Un taglio netto alle convenzioni anti-bibliche e pseudo-bibliche, all'ignoranza e alle speculazioni — Ein klarer Schnitt zu den anti-biblischen und pseudo-biblischen Konventionen, zur Unwissenheit und den Spekulationen — A clean cut to the anti-biblical and pseudo-biblical conventions, to the ignorance and the speculations — Une coupe nette aux conventions anti-bibliques et pseudo-bibliques, à l'ignorance et aux spéculations — Un corte neto a las convenciones anti-bíblicas y pseudo-bíblicas, a la ignorancia y a las especulaciones

La fede che pensa — Accettare la sfida nel nostro tempo

«Glaube gegen den Strom»: Für das biblische Unterscheidungsvermögen — «Faith countercurrent»: For the biblical discernment — «Foi contre-courant»: Pour le discernement biblique — «Fe contracorriente»: Por el discernimiento bíblico

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Dall’avvento alla parusia

 

Interpretazione biblica

 

 

 

 

La prima parte del «Panorama del NT» porta il titolo «Dall’avvento alla parusia», ossia dalla prima alla seconda venuta del Signor Gesù. Questo titolo evidenzia la tensione in cui erano posti i cristiani del primo secolo (e noi oggi). Essi guardavano indietro all’incarnazione, ai patimenti e alla risurrezione di Gesù quale Messia (primo avvento) e guardavano parimenti avanti alla manifestazione del Signore, del suo regno e della sua salvezza. Il termine «avvento» mette quindi in evidenza l’abbassamento del Messia , mentre «parusia» (gr. parousía «venuta, arrivo») evidenzia la manifestazione gloriosa del Signore alla fine dei tempi. Questo è altresì l’uso che si fa di questi due termini nella teologia.

   Ecco le sezioni dell'opera:
■ Aspetti introduttivi
■ Gesù di Nazaret
■ Gli Evangeli
■ Dall’ascensione alla fine dei tempi
■ Aspetti conclusivi

 

► Vedi al riguardo la Recensione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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SINCRONIA E DIACRONIA

TRA DICOTOMIA E COMPLEMENTARIETÀ 1

 

 di Tonino Mele

 

1. Introduzione

2. Verso un nuovo concetto di metodo

3. I nuovi sviluppi della linguistica

Prima parte

 

Clicca sulle frecce iniziali per andare avanti e indietro

 

Questo articolo lo presentiamo in due parti, a causa della sua lunghezza, specificità e difficoltà di comprensione per tanti lettori. Esso non è destinato a tutti, ma solo a quei lettori che sono appassionati dell’interpretazione del testo biblico, quindi di ermeneutica, di esegesi contestuale, di linguistica e discipline affini.

    Tale approfondimento rappresenta la risposta di Tonino Mele a uno studio precedente di Francesco Grassi: ► Per un’analisi lessicale del testo biblico 1 | 2.

    Qui di seguito si fa uso dei termini «sincronico» e «diacronico». Col primo s’intende il significato di un termine in un certo momento della storia; mentre «diacronico» intende l’uso e lo sviluppo di un dato termine nel tempo. {Nicola Martella}

Seconda parte

 

 

1.  INTRODUZIONE: L’articolo pubblicato nel sito dal titolo «Per un’analisi lessicale del testo biblico 1» è un buon articolo, che merita d’essere letto e approfondito anche da chi potrebbe, a una prima lettura, trovarlo difficile e «pesante». È un articolo interessante, che rivela la dimestichezza dell’autore con certi approcci allo studio della Bibbia che, è vero, non hanno molta eco nella nostra realtà evangelica italiana. Con una ricerca un po’ certosina, cose interessanti e utili si possono trovare anche qui in Italia, ma poi vanno anche rielaborate, valutate e collocate in un discorso ordinato e lineare. L’autore dell’articolo, attingendo da fonti perlopiù nordamericane, ha fatto questo per noi, dandoci una rappresentazione, forse per molti nuova, di quelli che sono gli sviluppi della ricerca biblica, alla luce anche delle importanti acquisizioni delle scienze linguistiche. Siamo dunque grati all’autore di questo e lo incoraggiamo a darci ancora contributi del genere.

     Tuttavia, bisogna dire che l’impianto piuttosto polemico dell’articolo, ha portato l’autore a compiere qualche «fuga in avanti», finendo per polarizzare e radicalizzare un po’ troppo le sue posizioni. Infatti, a tratti si ha l’impressione che egli corra troppo, quasi come una «staffetta» che, dopo aver raccolto qualche mia affermazione, la porta avanti in modo sempre più distante dal «mio» pensiero. Così facendo, il confronto si trasforma in una sorta di «non dialogo», dove il flusso del pensiero non è più regolato dalla correlazione dialogica dell’uno di fronte all’altro (confronto appunto), ma in una sorta di monologo dell’uno senza l’altro. Si pensa d’aver capito tutto del proprio interlocutore, quindi ci si proietta in avanti con i suoi pensieri, in una logica serrata, che non solo smarrisce il vero pensiero dell’altro, ma finisce per sbilanciare anche il proprio pensiero, rischiando di cadere dalla parte opposta.

     Anche se ho affermato che «bisogna conoscere l’uso diacronico d’un termine, prima» di fiondarci nello studio sincronico, non ho voluto dare assolutamente nessuna preminenza al primo, né dire che tale metodo decide le sorti della mia esegesi, né tanto meno dire che il senso lessicale d’un termine deriva dalla sua etimologia. Questo non m’appartiene e basta rileggere il mio studio su 2 Pietro 1,3-4, dove non ho attribuito a questi versetti «sensi lontani», neppure se distanti solo di qualche capitolo (allusione al cap. 3), ma ho cercato nella struttura, nelle parole ripetute (epignosis) e nel senso del cap. 1, il significato dei versetti in questione. Più sincronico di così? Anzi, lamentavo proprio che l’articolo «Natura divina e incorruttibilità in 2 Pietro 1,3-4», non è stato sufficientemente vicino alla problematica del capitolo 1, quindi insufficientemente «sincronico»…

     Per quanto riguarda invece lo «sbilanciamento» presente nell’articolo, questo sarà il tema del presente scritto. La mia tesi è che la relazione tra sincronia e diacronia nello studio della Bibbia, non va vista in modo dicotomico, cioè come una contrapposizione rigida e netta, ove l’uno esclude l’altro o lo include in casi molto circoscritti (vedi il punto 4 dell’articolo «Per un’analisi lessicale del testo biblico 2»). Per contro, la mia tesi è che la relazione tra sincronia e diacronia nello studio della Bibbia, va vista in maniera più complementare, cioè come un’interazione di metodi, che aiutano l’esegeta a precisare il senso dei vari testi della Scrittura. A tal fine, ci adopereremo d’una concezione meno rigida del concetto di «metodo», dei nuovi sviluppi della linguistica e dei nuovi sviluppi dell’esegesi moderna, sia sotto il profilo teologico che metodologico.

 

 

2.  VERSO UN NUOVO CONCETTO DI METODO: Leggendo l’articolo «Per un’analisi lessicale del testo biblico 1», mi ha colpito l’enfasi che viene data alla parola «prima», da me usata, quando ho affermato: «Prima di studiare l’uso sincronico d’un termine, bisogna comunque conoscere l’uso diacronico dello stesso». Riprendendo questa mia espressione, l’autore arriva persino a costruirvi la seguente tesi di fondo del suo articolo: «Nell’analisi lessicale… alcune cose ne precedono altre. La tesi di quest’articolo è che lo studio sincronico preceda quello diacronico. Se si vuole evitare di cadere nell’errore etimologico, allora è importante riconoscere la differenza fra i due metodi e la priorità dell’uno sull’altro. È possibile infatti che uno voglia dare pari importanza a entrambi i metodi, o che voglia addirittura invertirne l’ordine: sarebbe la stessa cosa? Avremmo gli stessi risultati? Non importa veramente cosa preceda cosa?».

     Indubbiamente, l’autore ha ragione nel dire che il fare le cose con un certo ordine porta dei vantaggi. Tuttavia, quando dice che invertire un certo ordine metodologico, significa, per forza di cose «cadere nell’errore etimologico» e avere dei «risultati» sballati, egli sta facendo un ragionamento viziato per due motivi: ▪ 1. Fa delle «valutazioni di merito» e da dei «giudizi di valore», laddove dovrebbe limitarsi a fare delle «valutazioni di metodo»; ▪ 2. Sopravvaluta il metodo e lo pone anche al di sopra dell’esegeta. Esaminare questi due aspetti risulterà utile per capire meglio il ruolo che il metodo deve avere nel nostro processo di studio della Parola di Dio.

 

2.1.  VALUTAZIONI DI METODO E DI MERITO: Nella nostra valutazione delle cose non bisogna mai confondere piani e categorie diverse. Non posso usare categorie estetiche (attinenti all’esteriore, al bello ecc.) per definire categorie etiche (attinenti alla morale, a ciò che è giusto o sbagliato ecc.). Non posso dire che chi è bello, bianco e ricco, è anche necessariamente buono e giusto. Potrebbe anche essere così, ma non è automatico o scontato. Le due categorie non si corrispondono per forza di cose. E per capire quanto può essere deleterio usare una categoria per definire e valutare l’altra, basta fare l’esempio contrario a quello fatto. Immaginiamo dove ci porterebbe l’idea che il brutto, il nero e il povero (categorie estetiche) sono necessariamente e per forza di cose anche cattivi (categoria etica e morale). È molto probabile che alla base di certi fenomeni di pregiudizio sociale come il razzismo, ci sia un modo siffatto di valutare cose e persone, che muove appunto da una confusione di piani e categorie diverse.

     Tornando a noi, bisogna sfatare l’idea che il dare priorità temporale a un metodo, significhi dargli anche «preminenza» in termini di valore. Si può considerare più importante il metodo sincronico (come in effetti lo considero) e nella prassi di studio iniziare dal metodo diacronico. È illogico? È poco produttivo? È poco opportuno? È una perdita di tempo? L’autore dell’articolo ci ha illustrato molto bene e con ragione che lo è (vedi punto 2.1. e 3.2.), ma si sarebbe dovuto fermare qui. Dire che questa è la via obbligata per l’errore etimologico, significa finire male un ragionamento iniziato bene. Per «finire bene», si sarebbe dovuto dire che un metodo anziché un altro può portare «prima» a un risultato, ma non necessariamente falsarlo. È anche matematico: «Invertendo l’ordine dei fattori, il risultato non cambia». E sulla scia di quest’analisi, mi permetto di rigirare nei confronti d’un certo rigorismo metodologico-etimologico, qualche domanda di riflessione più generale: è giusto trarre le mosse da considerazioni d’ordine metodologico e, diciamolo pure, da qualche ingenuità d’ordine etimologico e linguistico per parlare di «servitori meno attenti» e di «conseguenze che paga la chiesa»? Ciò che mi preoccupa nella frase di Silva, non è il «meno attenti», ma il «servitori»! Non si finisce così per fare «giudizi di valore», che travalicano il piano in questione, che è semplicemente metodologico? Qui è opportuno citare le parole del Kuen: «Occorre una certa dose di presunzione per pensare che abbiamo dovuto aspettare il XX secolo per trovare il modo di comprendere la Parola che Dio ha donato al suo popolo come rivelazione della sua volontà. Tutti i credenti che ci hanno preceduto si sarebbero dunque smarriti su false piste? I principi da essi pazientemente elaborati e che hanno ottenuto il consenso di quanti hanno studiato la Bibbia con serietà sarebbero tutti da buttare nella spazzatura per adottare la nuova ermeneutica?».[1]

     Inoltre, per dimostrare come un metodo, che pone «prima» lo studio diacronico dello studio sincronico, non toglie niente al valore e al merito di quest’ultimo, non ci fionda necessariamente nell’errore etimologico, ma anzi può spianare la strada al metodo sincronico, basta citare il manuale d’esegesi dell’IBEI, il cui autore riveste a tutt’oggi la «cattedra» di semantica biblica: «Un vantaggio dello studio diacronico (che potrebbe sembrare superfluo, visto che sono i risultati dello studio sincronico che c’interessano soprattutto) è che ci rende più sensibili a intravedere tutti i risultati nell’usus loquendi senza lasciare sfuggire quello che sarebbe meno ovvio se non avessimo una conoscenza di tutta la storia della parola. Un altro vantaggio è che la conoscenza guadagnata dallo studio diacronico rende la nostra comprensione e presa dell’usus loquendi più profonda, chiara e durevole. Quindi, riassumendo la discussione fatta finora, si deve fare prima un elenco di tutti i significati in tutti i campi semantici in tutta la storia della parola. Questo è lo studio diacronico. Poi si può stabilire quest’altro elenco più limitato di tutte le possibilità di significati nel campo semantico (cioè tutte le accezioni) nel periodo storico da cui proviene il brano biblico [studio sincronico]».[2] [N.d.R: L’usus loquendi è l’uso nel linguaggio corrente in un certo periodo di tempo, quindi l’uso sincronico in una certa area geografica.]

     Infine, non si può non ricordare un fenomeno che spesso riscontriamo nella pratica delle cose, allorché iniziamo con un progetto in mente, in base al quale seguire una sequenza logica e cronologica, che nella realtà finiamo per disattendere. Questa «sfasatura» tra metodo ideale ed esecuzione reale del metodo riguarda anche lo studio della Bibbia. Valdo Bertalot, descrivendo la procedura di traduzione della Bibbia, elaborata da uno degli autori del tanto osannato lessico «Low-Nida», cioè E. A. Nida, nel passaggio da una fase a un’altra del metodo, ha sentito l’esigenza d’avvisare il lettore con il seguente appunto: «Bisogna ricordare, però che in pratica la distinzione tra analisi[3], trasferimento[4] e ristrutturazione[5] non è sempre rispettata rigorosamente nel suo ordine logico. Nella sua analisi il traduttore ha già presente le esigenze delle altre due fasi, per cui assistiamo a un continuo interscambio».[6] Questo non significa che il traduttore perverrà necessariamente a un risultato falso, perché ha sempre in mente quali sono le vere discriminanti del suo lavoro ed è lui che prevale sul metodo come ci apprestiamo a considerare.

 

2.2.  PREMINENZA DELL’ESEGETA SUL METODO: L’idea che un metodo piuttosto che un altro, decida le sorti della nostra esegesi, finisce per dare troppo peso al metodo e poco all’esegeta, alla sua creatività e alla sua capacita di valutare e decidere del frutto delle sue ricerche. Qui sarebbe utile fare qualche studio sulla psicologia dell’interprete, per capire come certi «automatismi metodologici», presentati e accreditati come strade irreversibili verso un risultato, siano poco rispondenti alla realtà e servono solo ad accreditare se stessi e il proprio metodo. Se è vero che «il consenso generale» pende verso un approccio più sincronico allo studio della Bibbia, è anche vero che tale consenso si è spostato pure verso una concezione meno rigida del singolo metodo e una visione più integrata dei vari metodi.

    Il teologo Alfred Kuen ci dice qualcosa di molto interessante contro la sopravvalutazione del singolo metodo: «Ma, di fatto, quale nuova ermeneutica? Quella della “nuova critica”, dello strutturalismo, della teologia della liberazione, della scomposizione? Nel frattempo ci sarà una “nuova ondata” che cancellerà tutto ciò che sarà stato edificato sulla sabbia delle spiagge teologiche a partire dall’ultima “nuova ondata”... ogni nuova teoria letteraria di questi ultimi decenni è stata importata con qualche anno di ritardo e senza grande riflessione metodologica, nel campo cristiano. Ognuna d’esse ha attirato l’attenzione su un punto particolare: l’importanza del testo piuttosto che del suo contesto storico (nuova critica), delle convenzioni letterarie (strutturalismo)... Comunque, nessuna d’esse costituisce il metodo ideale; e il carattere unilaterale della loro insistenza torce generalmente il senso del testo. Inoltre, esse polarizzano indebitamente gli esegeti e creano divisioni tra di loro invece di contribuire a un’interpretazione convergente... Tutte le ermeneutiche bibliche moderne sono trasposizioni di metodi elaborati a partire da testi profani. Possono attirare la nostra attenzione su un aspetto o l’altro che l’approccio tradizionale ha trascurato... diverse strade d’accesso sono possibili...»[7].

     Anche Christopher Zito (docente dell’IBEI), nella recensione d’un libro sul Nuovo Testamento, che ha seguito un approccio sincronico di tipo letterario, dice qualcosa di molto illuminante sulla sopravvalutazione del metodo, qualunque esso sia: «In armonia con le più recenti Introduzioni al Nuovo Testamento, c’è molto spazio lasciato alle questioni letterarie. Il grande pregio di questo approccio è che permette al lettore d’esaminare gli scritti neotestamentari nel loro contesto basilare, ossia come opere letterarie e non come dimostrazioni scientifiche basate su preconcetti storici… C’è comunque un difetto che l’approccio letterario non evita, ossia limpressione falsa che dà d’essere, non solo il mezzo per eccellenza, ma anche un metodo in grado di trascendere la visione del mondo dello studioso che lo adopera. Chiaramente, chi sceglie un metodo lo fa perché lo ritiene efficace come strumento d’analisi. Sono tanti i metodi, però, che possono contribuire allo studio delle Scritture, e affidarsi a uno solo equivale a conseguire un solo genere di risultati; in questo caso, le disquisizioni a carattere letterario. Per di più, il pregio dell’approccio letterario al Nuovo Testamento diventa anche un difetto quando lo studioso non fa attenzione allo “spirito” del testo».[8]

     Si può citare inoltre Donald A. Carson, il quale, prendendo spunto dallo scritto di Marshall Essays in Principles and Methods (Saggi su principi e metodi), afferma qualcosa che rievoca la nostra distinzione tra metodo e merito[9]: «Ma quando gli “strumenti letterari” diventano principi ermeneutici” assumendo una dignità e un ruolo discriminante nella discussione al punto da decidere cosa sia o non sia corretto nell’interpretazione, non è solo l’arco semantico delle parole a venir posto in gioco». Parlando poi dello «strutturalismo» biblico, che in campo ermeneutico è l’erede più diretto delle idee Saussuriane, afferma: «L’ala estrema degli strutturalisti rinuncia del tutto al metodo storico-critico [diacronia] per concentrarsi sul testo nel suo insieme [sincronia]… Ritroviamo qui il pregiudizio nei confronti della storia, labbandono della diacronia, e poco interesse in quello che ha da comunicare il testo a livello “superficiale”». E parlando delle «lacune» dello strutturalismo lo definisce: «un metodo totalizzante d’avvicinarsi alla Scrittura (e alle altre forme di letteratura) che nella sua espressione più energica rende la storia poco importante e fornisce un metodo per evitare il trascendente a qualsiasi livello». Ma è nella conclusione di questo discorso che Carson dà dei giudizi di valore molto netti: «Alcuni movimenti con ramificazioni ermeneutiche hanno dato adito a delle attitudini un po’ esclusivistiche… Ad esempio, lo strutturalismo spesso cade in questa trappola. Tale atteggiamento va evitato in ogni maniera: non è assiomatico che uno o due metodi ermeneutici possano rivendicare a ragione i diritti esclusivi o una autorità sufficiente da escludere altri metodi… le posizioni ermeneutiche anche più impegnate al giorno d’oggi non permettono mai ad alcuno d’ascoltare una parola sicura da Dio… Sono alleate troppo strette d’ideologie inaccettabili, ove lunico assoluto è il linguaggio stesso. Nonostante ci sia molto da imparare da questi sviluppi ermeneutici, non dobbiamo inginocchiarci davanti ai loro altari».[10]

     Persino Elia Fiore, esperto di traduzioni bibliche, in un suo articolo titolato «Una nuova traduzione della Bibbia» — pur prendendo le mosse dalla «procedura di lavoro» di Moisés Silva e presentandola come antidoto contro i «risultati dannosi» della «filologia comparata e dell’etimologia» (giudizio di valore che condividiamo) — alla fine deve ammettere: «È bene precisare che nessuna delle suddette considerazioni dovrebbe essere applicata in modo meccanico. La guida dello Spirito Santo, innanzitutto, la consapevolezza non solo della dimensione umana, ma anche della dimensione soprannaturale della Bibbia quale rivelazione e la fluidità della lingua — la sua elasticità, se preferiamo — devono dominare la suddetta analisi semantica dall’inizio alla fine».[11] Non esiste dunque nessuna «procedura» che, in modo «meccanico» dia un risultato scontato e incontestabile. Sempre Fiore continua dicendo: «Anche se alcuni rimangono dell’opinione che l’elemento soggettivo, presente nelle varie discipline cosiddette “scientifiche” collegate allo studio e alla traduzione della Bibbia, è molto limitato, ultimamente molti studiosi si sono resi conto e hanno riconosciuto che, anche nella disciplina biblica apparentemente più oggettiva, cè un notevole grado di soggettività».[12]

     Insomma, affermare una visione dicotomica dei metodi di studio della Bibbia è qualcosa che appartiene più al passato che al presente. Si sa bene che Saussure ragionava così e che anche Barr ha seguito questa linea. Oggi, però, seguire in toto tali studiosi, significa riproporre una dicotomia ormai superata, che poteva avere un senso all’inizio della sua affermazione (come nuova acquisizione scientifica), quando c’era bisogno d’identificare il proprio alter ego, per poi distinguersi ed enucleare la propria identità. Riproporla oggi, significa riproporre una battaglia superata, che rischia d’essere più fuorviante di ciò, che si pensa di combattere. Perché? Perché dà alla propria posizione un senso di sufficienza e direi di completezza, che nelle «rivoluzioni scientifiche»[13] è giustificabile solo nel passaggio da un «paradigma scientifico» a un altro, ma dopo, ogni paradigma deve fare i conti con le proprie anomalie e non più con quelle del paradigma precedente. E visto che nel caso in questione le «anomalie» sono state già evidenziate e sono state superate con un nuovo «paradigma», dove la coppia diacronia-sincronia, è vista più in termini di complementarietà, riproporre la loro dicotomia, significa tornare indietro e fare un discorso unilaterale e incompleto che non fa giustizia né alla varietà delle lingue, né alla varietà dei testi della Scrittura.[14]

     Almeno, questo è ciò che apprendiamo con i nuovi sviluppi della linguistica e dell’esegesi.

 

 

3.  I NUOVI SVILUPPI DELLA LINGUISTICA: Sono stati gli stessi discepoli di Saussure — N. Trubeckoj, R. Jakobson, J. Tynjanov e Noam Chomsky — che hanno suonato la tromba dei nuovi approcci alla linguistica. Pur seguendo la traiettoria iniziata dal loro maestro, se ne sono staccati per dare più valore alla dinamicità e alla diacronicità della lingua, nonché alla complementarietà dei metodi di studio. Nell’Enciclopedia Garzanti di linguistica si può leggere: «Furono gli studiosi russi N. Trubeckoj, R. Jakobson e J. Tynjanov i primi a reinterpretare la diacronia come storia d’un sistema linguistico e dunque l’analisi diacronica come analisi della storia del sistema, ma anche ad affermare la complementarietà delle analisi sincronica e diacronica»[15] (faccio notare che, diversamente da ciò, Saussure identificava il metodo diacronico solo «come analisi, nel tempo, di singoli elementi linguistici»). E ancora si legge: «Nell’ambito delle indagini linguistiche, lo strutturalismo è sensibilmente receduto dalla posizione di metodo privilegiato che aveva negli anni Cinquanta, per lasciare il posto alla corrente generativistica promossa dagli studi di Noam Chomsky»[16] (N.B. James Barr ha pubblicato il suo libro Semantic of Biblical Language nel 1961).

     Intanto, già la cosiddetta scuola di Praga, a partire dal 1929, iniziò a entrare nel segno del cambiamento. Essa partiva da un nuovo concetto della lingua, «intesa come “sistema funzionale”, cioè come un sistema di mezzi espressivi appropriati alla realizzazione del fine comunicativo».[17] E quindi precisava così la sua metodologia di studio della lingua: «In quanto sistema, la lingua va studiata da un punto di vista sincronico, ma questo non s’oppone radicalmente a un punto di vista diacronico (come accadeva invece in Saussure): anzi è proprio lintegrazione delle due prospettive che consente una migliore comprensione strutturale; allo stesso fine va tenuto conto anche delle diverse funzioni che il linguaggio può svolgere, da quella comunicativa a quella poetica a quella emotiva».[18]

     Legato alla scuola praghese, ma da essa distinto per l’originalità della sua opera c’è R. Jakobson, che è stato definito «una delle figure più rappresentative della linguistica contemporanea».[19] Più avanti vedremo che la moderna teoria della traduzione della Bibbia ha trovato proprio in lui un suo referente linguistico, e questo non è di poco conto ai fini d’una teoria dell’esegesi che voglia stare al passo coi tempi. Intanto, di Jakobson è stato scritto qualcosa che è molto pertinente col discorso che stiamo tirando su: «R. Jakobson… ha radicalizzato la tesi praghese del nesso tra sincronia e diacronia fino a sostenere che le due prospettive sono indissolubili, nel duplice senso che il mutamento linguistico è parte del sistema stesso della lingua e che il punto di vista sincronico non si caratterizza come privilegiamento degli aspetti statici del sistema linguistico, bensì come tentativo di cogliere la struttura d’un complesso dinamico dei fenomeni linguistici».[20]

     Questo significa che si deve guardare al linguaggio non come una struttura statica da isolare nel tempo, ma una struttura dinamica, in continuo mutamento, che incorpora elementi diacronici e sincronici, che possono essere messi in luce non solo dal famigerato studio sincronico, ma anche da quello diacronico. E significa anche che la vecchia contrapposizione «diacronico» (inteso come passato) e «sincronico» (inteso come presente) va aggiornata con un approccio più globale, che intende il «diacronico» anche come futuro, come divenire. In questo caso, l’uso sincronico d’un termine non è altro che la parte presente d’un sistema ben più dinamico delle categorie, in cui lo ha posto Saussure, un sistema dove regna non la preminenza, ma la complementarietà tra elementi diacronici e sincronici. Forse Saussure si rivolterebbe nella tomba, se sapesse che i suoi posteri hanno abbandonato la netta distinzione, da lui operata, tra diacronia e sincronia e parlano più di complementarietà fra i due approcci.

     Con questo modo di procedere, Jakobson ha dato alla linguistica, contributi che altrimenti sarebbero stati impensati e impensabili. Qui non voglio dare tutto il merito al metodo, neppure quello integrato e complementare seguito da Jakobson. Semmai voglio attirare l’attenzione su quanto può essere restrittivo e riduttivo un metodo, quando viene sopravvalutato e presentato in modo esclusivo: la dicotomia diacronia-sincronia di Saussure ha finito infatti per restringere il campo d’indagine, impedendo di cogliere l’ampiezza del fenomeno linguistico. Grazie infatti a Jakobson, che ha saputo liberarsi di certe «camice di forza» metodologiche, oggi sappiamo qualcosa di più oltre l’aspetto denotativo d’una lingua [N.d.R.: «denotativo» = indicativo, dichiarativo, significativo; qui si riferisce al messaggio in sé]. Oggi conosciamo meglio il suo aspetto connotativo, che, vista la sua importanza nell’esegesi della Bibbia, parleremo meglio al punto 4 di questo studio [N.d.R.: «connotativo» = caratterizzante, meglio specificante; indica insieme un soggetto e uno o più attributi a esso relativi significativo; qui si riferisce anche al contorno del messaggio, al processo dinamico di comunicazione fra mittente e ricevente]. Con il celeberrimo «modello di comunicazione» di Jakobson conosciamo meglio anche la dinamica della lingua, la quale non è tutta interna a un messaggio, ma è legata anche a un mittente e a un destinatario nell’atto della comunicazione.

     Commentando il suo «modello di comunicazione linguistica», Gerardo Milani afferma quanto segue: «Il dato innovativo di questa classificazione, di cui Jakobson era consapevole [Mittente, Messaggio, Destinatario], consiste nel fatto che sino ad allora l’interesse dei linguisti era riservato prevalentemente al contenuto del messaggio e dunque alla funzione conoscitiva (o referenziale “denotativa”, “cognitiva”) come funzione primaria. Ora l’attenzione si sposta nella direzione dei due protagonisti: il mittente e il ricevente. L’atto della “ricezione”, nel quale si realizza il processo d’ascolto o di lettura, rappresenta il momento conclusivo dell’azione».[21]

     Per riprendere la metafora della famosa «partita a scacchi» di Saussure, non solo conta la posizione attuale delle pedine (piano strutturale e sincronico), ma anche la mano dei giocatori, il loro modo creativo, dinamico, poetico, emotivo di comunicare, la loro strategia. Le moderne teorie della comunicazione non parlano solo di messaggio, ma anche di messaggero e di ricevente. Hanno cioè un approccio più sistemico al linguaggio. Su questo punto, Alfred Kuen cita Longman, il quale afferma: «Ogni lettura implica l’interazione dell’autore con il lettore per mezzo d’un testo. Se una teoria si concentra su uno di questi tre elementi a esclusione degli altri, falsa la realtà».[22]

     Anche la grammatica generativo-trasformazionale di Noam Chomsky, della quale s’afferma che «ha determinato nella linguistica più recente una rivoluzione metodologica paragonabile a quella saussuriana»[23], ha saputo aggirare le restrizioni di Saussure, con importanti risultati. Nell’enciclopedia di linguistica su citata si può leggere: «Caratteristico della metodologia strutturale, la cui prima codificazione si ha nel Corso di linguistica generale (1916) di F. de Saussure, è il principio d’immanenza, cioè la limitazione dell’analisi e della modellizzazione linguistiche agli enunciati (ai loro elementi e alle relazioni tra elementi) con esclusione di tutto ciò che concerne le enunciazioni (parlanti, situazioni ecc.)… In relazione agli studi sintattici, l’analisi strutturale, a partire da enunciati realizzati (in particolare da un insieme chiuso di enunciati, definito corpus) quale base empirica, ha portato a trascurare fenomeni come la creatività linguistica, che è merito della grammatica generativo-trasformazionale aver rimesso in luce».[24]

     Insomma, un manuale di linguistica più aggiornato ci mostra che anche nella linguistica propriamente detta, concezioni e metodi di studio della lingua dicotomici e antitetici hanno ceduto il passo a concezioni e metodi di studio più complementari e integrati. E il risultato non è stato quello di sbagliare tutto o incunearsi in «false piste» o regressioni a periodi oscuri della linguistica, dove regnava l’oscure re dell’errore etimologico. No, il risultato è stato quello d’aprire nuove piste alla ricerca, che hanno dato una dimensione più esauriente del fenomeno linguistico. Stiamo attenti dunque a non mutuare tout court dalla linguistica o da qualche altra disciplina «scientifica», metodi, concezioni e atteggiamenti troppo rigidi, dimenticando il carattere di parzialità e di provvisorietà d’ogni acquisizione scientifica. E soprattutto, non usiamo questo fragile fondamento per emettere giudizi di valore sulla cosiddetta «ingenua» esegesi tradizionale.

 

■ 4. Nuovi sviluppi dell’esegesi: Aspetti teologici

5. Nuovi sviluppi dell’esegesi: Aspetti metodologici

6. Conclusione

Seconda parte

 



[1]. A. Kuen, Come interpretare la Bibbia (IBEI edizioni, 1991), pp. 366s.

[2]. Paul Currin, Principi di Esegesi, dispensa (IBEI, Settembre 1995), p. 32.

[3]. Analisi è un termine tecnico della traduzione della Bibbia, in cui è inserita l’analisi lessicale del testo biblico.

[4]. Trasferimento è un termine tecnico della traduzione della Bibbia, che descrive il passaggio del testo biblico dalla sua lingua originale a un’altra lingua.

[5]. Ristrutturazione è un termine tecnico della traduzione della Bibbia, che descrive quella ulteriore fase della traduzione che tiene conto dei livelli socioculturali della lingua ricevente e dei modi diversi in cui viene adoperato lo stesso linguaggio.

[6]. Valdo Bertalot, Tradurre la Bibbia (Elle Di Ci, Torino 1980), p. 54.

[7]. A. Kuen, Come interpretare la Bibbia (IBEI edizioni, 1991), pp. 366s.369.

[8]. Christopher Zito, Lux Biblica 31 (1 sem. 2005), pp. 221s.

[9]. Donald A. Carson, «L’ermeneutica: una breve valutazione di alcune tendenze recenti», Studi di Teologia 12 (1a serie; IBE, Roma 1983), pp. 223.238.250s; articolo pubblicato originariamente su Themelios nel 1980.

[10]. Donald A. Carson, L’ermeneutica: una breve valutazione di alcune tendenze recenti, Studi di Teologia N° 12, 1° serie (IBE, Roma 1983), pp. 223,238,250,251. articolo pubblicato originariamente su Themelios nel 1980.

[11]. Elia Fiore, «Una nuova traduzione della Bibbia», Lux Biblica 14 (IBEI, Roma 1996), p. 77.

[12]. Ibid., p. 79.

[13]. Le parole virgolettate di seguito sono tratte dal linguaggio dell’epistemologo e storico della scienza Thomas Kuhn.

[14]. Sul ruolo positivo, ma provvisorio della dicotomia, può valere questo esempio. Spesso nel confronto (di pensiero) con qualcuno, ricorro a una posizione dicotomica e antitetica, come anche nel caso di quest’articolo, ove a una prospettiva dicotomica dei metodi di studio e della coppia sincronia-diacronia, contrappongo una prospettiva complementare. Questo aiuta a sviluppare il mio pensiero su aspetti che l’altro non ha considerato e ne facilita la comprensione, quando lo espongo. Questo non significa buttare all’aria tout court il pensiero dell’altro e non significa aver elaborato il non plus ultra del mio pensiero. Infatti, prima o poi sorgerà qualcuno che farà notare le cose che io non ho considerato, le «anomalie» del mio pensiero. Questo processo è normale. È anormale quando io mi fisso su vecchie dicotomie e non mi confronto con le nuove prospettive.

[15]. AA.VV., Enciclopedia Garzanti di Filosofia e logica e linguistica ecc. (Garzanti Editore, 1993), p. 1059.

[16]. Ibid., p. 1115.

[17]. Ibid., p. 645.

[18]. Ibid.

[19]. Ibid.

[20]. Ibid.

[21]. Gerardo Milani, in www. filosofia.it.

[22]. A. Kuen, Come interpretare la Bibbia (IBEI edizioni, 1991), p. 369.

[23]. AA.VV., Enciclopedia Garzanti di Filosofia e logica e linguistica ecc. (Garzanti Editore, 1993), p. 646.

[24]. Ibid., p. 1115.

 

► URL:

http://puntoacroce.altervista.org/_BB/A2-Sincron_diacro_complement1_Avv.htm

08-06-2010; Aggiornamento: 29-06-2010

 

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