeguato allo scopo che essi si prefiggevano, a meno di non considerare gli
evangelisti degli incoscienti e lo Spirito Santo uno sprovveduto.
7. {Argentino Quintavalle} ▲
Dopo l’intervento di Nicola
Berretta, di cui condivido i timori e con le cui osservazioni concordo
pienamente, ho comunicato ad Argentino il mio scrupolo e timore è che chi lo
legge, potrebbe pensare che egli non creda alla piena ispirazione e
all’inerranza della Scrittura. Sebbene volevo chiudere l’argomento, gli ho
chiesto di prendere brevemente posizione solo su questo aspetto. {Nicola
Martella} |
«Beato
colui che non condanna sé stesso in quello che approva» (Rm 14,22).
Preciso due cose:
■ 1) «La Bibbia spiega la Bibbia» è una frase a
effetto, ma va presa con le molle. La Bibbia non è stata trovata per terra, ma è
stata data a un popolo e quindi è un libro di testimonianza e quindi va di pari
passo con il testimone. Ma anche se la frase fosse vera, la si può applicare
solo con i testi originali e non con le traduzioni.
■ 2) I lettori stiano tranquilli, non è l’ispirazione
del testo biblico che viene messa in discussione, ma è l’interpretazione, parte
della quale è persa se non c’è il testimone. Dice bene Nicola che quando gli
Evangeli furono scritti venivano compresi senza problemi, ma quest’era possibile
perché c’erano i testimoni. Col tempo però è subentrata la presunzione di non
averne più bisogno.
Concordo che una volta chiarite le tesi a confronto non serve ancora discutere,
però qualche fatto lo voglio presentare e nello stesso tempo accontento la
richiesta di Nicola Berretta riguardo alle lucciole e lanterne che teme di
prendere, analizzando i versetti da me proposti. Stia tranquillo, comunque, che
non è l’unico a prendere le lucciole. [...]
Poiché Argentino ha aperto subito
un altro filone di discussione, quello riguardo a Mt 6,22s, mentre qui volevamo
chiudere il presente tema, esso è stato stralciato e presentato all'interno di
un articolo come tesi, a cui do risposta. Invitiamo quindi il lettore a leggere
qui:
►
Matteo 6,22-23 fra supposizioni e realtà. {Nicola Martella} |
8. {Tonino Mele} ▲
Ho chiesto a Tonino Mele di
scrivere sul tema una parola conclusiva (caso mai non arrivasse ancora una di
Nicola Berretta). Mi sembra che ci sia ben riuscito. Tralasciamo qui di seguito
la questione aramaico / ebraico quale entroterra linguistico degli autori del
NT, su cui c’è disparità di opinioni. Qui si ritiene concluso per ora questo
tema così interessante, lungo e impegnativo. {Nicola Martella} |
Cari Argentino e Nicola, è molto interessante e istruttivo vedervi dibattere su
un tema così complesso. Anch’io, come Nicola Berretta mi sento «inadeguato» ad
affrontare tale tema, almeno a tirarlo su come voi avete fatto e se ora prendo
la parola, è semplicemente per fare una riflessione, sulla scorta dei vostri
ragionamenti e di qualche altro elemento emerso da una mia breve ricerca
sull’argomento.
Anzitutto vorrei spezzare una lancia a proposito della
«sfrontatezza» d’Argentino. Io credo che, per certi versi essa vada vista come
un osare, un fare affermazioni controcorrente, un fare ipotesi che siano di
stimolo alla ricerca, anche se all’inizio non hanno l’avvallo di nessuno e
magari, invece di scoprire le Indie, si scopre l’America. In effetti, è anche
grazie a tale «sfrontatezza» che c’è stato questo bel confronto e abbiamo preso
maggior coscienza di come la lingua e la forma mentis originarie aiutino
a capire meglio certi passaggi della Scrittura. È vero che in generale, le tesi
d’Argentino sono oggi disattese dalla maggioranza degli studiosi, però è
interessante vedere quanti studiosi sono dalla sua parte, ad esempio
sull’esistenza d’un originale Evangelo aramaico di Matteo. Quella che segue è
una lista fatta da Salvatore Capo ed è tratta dal sito mednat.org:
«P. Vannutelli, 1933; P. Martinetti, 1964; P. Gaechter, 1964; J. A. T. Robinson,
1976; R. H. Gundry, 1983; J. Carmignac, 1985; S. Ben Chorin 1985; R. A. Pritz,
1988; R. T. France, 1989; A. J. Saldarini, 1994; M.-E. Boismard, 1994; H.-J.
Schulz, 1996; P. Lapide, 1996; J. M. Garcìa, 2005.». Questa lista la dice lunga
su che tipo di «sfrontatezza» stiamo parlando.
Ciò premesso, bisogna tuttavia dire che, allo stato
attuale delle cose, per decidere correttamente su tutta la questione, bisogna
tracciare una chiara linea di demarcazione tra ciò che è provato e ciò che è
ipotetico. Ed è qui che quel grado di «sfrontatezza» di cui è fatta la miglior
ipotesi, non deve trasformarsi in cocciutaggine, che dà per certe «prove»
puramente indiziarie. L’ipotesi è utile alla verità finché resta un punto
d’avvio che stimola la ricerca che porta alla verità. Quando viene sacralizzata
quale punto d’arrivo e viene scambiata per la verità, non solo abbiamo smarrito
la verità ma forse, anche la via per arrivarci. È in base a questa linea di
demarcazione che oggi, la maggioranza degli studiosi non prende molto in
considerazione l’ipotesi d’un testo originale aramaico degli Evangeli. Già nel
1950 F.F. Bruce scriveva: «Alcuni studiosi hanno ipotizzato che i nostri
Evangeli siano stati effettivamente scritti in aramaico e poi tradotti in greco.
Tuttavia, le prove sono contro una tale ipotesi… In opere che riportano
le espressioni di gente che parlava l’aramaico, e alcune scritte da autori la
cui lingua materna era l’aramaico, ci aspetteremmo tracce d’aramaismi… Questo è
tutto quanto possiamo dire in base alle espressioni usate da Gesù e da altri che
parlavano aramaico. Ma non possiamo accettare in modo acritico teorie che
presentano i nostri Evangeli come traduzioni d’originali aramaici» [F.F.Bruce,
Rotoli e Pergamene (Piemme, Casale Monferrato 1994), pp. 69.54]. Dopo mezzo
secolo le cose, sostanzialmente non sono cambiate: l’ipotesi è rimasta una serie
d’indizi senza la prova fondamentale.
Da un punto di vista teologico bisogna poi rilevare che
questa teoria può assumere dei contorni molto rischiosi: e qui condivido anch’io
in pieno i timori di Nicola Berretta. Il «Sola Scrittura» rischia davvero di non
essere più «sola». Quali sono i testi originali: quelli scritti o quelli
tradotti? Quali sono gli «originali» vincolanti per noi: quelli aramaici [o
ebraici, n.d.r.] o quelli greci? Quelli più vicini allo scrivente aramaico [o
ebraico, n.d.r.] o al ricevente greco? Se veramente esiste una tale spaccatura
tra l’uno e l’altro, la domanda è molto pertinente. Ma la cosa che più mi fa
sobbalzare è il grado di soggettivismo e d’arbitrarietà a cui può condurre
questa sorta di «decodificazione aramaica [o ebraica, n.d.r.] del testo greco».
Cito di seguito da una recensione d’Antonio Socci al libro di Josè Miguel
Garcia, La vita di Gesù nel testo aramaico dei Vangeli (Rizzoli, 2005),
pubblicata su Panorama online. Riporto alcune delle conclusioni a cui è giunto
Josè Miguel Garcia «leggendo» questo presunto «testo aramaico dei vangeli».
■ «Si sono stampate montagne di libri, ipotizzando
altri figli di Maria o di Giuseppe o l’esistenza di “cugini”. Tutto sbagliato.
Il testo aramaico dei Vangeli mostra che “fratelli” sono chiamati tutti gli
apostoli e in genere i discepoli di Gesù. E il passaggio in cui si dice che
Gesù è sommerso dalla folla, da ore, e “i suoi congiunti” andarono a prenderlo
perché lo ritenevano “fuori di sé”, in realtà va letto così: i suoi amici gli
portarono del cibo perché era stremato dalla fatica».
■ «…alle nozze di Cana: egli non rivolge a sua madre
parole dure (come parrebbe dalla traduzione italiana) per la sua richiesta di
soccorrere quei poveretti, ma le dice una frase da cui traspare un’immensa
venerazione: “non per me, bensì per te, donna, è giunta opportuna la mia ora”».
■ «Un altro passo contestato, soprattutto dai
protestanti, è l’investitura di Pietro a Cesarea. Sotto il greco c’è un testo
aramaico davvero clamoroso. L’attuale traduzione italiana recita: “e impose loro
severamente di non dire questo di lui a nessuno” (Mc 8,30). Ma l’originale
recita: “E (Gesù) impose loro severamente di vedere sempre in lui [in Pietro,
ndr] il Figlio dell’uomo”».
■ «…impressionante anche il momento in cui Gesù lava i
piedi ai suoi amici, investendoli del potere sacerdotale: egli manifesta loro
“la sua contentezza, poiché, grazie a loro, potrà morire nuovamente, bere di
nuovo il calice che bevette sul calvario”».
■ «A proposito della sindone. I testi tradotti dicono
che, dalla croce, “presero il corpo di Gesù e lo avvolsero in bende” (Gv 19,40),
ma l’originale aramaico recita: “presero il corpo di Gesù e lo avvolsero in una
doppia tela di lino”. Che è la perfetta descrizione, rinvenuta oggi, anno
2005, della Sindone di Torino».
Che
dire? Che anche la chiesa cattolica ha trovato la sua «Scrittura» con la quale
legittimare le sue dottrine? Visto che il «Sola Scrittura» finora conosciuto era
troppo ingombrante per essa, ora si voglia rifare con un «Sola Scrittura» tutto
aramaico [o ebraico, N.d.r.]?
A parte gli scherzi, credo che, e concludo, pur
salvaguardando la forma mentis aramaica [o ebraica, N.d.r.] che sta
dietro a diverse espressioni e parole greche del Nuovo Testamento (e qui credo
che Argentino abbia ancora da insegnarci), sono quelle parole greche che, fino a
prova contraria, rimangono il «Sola Scrittura» sulla base del quale verificare
ogni altra affermazione su Dio, la fede e la condotta. Del resto già si
distingue tra greco classico e greco «del Nuovo Testamento», il quale è
fortemente legato alla Koiné e al retroterra ebraico e aramaico dei suoi autori.
Postulare testi di transizione, oltre che non avere prove documentarie rischia
di creare più problemi di quanti ne risolva.
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