Perché l’autore del libro di Giobbe ricordò solo i particolari nomi delle sue
tre figlie di secondo parto e non i nomi dei figli maschi e di tutti i figli
di primo parto? Che cosa significano veramente tali nomi? Come ha fatto Giobbe a
vedere i suoi discendenti fino alla quarta generazione? Queste sono
alcune domande che scaturiscono confrontando Giobbe 1 col capitolo 42.
Il seguente non è uno studio facile per tutti i lettori, trattando di
ebraico e greco. Tuttavia, può essere un arricchimento per chi arriverà fino
alla fine, traendovi ammaestramento.
Un Lettore mi ha scritto
quanto segue.
[...] L’altra sera, in chiesa, si è letto come brano i capitoli 1-2 e 42 di
Giobbe. In essi sono state considerate molte cose. Ovviamente, mentre leggevo i
testi con le mie solite versioni, lo Spirito Santo mi ha portato su dei versetti
interessanti. E qui come sempre desidero un tuo chiaro e stimabile chiarimento.
Dunque eccomi ai testi e ai versetti.
In Giobbe 1,2 si afferma che Egli aveva 7 figli e 3 figlie; fino
alla fine del capitolo, l’autore non rivela il loro nome; il capitolo 2 non
accenna ai figli. Anche successivamente, in tutti gli altri capitoli, non c’è
più traccia di figli e figlie (almeno io non ho trovato nulla). Dopo, il
ristabilimento di Giobbe, è scritto che Dio gli diede il doppio di ciò, che
aveva prima (Gb 42,12); e questo è vero, perché le pecore al capitolo 1 erano 7,
e qui sono 14, e così via. Ora, al capitolo 42,13-14 si afferma che Giobbe ebbe
pure 7 figli e 3 figlie (cioè nuovamente 10 figli).
La mia domanda è questa: Come mai qui rivela il nome di figli e figlie
e non lo fa al capitolo 1? E poi il testo non dice che Giobbe riebbe, ma
che ebbe, come se quelle persone fossero scampate alla sciagura
del padre, mentre Satana si divertiva a distruggere tutto ciò, che aveva di
materiale; tuttavia i messaggeri annunciarono la morte dei 10 figli. Quindi nel
capitolo 42,13 Dio gli ha ridato altri 10 figli? (7 maschi e 3 femmine).
Ecco ancora un’altra questione. Oggigiorno, si dice, e si sa per
insegnamento scolastico, che una generazione è di 100 anni, vero? Lo
confermi? Allora, mentre leggevo, il verso finale (Gb 42,16), un’altra curiosità
mi è venuta spontanea e, vorrei chiederti in merito: se io facessi un calcolo
delle generazioni sulla base del calcolo centennale (cioè se una generazione è
100 anni), come è possibile che Giobbe abbia vissuto 140 anni e abbia
visto i suoi figli e i figli dei suoi figli crescere per 4 generazioni? Anche
perché la Scrittura dice che l’uomo normalmente vive 70 anni e il più forte fino
a 80. Come è possibile e come dobbiamo capire questi testi, che parlano di
generazioni? Oppure possono essere concepiti e compresi diversamente? [...]
{Massimo
Abbate; 16-06-2016} |
Mi fa sempre piacere, quando i credenti sviscerano la Scrittura per cercare di
approfondire le cose e per trovare una ragione plausibile alle cose. Chiaramente
per arrivare a delle conclusioni giuste, bisogna partire da delle premesse
corrette, come nel caso dell’estensione di una generazione.
1. FIGLI E FIGLIE
■ Due differenti generazioni: Effettivamente l’autore parlò
relativamente a Giobbe e alla sua prima moglie di «sette figli e tre figlie»
(Gb 1,2) e affermò che essi erano poi tutti morti a causa di una tromba
d’aria (vv. 18s).
E Giobbe
stesso parlò con nostalgia di loro: «Oh, fossi com’ero ai giorni
della mia maturità... quando l’Onnipotente stava ancora con me e
avevo i miei figli intorno a me» (29,5).
Alla
fine del libro, dopo che Dio aveva ristabilito Giobbe, egli si prese
probabilmente una seconda moglie ed ebbe da lei nuovamente «sette
figli e tre figlie» (42,13); infatti, si parla di
fratelli, delle sorelle e delle sue conoscenze
di prima di Giobbe (v. 11), ma non della prima moglie, che era alquanto
empia e che lo fece tanto penare (Gb 2,8s). È scritto: «Ed ebbe quattordicimila pecore, mille paia di buoi e mille asine.
|
|
|
Ed ebbe pure sette figli e tre figlie» (Gb
42,12s). Come gli animali non erano gli stessi di prima (i primi erano
stati rubati), così vale per i figli (i primi erano morti).
■ Il nome delle figlie: L’autore riportò i nomi delle figlie, che in
italiano sono stati tradotti così: Colomba, Cassia e
Cornustibia (o Fiala di stibio; v. 14). Oltre a evidenziare la bellezza,
l’autore affermò come cosa fuori del comune allora (solo i maschi ereditavano),
che esse furono nominate coeredi con i loro fratelli (v. 15). Perché
l’autore riportò il nome delle tre figlie (ebr. Jemîmāh,
Qeṣîāh
e Kërën-Happûk),
derivate dal probabile secondo matrimonio, e
non quello dei maschi e neppure quello dei figli oramai morti? Non lo sappiamo
con certezza. Forse solo perché i nomi di queste tre figlie erano reputati
allora così particolari, erano generalmente conosciuti nelle narrazioni e furono
tramandati nel tempo (la storia del tramandamento è alquanto bizzarra!).
Infatti, si veda come il nome di tante mamme
di un personaggio importante non fu ricordato, mentre quello di altre sì (1
Re 14,21.31; 15,2.10; 22,42; 23,31.36; ecc.). Non sempre troveremo una logica in
tutto ciò, sebbene possiamo fare delle congetture (p.es., una madre del genere
s’immischiò nella politica, intessendo trame di corte e condizionando il re, suo
figlio). A volte, il re pose il trono della madre accanto al suo (cfr. 1 Re
2,19); altre volte, una tale madre era così condizionante, che il re la depose
da tale sua posizione e la relegò alla sfera privata (1 Re 15,13). In tutto ciò
è la vita che scrive le cose, ed è già un miracolo che certi nomi abbiano
superato la macina del tempo e siano arrivati fino a noi.
Certo resta un mistero come i traduttori abbiano
reso Jemîmāh
con «Colomba», visto che in ebraico tale nome ricorre soltanto qui. La Settanta
(traduzione greca dell’AT) l’ha reso con Hēméra «Giorno, Giornata», pensando che
si trattasse di un’estensione del termine ebraico jôm «giorno» (dalla
radice jamam), che a volte fa poeticamente jāmîmāh
(così in 1 Sm 2,19 lett. «il giorno [scaturito] dagli anni» per il compleanno);
si veda appunto al riguardo la variazione di «giorno», che fa «giornata».
Inoltre, «colomba» si dice diversamente in ebraico (jônāh,
gozāl). Che una donna potesse chiamarsi «Giornata»
non deve sorprenderci, visto che abbiamo da noi Alba, Lucia, Lucilla, Luna,
Venere, e così via.
Qeṣîāh
corrisponde alla pianta «Laurus Cassia», conosciuto anche come «Cassia»
(Sal 45,9; la Settanta l’ha reso con Kasía).
Kërën-Happûk
è stato reso con Cornustibia (o Fiala di stibio; la Settanta l’ha reso con
Amaltheía kéra «corno di Amaltea» [= capra che allattò Giove,
simbolo di prosperità], perciò «corno dell’abbondanza», come lat. cornucopia).
In ebraico kërën
significa «corno» (1 Sm 16,13), e Happûk (da
pûk)
significa il «belletto (per gli occhi)» (lat. stibium; 2 Re 9,30; Gr
4,30). Kërën-Happûk
significa quindi «corno del belletto» (il corno era usato come astuccio
per l’antimonio, sostanza di colore nero, che era usato come belletto per
gli occhi). Nei nomi personali, presenti in altre culture, non dobbiamo cercare
una logica nostrana, visto che anche da noi ci sono nomi simili (p.es. Perla,
Argentino, Agata) e quelli, di cui pochi sanno il significato (Claudio da
claudicante; Mara, Maria, Miriam e simili, che significano «amara»).
Data la difficoltà dei traduttori di intendere tali nomi, varie traduzioni
italiane ed estere hanno soltanto traslitterato e adattato i nomi.
■ Ricordati per qualcosa: I nomi di queste tre figlie di Giobbe
furono ricordati dall’autore per la loro rara bellezza (Gb 42,15). La
singolarità dei nomi, scaturita dalla fantasia dei genitori (v. 14), ha
certamente contribuito nel ricordarle. E allora perché i figli maschi no? È
difficile che i maschi vengano ricordati per la bellezza, ma solo per la loro
forza o per i loro gesti eroici (cfr. Gdc 15,15 Sansone; 1 Cr 11,10-25
valorosi guerrieri di Davide); si vede che i
figli maschi di Giobbe non avevano tali qualità, ma vivevano di rendita come
«figli di papà». Anche riguardo alla Bibbia i nomi fuori del comune
(p.es. Rut, Ester) si ricordano meglio di quelli ricorrenti (Maria, Anna); nel
secondo caso bisogna, infatti, sempre chiedere: «Quale Maria?». Quando nominiamo
personaggi storici come Cleopatra, Pirro, Damocle o Napoleone, molti di
noi sanno subito chi sono, almeno per un modo di dire (cfr. «vittoria di Pirro»,
«spada di Damocle») o per una particolare storia connessa. Lo stesso vale nella
Bibbia per nomi poco frequenti come Noè, Giona, Esdra, Nehemia, Tommaso,
Pietro, Barnaba, Timoteo, Tito...
2. GENERAZIONI: Per la scienza e nella Bibbia una generazione è
di circa 25 anni, ed essa va dalla nascita di un individuo a quando egli
probabilmente procreerà la prossima generazione. Per questo è plausibile che
Giobbe, essendo vissuto altri 140 anni dopo il ristabilimento (Gb 42,16),
possa aver visto i suoi discendenti fino alla quarta generazione. Infatti, «Giobbe
morì vecchio e sazio di giorni» (Gb 42,17).
Avendo dovuto aspettare che i suoi figli diventassero adulti e in età di
riproduzione (1a generazione), anche le altre quattro staffette
generazionali ci stanno dentro ai 140 anni (della 4a generazione si
afferma solo l’esistenza, non che fosse arrivata anch’essa all’età
riproduttiva).
Per un maggiore approfondimento si veda
l’articolo «Una
generazione nella Bibbia».
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_BB/A1-Figli_Gb_R12.htm
12-07-2015; Aggiornamento: |