Dobbiamo metterci tutti il cuore in pace che qualsiasi traduzione della Bibbia è
già di per se stessa un’interpretazione (o forse meglio una parafrasi).
La lingua italiana ha più di 900.000 parole, l’ebraico
ne ha 60.000. Questo significa che in media per ogni parola ebraica da tradurre
ne abbiamo a disposizione 15 in italiano. Se poi il traduttore nella scelta
della parola più appropriata si lascia condizionare dalla sua teologia, ci
troviamo in un bel pasticcio. Le cose non sono migliori nel Nuovo Testamento
perché la lingua greca si trova a esprimere dei concetti ebraici, e non sempre
ci riesce. Inoltre, molte parole, in ebraico, hanno sfumature di significato che
non esistono in italiano. Un esempio classico è la parola ebraica Torah
che significa «istruzione, insegnamento» che viene tradotta in greco con
nomos «Legge», perdendo così molto del suo significato originario. Il
concetto che ha un ebreo della parola Torà è ben diverso di quello che abbiamo
noi della parola Legge (nomos).
Per l’approfondimento del concetto «Torà» cfr. in Nicola Martella,
Manuale Teologico dell’AT (Punto°A°Croce, Roma 2002), gli articoli «Insegnamento», pp. 187s;
«Istruzione», pp. 198s. |
A costo d’essere considerato immodesto, colgo l’occasione per consigliare ai
nostri Istituti Biblici di non focalizzare troppo la loro attenzione sulla
teologia greca ed ellenistica, correndo il rischio di non munire i loro studenti
con gli strumenti adatti che permetterebbero loro di fare una seria esegesi
biblica. Questa è sicuramente una dichiarazione forte, ma sin troppo vera e
triste. Bisogna studiare l’ebraico, la storia, la cultura e letteratura giudaica
e rabbinica anche per comprendere il Nuovo Testamento. Il Nuovo Testamento è
stato scritto in greco, ma Gesù parlava in ebraico.
Possiamo notare ciò per esempio nella parabola del
«figliuol prodigo»: «E
venne a suo padre; ed essendo egli ancora lontano, suo padre lo vide, e
n’ebbe pietà; e corse, e gli si gettò al collo, e lo
baciò. E il figliolo gli disse: “Padre, io ho peccato contro al cielo,
e davanti a te, e non sono più degno d’esser chiamato tuo figlio”. Ma
il padre disse: “…e vestitelo, e mettetegli un anello in dito,
e delle scarpe nei piedi. E menate fuori il vitello ingrassato, e
ammazzatelo, e mangiamo, e rallegriamoci”» (Luca 15,20-23 versione
Diodati)
Questo passo è un eccellente esempio d’una
caratteristica sintassi ebraica. Il greco, come altre lingue europee, non
struttura questo genere di frase ripetendo continuamente la congiunzione «e». Il
greco preferisce subordinare una proposizione indipendente alla proposizione
principale della frase. Ad esempio: «Quando mi sono svegliato, mi sono vestito.
Non appena fatta colazione, mi sono lavato i denti. Poi ho letto il giornale del
mattino, quindi sono andato al lavoro». L’ebraico, invece, preferisce unire le
proposizioni con la congiunzione «e». Per un europeo, quest’uso continuo della
«e» distoglie e a volte irrita. In ebraico, l’esempio precedente sarebbe letto:
«E mi sono svegliato e mi sono vestito e ho fatto colazione e ho lavato i denti
e ho letto il giornale del mattino e sono andato al lavoro».
Vediamo spesso la stessa sintassi nel Vecchio
Testamento. Un esempio: «E
la terra era una cosa deserta e vacua; e tenebre erano sopra la faccia
dell’abisso e lo Spirito di Dio si moveva sopra la faccia dell’abisso
e Iddio disse: Sia la luce. E la luce fu e Iddio vide che la luce era
buona e Iddio nominò la luce Giorno, e le tenebre Notte e [trad.
«così»] fu sera, e poi fu mattina, e (trad. «che») fu il primo
giorno» (Gn 1,2-5 versione Diodati).
Dove voglio arrivare con questi discorsi? Voglio
arrivare a dire che delle parole che troviamo nelle nostre Bibbie non
significano quello sembrano significare. Se avessimo a disposizione una
traduzione ebraica, vedremmo una gamma più ampia di significati in molte della
parole utilizzate. Per esempio, in ebraico, «casa» non significa solo una
«abitazione», ma «patria», «famiglia», «discendenza», «tribù», «stirpe», una
«scuola rabbinica» (cioè, i discepoli d’un certo maestro) e «tempio». Può anche
voler dire «ricettacolo», così come «posto» o «luogo». In ebraico, «figlio» può
voler dire non solo «una prole maschia», ma anche «discendente», «cittadino»,
«membro» e persino «discepolo».
Per l’approfondimento cfr. in Nicola Martella,
Manuale Teologico dell’AT (Punto°A°Croce, Roma 2002), l’articolo «Lingua – mentalità – approccio al
mondo», pp. 216s; cfr. anche «Globalità», p. 180. |
Spesso intere frasi, anche interi passi, dei nostri Evangeli traducono parola
per parola un originale ebraico. Quando Gesù ha mandato in missione i suoi
discepoli, ha detto loro: «E in qualunque casa entriate, dite prima: “Shalom
a questa casa”. E se vi è un figlio di shalom, il vostro shalom si
poserà su di lui; se no, esso ritornerà a voi» (Luca 10,5,6). In italiano, è
inutile parlare così, non si dice «shalom» o «pace» a una casa, né può la
«pace» posarsi su qualcuno o ritornare da qualcuno. In ebraico, però, tutto
questo ha un suo proprio e profondo significato.
Questi esempi illustrano come gli idiomi ebraici sono
entrati nelle nostre traduzioni quasi inosservati. La parte sfortunata della
storia è che molti di questi ebraismi sono spesso inosservati dai nostri
traduttori, inclusi quelli delle traduzioni più recenti.
Nel Nuovo Testamento le parole non vogliono dire sempre
quello che sembrano voler dire. Ecco alcuni esempi qui di seguito.
■ Ricordare: «E Dio si ricordò anche di
Rachele… così ella concepì e partorì un figlio». «Ricordare» a volte
significa «concedere un favore a qualcuno» o «intervenire a favore di», come in
Gn 30,22s. Potremmo mai supporre che Dio abbia dimenticato Rachele e che poi
improvvisamente si sia ricordato di lei? Certamente no!
In Gn 40,14 Giuseppe ha chiesto al capo-coppiere di
«ricordarsi» di lui quando sarebbe stato ripristinato nella sua posizione alla
corte di Faraone. Ma il capo-coppiere non si è affatto «ricordato» di Giuseppe,
anzi l’ha «dimenticato» come è dichiarato nel v. 23. Dovremmo supporre che
Giuseppe abbia chiesto al capo-coppiere di ricordarsi di lui nel senso di
pensarlo di tanto in tanto? No, Giuseppe chiedeva al capo-coppiere d’intercedere
a suo favore con Faraone. In Luca 23,42 il ladro sulla croce fece una richiesta
a Gesù: «Ricordati
di me quando verrai nel tuo regno». Gesù non ha aspettato per concedere il
favore. La sua risposta immediata fu: «Oggi tu sarai con me in paradiso».
■ Dimenticare: «Il capo-coppiere però non si
ricordò di Giuseppe, ma lo dimenticò». «Dimenticare» è un’altra
parola che non sempre significa quello che sembra nelle traduzioni italiane
della Bibbia. Può significare «non intervenire a favore di» o «abbandonare».
Come in Gn 40,23, citato sopra, il capo-coppiere «dimenticò» Giuseppe o più
semplicemente, non fece niente per lui. In 1 Sm 1,11, Anna pregò il Signore di
«non dimenticare» la sua serva, o abbandonarla, ma di «ricordarsi» di lei; in
altre parole, di mostrarle favore con un figlio.
■ Cielo: «Il battesimo di Giovanni da dove
veniva? dal cielo o dagli uomini?». Al tempo di Gesù, i Giudei avevano
sviluppato una certa avversione a utilizzare il nome di Dio per paura di violare
il terzo comandamento. Essi hanno sostituito il nome di Dio con dei sinonimi
come «il Nome» (Ha Shem), «il Luogo», «la Potenza» e «Cielo» (come in Mt 21,25).
Nella frase «Regno dei Cieli», questa sostituzione è vista ancora più
chiaramente. In Luca 15,18 il figlio prodigo dice: «Ho peccato contro il
cielo…». Qui «cielo» è un chiaro sostituto per «Dio».
■ Giustizia: «La mia rettitudine è vicina, la
mia salvezza sarà manifestata…» (Is 51,5). In ebraico, ci sono molti
sinonimi per «salvezza». La stessa parola «salvezza» è poco utilizzata
(contrariamente a quello che ci si potrebbe attendere, il sostantivo «salvezza»
ricorre solo sette volte negli Evangeli). Altre parole esprimono questo concetto
in maniera più forte. La «rettitudine» è un sinonimo di «salvezza». Sion è
chiamata «la città della
giustizia» (Is 1,26). Il germoglio di Davide è chiamato «L’Eterno nostra
giustizia» (Gr 23,6; 33,16). Nella sua distretta, Davide chiese a Dio di
punire i suoi nemici: «Aggiungi questa colpa alla loro colpa, e non giungano mai
ad aver parte della tua giustizia. Siano cancellati dal libro della vita
e non siano iscritti fra i giusti» (Sal 69,27,28). Gesù ha esortato i
suoi discepoli: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia» (Mt
6,33). «Beati sono coloro che sono affamati e assetati di giustizia» (Mt
5,6). Di loro è il regno dei cieli (Mt 5,10).
Per l’approfondimento della «giustizia redentiva» e della «giustizia punitiva» cfr. in Nicola Martella,
Manuale Teologico dell’AT (Punto°A°Croce, Roma 2002), l’articolo «Giustizia di Dio», pp. 178s; cfr.
anche «Giustizia», pp. 177s; «Giusto», pp. 179s. |
«Ecco il mio servo che io ho scelto; l’amato mio in cui l’anima mia si è
compiaciuta. Io metterò il mio Spirito su di lui, ed egli annunzierà la
giustizia alle genti» (Mt 12,18; Is 42,1). Anche la parola ebraica
«giudizio» (o «giustizia») può significare «salvezza». Nello stesso modo, il
verbo «giudicare» spesso significa «salvare». Quando Davide è nella distretta,
egli grida, «Fammi giustizia, o Dio…» (Sal 43,1). I giudici del Vecchio
Testamento erano i salvatori e i liberatori del popolo, e non solo giudici nel
senso moderno della parola. Dio è chiamato «il giudice» (Gdc 11,27; Is
33,22), o «il giudice di tutta la terra» (Gn 18,25; Sal 94,2). «Giustizia
e diritto formano la base del tuo trono» (Sal 89,14). Ripetutamente, il
profeta Isaia usa la parola «giudizio» come sinonimo di «salvezza»: «Perciò la
rettitudine è lontana da noi e la giustizia non giunge fino a noi…
aspettiamo la rettitudine, ma essa non giunge; la salvezza, ma essa è lontana da
noi… La rettitudine si è allontanata e la giustizia è rimasta lontana»
(Is 59,9.11.14).
Naturalmente «giudizio» non è sempre un sinonimo di
«salvezza» nella Bibbia. Esso è spesso sinonimo di «distruzione» o «dannazione».
Come, allora, possiamo distinguere tra i
due significati? Non possiamo farlo, a meno che non siamo consapevoli che
il testo che leggiamo è una traduzione dall’ebraico, e a meno che non sappiamo
che la parola ebraica «giudizio» ha dei significati aggiuntivi che non esistono
in italiano. Equipaggiati con tali conoscenze, possiamo fare quello che un
qualunque lettore ebreo fa — decidere sulla base del contesto quale significato
è richiesto alla parola «giudizio».
■ Ubbidire: Un altro esempio: «Mosè stesso
infatti disse ai padri: "Il Signore Dio vostro susciterà per voi un profeta come
me in mezzo ai vostri fratelli; ascoltatelo in tutte le cose che egli vi dirà. E
avverrà che chiunque non ascolterà quel profeta, sarà distrutto tra il popolo"»
(Atti 3,22s; Dt 18,15.18s). «Ascoltare», a volte significa «ubbidire», come in
Luca 9,35: «Questi è il mio amato Figlio; ascoltatelo».
Per l’approfondimento del termine «ascoltare» cfr. in Nicola Martella,
Manuale Teologico dell’AT (Punto°A°Croce, Roma 2002), l’articolo «Ascoltare (attivamente)», pp. 94s; cfr. anche «Udire
intelligente», p. 370. |
Da
quel poco d’ebraismo di cui ho parlato, si può facilmente vedere l’importanza di
leggere il Nuovo Testamento ebraicamente. Solo quando iniziamo a riscoprire
l’ebraico che si cela dietro il greco del Nuovo Testamento (specialmente degli
Evangeli) ci sarà possibile
capire completamente le parole di Gesù. Si può solo sperare che presto ci sia
una nuova traduzione basata su una comprensione ebraica del testo. Personalmente
non ci spero molto, ma Dio può fare l’impossibile.
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Traduzioni, lingue bibliche e mentalità ebraica? Parliamone {Nicola Martella} (T)
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_BB/A2-Traduzioni_ebraicita_Esc.htm
26-05-2007; Aggiornamento: 10-06-07
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