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2a PARTE: SALMO 22,1-18
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1.
Il testo
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2.
Alcune note introduttive
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3.
L’esposizione |
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1.
IL TESTO:
Riportiamo integralmente la prima parte del Salmo, per poi commentarla. I
numeri indicano la suddivisione in versetti.
«Al direttore del coro. Su “Cerva dell’aurora”. Salmo di Davide. ▪ 1
Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato? Te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto
alle parole del mio gemito! ▪ 2 Dio mio, io grido di giorno, ma tu non
rispondi, e anche di notte senza interruzione. ▪ 3 Eppure tu sei il
Santo, siedi circondato dalle lodi d’Israele. ▪
4 I nostri padri confidarono in te; confidarono e tu li liberasti. ▪ 5
Gridarono a te e furono salvati; confidarono in te, e non furono delusi.
▪ 6 Ma io sono un verme e non un uomo, l’infamia degli uomini, e il
disprezzato dal popolo. ▪
7 Chiunque mi vede si fa beffe di me; allunga il labbro, scuote il capo,
dicendo: ▪ 8 Egli si affida al
Signore; lo liberi dunque; lo salvi, poiché lo gradisce! ▪ 9 Sì,
tu m’hai tratto dal grembo materno; m’hai fatto riposar fiducioso sulle mammelle
di mia madre. ▪ 10 A te fui affidato fin dalla mia nascita, tu sei il mio
Dio fin dal grembo di mia madre. ▪ 11 Non allontanarti da me, perché
l’angoscia è vicina, e non c’è alcuno che m’aiuti. ▪ 12 Grossi tori
m’hanno circondato; potenti tori di Basan m’hanno attorniato; ▪
13 aprono la loro gola contro di me, come un leone rapace e ruggente. ▪
14 Io sono come acqua che si sparge, e tutte le mie ossa sono slogate; il mio
cuore è come la cera, si scioglie in mezzo alle mie viscere. ▪ 15 Il mio
vigore s’inaridisce come terra cotta, e la lingua mi si attacca al palato;
tu m’hai posto nella polvere della morte. ▪
16 Poiché cani mi hanno circondato; una folla di malfattori m’ha attorniato;
m’hanno forato le mani e i piedi. ▪ 17 Posso contare tutte le mie ossa.
Essi mi guardano e mi osservano: ▪ 18 spartiscono fra loro le mie vesti e
tirano a sorte la mia tunica» (Sal 22,1-18).
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2.
ALCUNE NOTE INTRODUTTIVE
■ «Salmo»: I salmi sono stati concepiti come
canti corali da eseguire nel tempio, riflettevano perciò un sentimento
collettivo (oltre che individuale). In questo salmo, poi (come in diversi
altri), la vocazione collettiva è esplicita, essendo indirizzato «al
direttore del coro» del tempio. Essendo canti, coinvolgevano non solo i
pensieri, ma anche i sentimenti: insomma, erano una specie di canzoni del tempo
e ben conosciamo l’effetto trascinante che questo genere di composizione può
avere.
■ «Salmo
22»:
Questa composizione si colloca subito prima di quello più conosciuto e
amato: il Salmo 23 («L’Eterno è il mio pastore, nulla mi mancherà…»). Il
Salmo 22 parla dell’abbandono di Dio, mentre il 23 della sua cura: bisogna far
attenzione a non focalizzarci troppo su uno solo dei due, che sono entrambi di
Davide e ne riflettono in qualche modo l’esperienza, fatta di gloria e di
protezione divina, ma anche di accanita persecuzione e di sofferenza (vedi 1 Sam
16
e capp. seguenti).
■ «Su “Cerva dell’aurora”»: Altri, più esplicitamente, traduce: «Sulla
melodia
“La cerva dell’aurora”»
(TILC). Ciò significa che questo salmo usava la musica di un altro canto già
noto, al quale sostituiva le parole. Non conosciamo il canto «Cerva
dell’aurora»,
ma il titolo (che era dato dalla sua prima frase) evoca un quadro di dolce
poesia, che si contrappone all’inizio del Salmo 22
(«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»). Quando una musica
ha due testi, nel cantarne uno viene naturale pensare anche all’altro: sembra
che nell’esprimere la notte del nostro animo, insomma, ci sia mescolato l’invito
a ricordarci che, dopo la notte, c’è l’alba.
■ «Salmo di Davide»: Davide parla in prima persona («Dio
mio, perché
mi
hai abbandonato»), ma ciò che esprime non riguarda solo lui. Oltre a
estendersi alle altre persone del suo tempo (e di tutti i tempi), l’esperienza
personale di Davide anticipa e sconfina in quella di Cristo, definito spesso
come «Figlio di Davide» (vedere, per esempio, Mt 1,1; 9,27; 12,23). In
altre parole, quando Davide parla di se stesso, essendo un uomo secondo il cuore
di Dio (At 13,22), lo Spirito Santo lo conduce a volte a parlare di Cristo.
L’apostolo Pietro sembra che avesse in mente anche il Salmo 22 quando
disse che gli antichi profeti «cercavano di sapere l’epoca e le circostanze
cui faceva riferimento lo Spirito di Cristo che era in loro, quando
anticipatamente testimoniava delle sofferenze di Cristo e della gloria che
doveva seguirle»
(1 Pt 1,11). Lo stesso apostolo ha esteso a Cristo ciò che Davide
sembra riferire a se stesso («Non lascerai l’anima mia nell’Ades»,
At 2,25-31
in confronto a
Sal 16,10). Applicare il Salmo 22 a Cristo è comunque inevitabile, come si
vedrà meglio in seguito.
■ Riassumendo: Di questo salmo si possono fare almeno quattro
applicazioni:
▪ 1) a Davide, che ne è l’autore e che parla in prima persona;
▪ 2) ai credenti del suo tempo, essendo stato inviato al coro del tempio;
▪ 3) ai credenti di ogni tempo e luogo, perché fa parte della Bibbia;
▪ 4) a Cristo, che lo ha citato sulla croce.
Naturalmente, le quattro diverse letture non sono alternative, ma si
arricchiscono l’un l’altra. Noi comunque privilegeremo l’applicazione al
comune credente, perché spesso si riferisce il Salmo 22 solo a Cristo, come
se non riguardasse anche noi, che siamo chiamati a seguirne le orme (1 Pt 2,21).
L’idea che Cristo si sia sacrificato in modo che i suoi discepoli potessero poi
vivere senza problemi, apre la via alla giustificazione di una vita per molti
versi opposta alla sua, che contraddice tutto il Nuovo Testamento e la concreta
esperienza degli apostoli. Questa idea si fece già strada fra i Corinzi, che
pensavano di essere già arrivati a regnare, ma l’apostolo Paolo la contrastò
radicalmente (1 Cor 4,8-16) e, nel Nuovo Testamento, i cristiani coerenti
difficilmente riuscivano a vivere una vita comoda.
■ Dove comincia il v. 1?: Nella suddivisione in versetti c’è un po’
d’incertezza, perché in alcune versioni il primo versetto è dato
dall’intestazione, mentre nella versione che abbiamo riportato la numerazione
comincia dopo l’intestazione (in altre versioni, cioè, il nostro versetto n. 1 è
indicato come il 2). (Ndr: Nella versione ebraica l’intestazione rappresenta il
primo verso, come pure nella Settanta.)
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3.
L’ESPOSIZIONE
■ «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (v. 1): Non è il
bestemmiatore che qui si sente abbandonato, ma il fedele, cioè una persona che è
così in intimità con Dio da dirgli e ripetergli «mio».
Per chi ha fatto di Dio il centro della sua vita e dei suoi affetti, il sentirsi
abbandonato senza comprenderne il motivo, senza aver coscienza di colpe
specifiche, è peggio della morte. Si può morire, infatti, cantando di gioia al
Signore, ma quanto più lo si ama, tanto più è insopportabile percepire che Dio
si stia allontanando da noi, specie se ciò avviene per sua specifica e
inarrestabile volontà.
■ «mi» (v. 1): Non usa il plurale («ci
hai abbandonato»), ma il singolare («mi
hai abbandonato») e ciò non è di poco conto. Quando Dio abbandona una città,
il credente può sentirsi spiritualmente separato da quella città e non coinvolto
direttamente da quell’abbandono. Se invece constata che a essere abbandonato è
solo lui, mentre Dio continua a essere vicino e a curarsi degli altri (fra i
quali molti sono peccatori almeno quanto lui), viene facilmente assalito da
forti dubbi, non solo su se stesso, ma anche su Dio.
■ «Te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto alle parole
del mio gemito!»
(v. 1): Chi crede, ha chiara la percezione dell’esistenza e dell’onnipotenza di
Dio, quando soffre ha così l’impressione che Dio sia lì, che vede e sente il
lamento, ma non se ne cura: come se non lo riguardasse, come se non ci
conoscesse, come se nel passato non ci avesse attirato a sé, come se non ci
fosse mai stata quella intensa vita insieme, fatta di affetto e comprensione.
Tutto ciò non può che sconvolgere!
■ «Dio mio, io grido di giorno, ma tu non rispondi» (v. 2): A
questo punto il lamento non si esprime più con normali parole, ma con
grida, che riempiono la casa e la scavalcano. Il disagio ha così travolto
barriere e razionalità, manifestandosi senza più pudore anche all’esterno. Ciò
non può che spaventare, sia i pochi che direttamente percepiscono le grida, sia
i molti ai quali ne verrà poi fatto il racconto (che, strada facendo, di norma
si ingigantisce e si deforma). Alle difficoltà personali, così, cominciano ad
aggiungersi anche quelle sociali.
■ «E anche di notte senza interruzione»
(v. 2): Quando si è passato il giorno a gridare, la sera si dovrebbe essere
stanchi. Se invece si continua a gridare anche la notte, è segno che il dolore è
molto grande. Qui si precisa, addirittura, che il gridare è «senza
interruzione»,
facendo intravedere una condizione non lontana dalla follia.
■ «Eppure tu sei il Santo» (v. 3): Nonostante la sua tragica
condizione, il fedele continua a credere nell’elevatezza morale di Dio, trovando
così sempre maggiori difficoltà a conciliare le sue convinzioni con l’esperienza
concreta che sta vivendo.
■ «Siedi circondato dalle lodi d’Israele»
(v. 3): È giusto, doveroso e bello che il popolo di Dio canti le lodi del suo
Signore, ma per chi si sente abbandonato da Dio, è difficile unirsi al coro;
d’altra parte chi ha buoni motivi per cantare trova difficile simpatizzare con
chi è nella prova. Ognuno è portato a chiedere all’altro di adattarsi, mentre la
Parola di Dio chiama ciascuno a farsi carico dell’altro («Rallegratevi con
quelli che sono allegri; piangete con quelli che piangono»,
è scritto in Rm 12,15). Per chi ha già molti pesi, però, è più
difficile mettersene sulle spalle degli altri; logica vorrebbe, quindi, che lo
sforzo di adattamento lo facesse maggiormente chi sta meglio, ma le questioni
umane non seguono sempre la semplice logica, così succede che proprio chi è
nella prova debba a volte farsi carico di consolare quelli che sono spaventati
dal vedere la prova!
■ «I nostri padri confidarono in te [ ...] e non furono delusi»
(vv. 4-5): Non solo il popolo di Dio di oggi, ma anche quello di ieri ha gustato
la benevolenza e le risposte del Signore. Ciò stimola sempre più a chiedersi: «Perché
a me no?»; e quando la domanda è senza risposta, lo smarrimento tende
ad aumentare.
■ «Ma io sono un verme e non un uomo, l’infamia degli uomini, e il
disprezzato dal popolo»
(v. 6): Quando le condizioni precipitano oltre un certo livello, si comincia ad
avere la sensazione di non far più parte della società. Anche gli altri
cominciano a considerarci come persone da evitare e della cui presenza è meglio
non tenerne conto. Sembra quasi di diventare trasparenti, invisibili. Domande e
saluti rivolti a persone vicine, sembra che non riescano più a penetrare in
quegli orecchi una volta molto sensibili. Indifesi e schivati, ci si comincia a
vergognare, preferendo nascondersi per proteggersi da sguardi indifferenti,
quando non ostili. Sempre meno «uomini fra gli uomini», quindi, e sempre più
simili a «vermi».
■ «Chiunque mi vede si fa beffe di me; allunga il labbro, scuote il capo,
dicendo: Egli si affida al Signore;
lo liberi dunque; lo salvi, poiché lo gradisce!»
(vv. 7-8): Quella stessa fede che, nella prosperità, suscita ammirazione e
rispetto, quando si è nella sventura diviene ridicola per «chiunque»:
credenti e non credenti, colti e ignoranti, giovani e vecchi. Illuminante, a tal
proposito, è l’esperienza di Cristo; tutti alla fine gridarono: «Sia
crocifisso» (Mt 27,22-23). Chi si allontanò da quella folla forcaiola, si
rassegnò a esserne rappresentato. Perfino Pietro, l’apostolo più stimato da
Cristo, sebbene con grande dispiacere, proclamò tre volte di non conoscerlo (Mt
26,69-75): e se così fece il migliore...
■ «M’hai fatto riposar fiducioso sulle mammelle di mia madre. A te fui
affidato fin dalla mia nascita» (vv. 9-10):
La fede qui considerata affonda le sue radici in una famiglia devota a Dio,
nella quale si sono vissute gratificanti esperienze religiose fin dalla prima
infanzia. La crisi di fede, perciò, incrina i rapporti non solo col popolo di
Dio, ma anche col proprio retroterra famigliare.
■ «Non allontanarti da me, perché l’angoscia è vicina, e non c’è alcuno
che m’aiuti» (v. 11):
Colui che perde al gioco, dice Dante, si ritrova solo e rimugina, mentre è
col vincitore che se ne va tutta la gente. Chi si trova immerso nell’angoscia
avrebbe bisogno d’aiuto, invece gli altri scappano. E a scappare, naturalmente,
non sono quelli a lui più lontani (quelli si sentono già al sicuro), bensì
quelli che, essendo vicini (parenti o amici), hanno più timore di doversi far
carico delle difficoltà altrui.
C’è chi si allontana con fragore e chi in punta di piedi, chi per un motivo di
qualche credibilità e chi con pretesti inconsistenti: il risultato comunque non
cambia e intorno al malcapitato si fa presto il vuoto.
Le lodevoli eccezioni non mancano e Cristo stesso ebbe qualcuno che rimase ai
piedi della croce (Gv 19,25-26), ma si sa che le eccezioni non contraddicono la
regola.
■ «Grossi tori mi hanno circondato; potenti tori di Basan m’hanno
attorniato; aprono la loro gola contro di me, come un leone rapace e ruggente»
(vv. 12-13):
Quando ci si percepisce come «vermi» (v. 6), non ci vuol molto a
vedere mostruosamente quelli che ci sono intorno, che vengono rassomigliati ai
più forti e pericolosi animali: i tori, che con la loro forza tutto abbattono, e
i leoni affamati, che a nessuno lasciano scampo.
Non è poi un solo «toro» che qui insidia il fedele, che è circondato da una
mandria che chiude ogni via di scampo («m’hanno attorniato»). Gli uomini
tendono ad agire in branco e così il malcapitato non si ritrova un solo
avversario, ma un’intera folla. Lo scontro porta allora inevitabilmente alla
sconfitta dell’assalito, anche quando avesse ragione. Le vicende bibliche (ed
extrabibliche) sono piene di persone che poi la storia ha onorato, ma la
vittoria nel futuro l’hanno di norma pagata con l’emarginazione e la sconfitta
durante l’esistenza.
■ «Io sono come acqua che si sparge, e tutte le mie ossa sono slogate; il
mio cuore è come la cera, si scioglie in mezzo alle mie viscere»
(v. 14):
Ormai la reazione a catena è innescata e si scende sempre più giù. Vedersi
come un «verme» (v. 6) era poca cosa, ma almeno c’era ancora un senso di
identità; ora invece si arriva a sentirsi «come acqua che si sparge»,
cioè qualcosa che si disperde e finisce.
■ «Il mio vigore s’inaridisce come terra cotta, e la lingua mi si attacca
al palato»
(v. 15):
La morte non viene solo se ci si disperde come acqua, ma anche se ci si
pietrifica come mattoni («terra cotta»), perdendo quel segno primario
della vita che è la parola. Chi è abbandonato da Dio e dagli uomini non può fare
altro che tacere. Le parole di chi è nella prova, infatti, tendono a essere
respinte o deformate da chi l’ascolta: «Nelle circostanze in cui si trova si
capisce perché parla in modo così
pessimista»;
«Quello fa
l’ottimista! Ma non si rende conto
in che condizioni si trova? Per me capisce poco, o finge». Non è un
caso che Gesù, dal suo arresto in poi, scelse più il silenzio che la parola,
riprendendo solo dopo la risurrezione a parlare e a insegnare largamente (Lc
24,27; At 1,3).
■ «Tu mi hai posto nella polvere della morte»
(v. 15):
Questa frase riassume tutto il senso di questa prima parte del salmo. Le
vicende fin qui descritte, infatti, non somigliano a un brutto scivolone (dopo
il quale ci si rialza curandosi le ferite), ma all’essere capitati fra le
«sabbie mobili», nelle quali si sprofonda ancor più se si tenta di riemergere.
In questi casi l’esito che si intravede non può essere che la morte.
Sia l’azione degli uomini sia quella delle circostanze non sono viste come
casuali ma, in ultima analisi, come provocate e dirette da Dio. Egli ha
cominciato con l’abbandonare il credente (cioè col non fargli più del bene,
v. 1), per poi finire col porlo egli stesso in quelle difficili circostanze
(«Tu
mi hai posto»).
I tre versetti che seguono, piuttosto che mutare scenario, si soffermano più in
dettaglio su questa condizione estrema e si applicano alla crocifissione di
Cristo in modo molto evidente.
■ «Poiché cani mi hanno circondato; una folla di malfattori m’ha
attorniato» (v. 16):
È una caratteristica della poesia ebraica quella di fare il parallelismo fra
due concetti simili, piuttosto che curare l’assonanza della rima. Le due
soprastanti espressioni, perciò, rappresentano due modi diversi di esprimere lo
stesso pensiero e fanno vedere come quei «cani»
siano in realtà dei «malfattori», cioè persone che
assomigliano a cani pronti a mordere: ciò conferma che è stato corretto
intendere i «tori»
e il «leone»
dei vv. 12-13
come persone moralmente deformi. Anche qui si parla di un branco che
circonda e chiude ogni via di scampo.
Dio e la sua giustizia sembrano spariti, mentre sono i malfattori che, almeno
momentaneamente, portano in trionfo la «potenza delle tenebre» (Lc
22,53). Durante la crocifissione di Cristo (pur se avvenuta nelle ore
centrali del giorno) «si fecero tenebre su tutto il paese» (Mt
27,45), rendendo percepibile anche all’occhio fisico ciò che stava
succedendo.
■ «M’hanno forato le mani e i piedi. Posso contare tutte le mie ossa. Essi
mi guardano e mi osservano: spartiscono fra loro le mie vesti e tirano a sorte
la mia tunica» (vv. 16-18):
L’eccezionalità di questa descrizione (che anticipa di circa mille anni la
crocifissione) spinge alla contemplazione e al silenzio, come certi scenari che
catturano irrimediabilmente lo sguardo e i pensieri. Dopo aver contemplato un
quadro a distanza, però, ci si avvicina per coglierne i dettagli; cosa che ora
faremo, sapendo che contemplazione e analisi si integrano.
Davide parla in prima persona, ma lo Spirito di Dio più che altrove lo
trasfigura, ed egli profeticamente assume la veste del suo discendente Messia.
Intorno alla croce gli uomini «guardano e osservano»
e per chi sta subendo l’umiliazione del denudamento (spartizione degli
indumenti, poter contare tutte le ossa) quegli sguardi di curiosità sono un
ulteriore oltraggio. Si arriva così al punto che gli occhi del crocifisso non
incontrano più veramente quelli dei crocifissori, ma l’uno si rende estraneo
all’altro. Anche quando tacciono, i persecutori sembrano dire: «Noi siamo
forti e non tu, perché siamo noi che possiamo disporre di te; noi siamo
benedetti da Dio e non tu, che sei stato giustamente messo fra due altri
malfattori». Così l’interesse per i vestiti diventa maggiore
dell’interesse per la persona che l’indossava, per la sua tragica condizione,
per il significato di quella vita: guardano e osservano, ma con indifferenza,
come si osserverebbe uno spettacolo al circo.
Non vedendo ormai più i suoi persecutori, è con Dio che il perseguitato sente
ancora il desiderio di parlare, è solo a Dio che può ancora indirizzare le sue
ultime gocce di speranza. Così Gesù, come se stesse tutto solo, mentre stava
spirando, «gridò a gran voce: Elì, Elì, lemà sabactàni? cioè: Dio mio, Dio
mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46). Contiamo di
tornare più avanti (cap. 4) su questa citazione che fa Gesù del Salmo 22,
per ora invitiamo solo a prender coscienza di quanto profondo sia stato il
pozzo nel quale Dio ha condotto il suo Figlio prediletto.
Alcuni di noi saranno certamente esclusi da esperienze particolarmente amare, ma
a volte non riusciamo a sopportarne nemmeno il pensiero. Però, se all’immacolato
Gesù è potuto succedere tutto questo, perché non potrebbe succedere a noi
peccatori? Forse perché siamo meno peccatori di altri? Non c’è motivo valido per
pensare che Dio non possa permettersi di mettere alla prova anche il migliore
(come abbiamo visto essere Giobbe e Giovanni Battista): C’è crudeltà da parte di
Dio? L’esperienza di Cristo e di Davide riflesse in questo salmo la escludono,
perché proprio nel fondo del pozzo essi hanno trovato la corda per una piena
risalita. Davide, per esempio, sperimentò una lunga e penosa persecuzione (da 1
Sam 19 a 2 Sam 2), ma alla fine ebbe una specie di risurrezione: quel popolo
stesso che aveva tentato di ucciderlo (costringendolo a rifugiarsi in mezzo ai
nemici Filistei), poi lo incoronò re (2 Sam 5,4-5), così che Davide concluse la
sua vita «sazio di giorni, di ricchezze, e di gloria» (1 Cr
29,28).
È comprensibile che in circostanze come queste ci si scoraggi, anche perché
la saggezza umana in questi casi conta poco, rendendo inevitabile il ricorrere
alla paolina pazzia della fede
(1 Cor 1,17 a 2,16). Solo la fede piantata da Dio, però, può
reggere alle prove che vengono da Dio: le umane illusioni di ragionamento e di
forza, di fronte alle sfide più serie, non bastano.
In questa prima parte del salmo abbiamo visto una progressiva discesa
nell’abisso, mentre nella seconda parte Davide descrive la risalita. Questa
riscossa si è verificata anche per Cristo, con una risurrezione che coinvolgerà
pure quelli che seguono le sue orme: che portano sì ai monti, ma spesso
attraversando qualche valle.
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_BB/A2-Salmo22,1-18_OiG.htm
06-04-07; Aggiornamento: 30-06-2010
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