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Nicola Martella:
Il titolo promette tanto, ma dice tutto e niente. Infatti, ci si
aspetta che sia un libro per chiunque non conosca Dio né sia consapevole
del suo amore. In effetti, però, esso è destinato solo a una ristretta cerchia
di persone: teologi, filosofi, umanisti, intellettuali e quant’altri abbiano
già
una formazione accademica. L’opera è certamente interessante, ma
specialmente per gli insider. Il libro è certamente una ricca miniera di
spunti significativi, ma gli argomenti trattati sono così tanti e così
eterogenei fra di loro, che sembrano, in pratica, scollati al punto da
formare un’antologia di singoli trattati connessi insieme solo dal tema
religioso. Questa frammentazione eterogenea presente vari nei capitoli, sembra
perpetuarsi altresì nelle parti subordinate. L’autore mostra una formazione e un
interesse specialmente filosofico e dogmatico, per certi tratti apologetico
(creazione-evoluzione, cristianesimo-religioni, fede-ateismo,
chiesa-istituzionalismo) che corrisponde in pratica alla sua specializzazione
accademica. Se qui egli appare esegeta o fedele commentatore del testo
(Gn 1-2; pp. 112-118), altrove lascia questo terreno sicuro e diventa
eisegeta o speculatore dogmatico. Questo è, ad esempio, il caso del
fantomatico «Lucifero», — identificato già da alcuni cosiddetti «Padri della
chiesa» col diavolo — derivazione speculativa di testi biblici quali Is 14 (re
di Babilonia) ed Ez 28 (re di Tiro): qui non c’è proprio nulla dell’esegeta!
(pp. 50ss). A ciò si aggiunge, ad esempio, la singolare interpretazione —
estrapolando versi dal loro contesto — secondo cui Satana sarebbe
l’unico autore di malattie, sofferenze e morte (p. 60). Nonostante
ciò, il libro rimane una vera miniera di informazioni molto differenti fra di
loro, e può risultare così molto interessante, specialmente per chi è
già nella fede o conosce bene la Bibbia. In definitiva, si adatta
specialmente per preparare i nuovi discepoli che hanno un’attitudine
intellettuale a conoscere le idee degli altri e a dare loro delle risposte
adatte, specialmente di natura dottrinale. {Nicola Martella, recensione comparsa
in Lux Biblica 29 (IBEI, Roma 2004), pp. 194s}
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Giada Pietrangeli:
Questo, credo, è uno di quei libri che non avranno mai un
frontespizio come si deve né, d’altra parte, un titolo che possa mai dirsi
esauriente o anche solo adeguato alla sua trattazione. E tutto questo sarebbe
perfetto se si trattasse, ad esempio, della presentazione di un giallo d’autore,
ma appare al contrario piuttosto scoraggiante se considerato l’incipit
di un commento esplicativo, seppur molto breve, ad un saggio di teologia.
Quindi chi scrive qui di seguito farà bene ad affrettarsi a chiarire qual è il
reale valore che ha potuto estrapolare dalla lettura di un’opera che è solo
esteriormente frammentaria nel suo intento — non poco arduo — di descrivere per
grandi linee le varie fasi del pensiero umano nella storia, in riferimento
all’idea di Dio e del suo piano per l’umanità. E pure questa è solo una parte
circoscritta di una vicenda molto più ampia e variegata che vede incrociarsi
l’azione del Creatore con il destino d’Israele, suo popolo, prima e con il resto
del mondo poi.
Michele Buonfiglio, insigne professore
di teologia munito di una quantità di titoli in almeno tre lingue da poter
mostrare sul proprio biglietto da visita, ha — più che voluto — desiderato
scrivere un testo che non ha per tema centrale qualche «cronoscopia
poesimetrale» o «prosopopeico coriambuso» espressi in chissà che sfilza di
arzigogoli. No! E può tirare un sospiro di sollievo chi stava già munendosi di
una caraffa d’acqua e di una confezione grande di bicarbonato, come accade
sovente in simili casi per tentare di digerire,
ad ogni piè sospinto, una qualche illustrissima ed orripilante
sentenza dotta. No. L’ottimo Buonfiglio ammette di volersi scrollare di dosso
quelle paludanti diàtribe accademiche che tengono la maggioranza dei moderni
lettori alienata da un messaggio che non necessita affatto di essere filtrato,
semplificato né tràdito in altra lingua rispetto a quella in cui fu rivelato
dapprincipio, allorquando il Dio d’amore pose la luce nelle tenebre in cui
l’umanità era avvolta, chiamando (o richiamando) a sé l’uomo per farlo risalire
dal baratro ineluttabile in cui l’oscurità lo aveva spinto. È questo il punto
centrale della questione: vi si può giungere dall’inizio, dalla creazione di un
mondo perfetto presto contaminato dal male; o dalla fine, dalla caduta sempre
più in basso di un mondo che è invece già del tutto dilaniato dal peccato e
dalle sue conseguenze, dove non paiono esservi più giustizia né requie. L’amore
di Dio — o il «Dio che è Amore» — si pone come filo di continuità in tutta la
vicenda umana. Un filo eterno, perché Egli era prima delle origini e sarà anche
dopo la fine, e… rosso, come l’amore di una persona onnipotente e inarrivabile
che dà la vita e la sostiene seguendola passo per passo, senza degnazione ma con
tenerezza infinita e pietà; rosso come il sangue del Figlio, di Gesù Cristo, che
ha compiuto l’unione perfetta immolandosi innocente. Se non fosse da parte mia
uno spudoratissimo plagio, potrei azzardare la proposta di ribattezzare l’opera
uno «Studio in Rosso», che ha per scopo principale la scoperta delle coordinate
(il come, dove, quando e perché) con cui il vero Dio si è rivolto all’uomo
desiderando straordinariamente di averlo con sé, presso di sé in eterno:
«Chi entra in comunione con l’uomo non è
l’Iddio astratto dei filosofi, né un dio impersonale delle religioni orientali,
o un dio panteistico che si confonde con l’universo, né un dio trascendente che
non si occupa delle creature da Lui create; è l’Iddio personale, trascendente ma
al tempo stesso immanente, l’Iddio che vuole incontrarsi con lui e che lo ama
ancora prima di incontrarlo» (p. 151).
L’autore prova ad analizzare i sentieri
di diversa origine (anche se, consentite di dirlo, a volte tortuosamente) con
cui, attraverso tutto l’arco della storia, l’uomo si è ingegnato a distanziarsi
dal proprio Padre Celeste, ad ignorarlo e finanche a negarlo in uno strozzato
grido di libertà che è del tutto vano e, magari, anche infinitamente ridicolo
alle orecchie del principe di questo mondo. Ma l’Eterno ci ha amati per primo,
ed Egli non si tira indietro, non viene meno a se stesso — nella sua essenza che
è l’amore — né cambia mai.
Sorvolando, come è mio del tutto
personale consiglio, sulle digressioni di natura più strettamente teologica
(seppur perfettamente accessibili sia per esplicazione che per linguaggio) — per
il solo fatto che a volte esse tendono a portare più scompiglio che altro in un
pensiero che non abbia un’impostazione quantomeno consistente, se non prese con
la dovuta cautela — quest’opera esprime chiaramente la ferma volontà
dell’autore, seppur dai bastioni di una imponente roccaforte filosofica (e
questo va tenuto presente), di far capire qualcosa che semplicemente è
fondamentale che tutti capiscano. Non vi è più, infatti, un abisso tra Dio e
l’uomo, e l’Iddio sconosciuto si è rivelato una volta e per sempre. Una Via è
stata tracciata, in rosso, fino ai piedi del Trono della Grazia da un Padre che
attende sulla porta di casa che il figlio prodigo si decida infine a tornare a
Lui, quale gesto di amore infinito (p. 146). Egli attende in virtù di quella
libertà meravigliosa di cui ci ha fatto dono fin dalla creazione e che non è mai
venuta meno.
«Voi mi cercherete e mi troverete,
perché mi cercherete con tutto il vostro cuore» (Gr 29,13).
Tutto ciò può essere inteso solamente in
due modi, a seconda del nostro cuore, e così l’ha inteso l’uomo quando ha
cercato Dio e Lo ha rigettato, quando L’ha invocato e Lo ha abbandonato:
straordinariamente meraviglioso o ineffabilmente insensato.
In qualsiasi caso è davvero tempo di conoscere
l’Eterno. {Giada Pietrangeli, recensione comparsa in Lux Biblica 29
(IBEI, Roma 2004), pp. 195s}
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Terzo:
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Quarto: