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1a PARTE: ENTRIAMO IN TEMA
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1.
Mosè
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2.
Geremia
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3.
Giobbe
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4.
Il profeta delle Lamentazioni
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5.
Giovanni Battista
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6.
«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» |
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Quando Dio prova i suoi fedeli fino a divenire per loro «come un orso»
(Lamentazioni 3,10)
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1.
MOSÈ:
Lamentarsi con Dio a volte non è peccato, perché Mosè l’ha fatto: «Mosè disse
all’Eterno: “Perché hai trattato così male il tuo servo? perché non ho trovato
grazia agli occhi tuoi, che tu m’abbia messo addosso il carico di tutto questo
popolo? L’ho forse concepito io tutto questo popolo? o l’ho forse dato alla luce
io, che tu mi dica: Portalo sul tuo seno, come il balio porta il bimbo lattante,
fino al paese che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri? Dove potrei
trovare carne da dare a tutto questo popolo? Perché piagnucola dietro a me,
dicendo: Dacci da mangiare della carne! Io non posso da me solo, portare tutto
questo popolo; è un peso troppo grave per me. Se è questo il modo con cui mi
vuoi trattare, ti prego, uccidimi subito,
se ho trovato grazia ai tuoi occhi; ma non permettere che io veda la mia
sventura!”» (Nu 11,11-15).
Anziché offendersi, Dio trovò queste parole sensate, infatti rispose con tutta
calma a Mosè, rimediando alle difficoltà nelle quali lo aveva posto. Dio lasciò
che il problema emergesse in tutta la sua drammaticità, ma poi ebbe subito
pronto il rimedio: «E l’Eterno disse a Mosè: “Radunami settanta uomini degli
anziani d’Israele, conosciuti da te come anziani del popolo e come suoi
funzionari; conducili alla tenda di convegno e là rimangano con te. Io scenderò
e là parlerò con te; prenderò quindi dello Spirito che è su di te e lo metterò
su di loro, perché portino con te il peso del popolo, e tu non lo porti più da
solo”» (Nu 11,16s).
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2.
GEREMIA:
Anche il profeta Geremia è condotto da Dio fino al «punto di rottura», cioè fino
a quel punto nel quale si perde l’autocontrollo e, senza più freni, lasciamo
prorompere tutta la nostra amarezza. Geremia arriva a dire: «Maledetto sia il
giorno che io nacqui! Il giorno che mia madre mi partorì non sia benedetto!
Maledetto sia l’uomo che portò a mio padre la notizia: “Ti è nato un maschio”, e
lo colmò di gioia! Sia quell’uomo come le città che l’Eterno ha distrutte senza
pentirsene! Oda egli delle grida il mattino, e clamori di guerra sul mezzodì;
perché non mi ha fatto morire fin dal seno materno. Così mia madre sarebbe stata
la mia tomba, e la sua gravidanza, senza fine. Perché sono io uscito dal seno
materno per vedere tormento e dolore, e per finire i miei giorni nella vergogna?»
(Gr 20,14-18).
E dire che subito prima Geremia aveva esultato con parole di piena soddisfazione
verso Dio: «Cantate all’Eterno, lodate l’Eterno, poiché egli libera la mano
dell’infelice dalla mano dei malfattori!» (v. 13). Speranza e disperazione,
fede e dubbio, in certi casi si intrecciano inseparabilmente: anche di questo
Dio ha voluto che restasse traccia nella sua Parola.
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3.
GIOBBE:
Giobbe è una vera miniera, ma vogliamo limitarci a due soli suoi brani. Egli,
nonostante fosse il più santo del suo tempo (Gb 2,3) e sia spesso considerato la
personificazione della pazienza, pronuncia parole che somigliano a quelle di
Geremia: «Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua
nascita. E prese a dire così: “Perisca il giorno che io nacqui e la notte che
disse: <È concepito un maschio!> Quel giorno si converta in tenebre, non se ne
curi Iddio dall’alto, né splenda su di esso raggio di luce! Se lo riprendano le
tenebre e l’ombra di morte, resti su di esso una fitta nuvola, le eclissi lo
riempiano di paura! Quella notte diventi preda di un buio cupo, non abbia la
gioia di contar tra i giorni dell’anno, non entri nel conto dei mesi! Quella
notte sia notte sterile, e non vi si oda grido di gioia. La maledicano quelli
che maledicono i giorni e sono esperti nell’evocare il drago. Si oscurino le
stelle del suo crepuscolo, aspetti la luce e la luce non venga, e non veda lo
spuntar dell’alba, poiché non chiuse la porta del seno che mi portava, e non
celò l’affanno agli occhi miei. Perché non morii nel seno di mia madre? Perché
non spirai appena uscito dalle sue viscere? Perché trovai delle ginocchia per
ricevermi e delle mammelle da poppare? Ora mi giacerei tranquillo, dormirei, ed
avrei così riposo coi re e coi consiglieri della terra che si edificarono
mausolei, coi principi che possedevano dell’oro e che empirono d’argento le loro
case; o, come l’aborto nascosto, non esisterei, sarei come i feti che non videro
la luce. Là cessano gli empi di tormentare gli altri. Là riposano gli stanchi,
là i prigionieri hanno requie tutti insieme, senza udir voce d’aguzzino. Piccoli
e grandi sono là del pari, e lo schiavo è libero del suo padrone. Perché dar la
luce all’infelice e la vita a chi ha l’anima nell’amarezza, i quali aspettano la
morte che non viene, e la ricercano più che i tesori nascosti, e si
rallegrerebbero fino a giubilarne, esulterebbero se trovassero una tomba? Perché
dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha
stretto in un cerchio? Io sospiro anche quando prendo il mio cibo e i
miei gemiti si spandono com’acqua. Non appena temo un male, ch’esso mi colpisce;
e ciò che mi spaventa, mi piomba addosso. Non trovo posa, né requie, né pace, il
tormento è continuo!» (Gb 3,3-26).
Nelle enormi disgrazie che lo investirono, Giobbe non sentì più Dio come
alleato, anzi vedeva che ora lo stava chiudendo in un cerchio sempre più
stretto, fino a fargli considerare inevitabile una morte datagli direttamente da
lui; così infatti si esprime: «Ecco, egli mi ucciderà; non spero più nulla;
ma io difenderò in faccia a lui la mia condotta! anche questo servirà alla mia
salvezza; poiché un empio non ardirebbe presentarsi a lui. Ascoltate
attentamente il mio discorso, porgete orecchio a quanto sto per dichiararvi.
Ecco, io ho disposto ogni cosa per la causa, so che sarò riconosciuto giusto.
C’è qualcuno che voglia farmi opposizione? Se c’è io mi taccio e voglio morire.
Ma, o Dio, concedimi solo due cose, e non mi nasconderò dal tuo cospetto:
ritirami d’addosso la tua mano, e fa che i tuoi terrori non mi spaventino più.
Poi interpellami, ed io risponderò; o parlerò io, e tu replicherai. Quante sono
le mie iniquità, quanti i miei peccati? Fammi conoscere la mia trasgressione, il
mio peccato! Perché nascondi il tuo volto, e mi tieni in conto di nemico? Vuoi
tu atterrire una foglia portata via dal vento? Vuoi tu perseguitare una
pagliuzza inaridita? tu che mi condanni a pene così amare, e mi fai espiare le
colpe della mia giovinezza, tu che metti i miei piedi nei ceppi, che spii tutti
i miei movimenti, e tracci una linea intorno alla pianta dei miei piedi? Intanto
questo mio corpo si disfa come legno tarlato, come un abito róso dalle tignole.
L’uomo, nato di donna, vive pochi giorni, e sazio d’affanni. Spunta come un
fiore, poi è reciso; fugge come un’ombra, e non dura. E sopra un essere così tu
tieni gli occhi aperti! e mi fai comparire in giudizio con te! Chi può trarre
una cosa pura da una impura? Nessuno» (Gb 13,15-14,4).
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4.
IL PROFETA DELLE LAMENTAZIONI:
Le espressioni di Giobbe ci fanno tornare all’autore del libro delle
Lamentazioni, che di solito viene identificato con Geremia (si veda la nota
introduttiva della Settanta, ndr.). Il profeta parla di Dio così: «Io sono un
uomo che ha veduto l’afflizione sotto la verga del suo furore. Egli m’ha
condotto, m’ha fatto camminare nelle tenebre e non nella luce. Sì, contro di me
di nuovo volge la sua mano tutto il giorno. Egli ha consumata la mia carne e la
mia pelle, ha fiaccato le mie ossa. Ha costituito una cinta contro di me, m’ha
circondato d’amarezza e d’affanno. M’ha fatto abitare in luoghi tenebrosi, come
quelli che son morti da lungo tempo. Egli m’ha circondato d’un muro, perché non
esca: m’ha caricato di pesanti catene. Anche quando grido e chiamo al soccorso,
egli chiude l’accesso alla mia preghiera. Egli m’ha sbarrato la via di blocchi
di pietra, ha sconvolti i miei sentieri.
Egli è stato per me come un orso in agguato, come un leone in luoghi
nascosti. Egli m’ha sviato dal mio cammino, e m’ha squarciato, m’ha reso
desolato. Ha teso il suo arco, m’ha preso come mira delle sue frecce. M’ha fatto
penetrare nel cuore le frecce della sua faretra. Io sono diventato lo scherno di
tutto il mio popolo, la sua canzone di tutto il giorno. Egli m’ha saziato
d’amarezza, m’ha abbeverato d’assenzio. M’ha spezzato i denti con della ghiaia,
m’ha affondato nella cenere. Tu hai allontanata l’anima mia dalla pace, io ho
dimenticato il benessere. Io ho detto: “È sparita la mia fiducia,
non ho più speranza nell’Eterno!”»
(Lam 3,1-18).
E come si può avere speranza, quando sentiamo che è Dio stesso che ci immerge
sempre più nella prova e nelle difficoltà? A chi potremmo rivolgerci per
chiedere aiuto, se la condizione di sofferenza che stiamo vivendo è decretata
dal Signore dell’Universo e Signore nostro?
Dall’inizio fino ad ora, abbiamo riportato i brani biblici con poco commento,
perché la drammaticità delle parole risalta in modo sconvolgente anche senza
sottolineature. Ora, invece, proseguiamo facendo un’analisi più
particolareggiata delle citazioni.
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5.
GIOVANNI BATTISTA:
Mosè, Geremia e Giobbe arrivano a vedere Dio più come datore di morte che come
facente fiorire la vita. Questa terribile prospettiva sconvolse la fede anche
del maggiore fra i «nati di donna», cioè
Giovanni Battista (Mt 11,11). Egli rinunciò non solo ai piaceri illeciti, ma
anche a quelli leciti, vivendo nel deserto vestito rudemente, mangiando insetti
e miele selvatico (Mt 3,4). Suscitò un vasto moto di rinnovamento spirituale e
d’attesa del Messia, annunciando quanto segue: «Ormai la scure è posta alla
radice degli alberi; ogni albero dunque che non fa
buon frutto, viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo
nell’acqua, in vista del ravvedimento; ma colui che viene dopo di me è più forte
di me, e io non sono degno di portargli i calzari; egli vi battezzerà con lo
Spirito Santo e col fuoco. Egli ha il suo ventilabro in mano, netterà
interamente la sua aia, raccoglierà il suo
grano nel granaio, ma brucerà la
pula con fuoco inestinguibile» (Mt 3,10-12).
L’imminente arrivo dell’Unto, in altre parole, avrebbe instaurato
finalmente la giustizia, con la distruzione dei peccatori (cioè gli alberi senza
«buon frutto» e la «pula») e la salvaguardia dei giusti (cioè il buon «grano» da
raccogliere nel granaio).
Giovanni Battista indicò che Gesù era l’Unto atteso (Gv 1,19-34; 3,22-36)
e, a sua volta, Gesù si identificò col Battista almeno in tre modi: ▪ 1)
facendosi battezzare da lui (Mt 3,13); ▪ 2) predicando inizialmente lo stesso
messaggio («Ravvedetevi perché il regno dei cieli è vicino»,
vedere Mt 3,2 e 4,17); ▪ 3) traendo dai discepoli di Giovanni il primo e più
importante nucleo dei suoi seguaci (Gv 1,35-40). Perciò non è senza ragione che
Erode, sentendo parlare di Gesù, pensò che il Battista fosse risuscitato (Mt
14,1-2).
Anche Giovanni, come la generalità del popolo ebraico, aveva posto l’attenzione
più sugli aspetti trionfanti del Messia che sulle sue sofferenze; siccome ne
stava preparando efficacemente l’avvento, si aspettava che, con l’affermarsi di
Gesù, sarebbero venuti per lui giorni di soddisfazione, di intimità col Messia,
di partecipazione ai suoi trionfi. Successe invece il contrario. Infatti la
scure non si abbatté sull’adultero Erode, ma sullo stesso Giovanni, che fu prima
messo in prigione e poi ucciso (Mt 14,3-12). Giovanni aveva dedicato tutta la
sua vita a preparare la strada per il Messia e ora proprio quel trionfante
Messia lo lasciava marcire in prigione! Giovanni cominciò a pensare di essersi
sbagliato, che forse Gesù non era veramente il Messia atteso: la sua vita allora
non solo sarebbe stata inutile, ma anche dannosa, avendo egli incoraggiato a
seguire un falso Messia!
Il Battista non riuscì a risolvere il proprio dubbio, né a confinarlo in se
stesso; così, dalla prigione, mandò a dire a Gesù: «Sei tu colui che deve
venire, o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3). Queste parole del
precursore di Cristo sono come macigni ed è difficile percepire fino in fondo
l’immenso turbamento che deve aver avuto Giovanni, in quelli che sarebbero
risultati gli ultimi giorni della sua vita.
Perché Dio non aveva fatto capire al Battista tutto il piano della vita di Gesù?
Perché gli aveva fatto comprendere gli aspetti trionfanti, lasciandogli velati
quelli sofferenti? Forse perché Giovanni non avrebbe potuto comprendere tutto e
si sarebbe confuso, non riuscendo così a svolgere il compito per il quale era
miracolosamente nato (Lc 1,5-17).
Il Battista era «ripieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre» (Lc
1,15), ma evidentemente la sua coppa era piccola e presumibilmente anche
lui, come Pietro (vedi Mt 16,21ss), sarebbe rimasto sconcertato se Gesù gli
avesse parlato della crocifissione e della successiva risurrezione. Anche lui,
però, come Pietro (Gv 21,18s), alla vista del Gesù risorto, c’è da credere che
avrebbe accettato la prospettiva del martirio. L’ultimo quadro che la Scrittura
ci lascia di Giovanni Battista, in ogni caso, è quello di un servo di Dio
travagliato dal dubbio ed è bene rispettare anche i silenzi della Parola di Dio,
evitando di attardarci in congetture non dimostrabili.
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6.
«DIO MIO, DIO MIO, PERCHÉ MI HAI ABBANDONATO?»:
Giovanni Battista si era reso conto di avere una quantità contenuta di
Spirito Santo, in confronto a quella smisurata di Cristo (vedi Gv 3,34);
la difficoltà a comprendere e accettare, però, solo fino ad un certo punto
dipendevano da questa misura contenuta di Spirito. Anche Gesù, infatti, di
fronte all’approssimarsi di una morte nella quale sembravano trionfare le
tenebre, pronunciò parole che (se riflettiamo a chi le ha dette) furono più
sconvolgenti di quelle di Giovanni.
L’Unigenito Figlio di Dio, colui che esisteva «prima che Abramo fosse nato»,
al quale il Padre aveva dato tutto nelle mani e che faceva continuamente le cose
che piacevano a Dio, nonostante sapesse della propria risurrezione (Gv 8,29.58;
13,3), nel momento della prova suprema superò in qualche modo anche lui
il «punto di rottura» (seppur senza peccare). Dopo aver chiesto che, se era
possibile, gli fosse risparmiata la crocifissione (Mc 14,35s), accettò con
grandissimo sforzo il percorso stabilitogli da Dio: fino ad avere l’anima «oppressa
da tristezza mortale»
(Mc 14,34) fino a sudare sangue (Lc 22,44); prorompendo alla fine in un
incredibile grido: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Domanda che rimase senza risposta e dopo la quale, con un altro gran grido,
affidò il suo spirito a Dio e spirò (Lc 23,46; Sal 31,5; Mc 15,34-37).
Sia Giovanni Battista sia Gesù, in definitiva, terminarono l’esistenza su questa
Terra ponendosi domande sconvolgenti, ma mentre quella di Giovanni Battista è
una domanda permeata di pessimismo, quella di Cristo contiene in sé il germe
della speranza: percepibile però solo da chi conosceva il Salmo 22, che
perciò analizzeremo in dettaglio negli articoli che seguono.
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_BB/A2-Salmo22_Pre_Mt.htm
06-04-07; Aggiornamento: 30-06-2010 |